7.5.13

All'ombra della gobba di Belzebù

Re Giorgio, di solito così loquace quando si tratta di raccordare la cronaca politica e la storia (vedi i suoi continui riferimenti al cosiddetto «compromesso storico» degli anni Settanta, ricercato dai politici della Prima Repubblica per mettere in sicurezza il Bel Paese), ieri è stato fin troppo scarno di parole a proposito della dipartita di Andreotti. Egli ha infatti «affidato alla storia» un giudizio ponderato sulla lunga carriera politica dell’ex Male Assoluto del sinistrismo italiano. Imbarazzo? Tentativo di non esacerbare i già tesi rapporti politici tra i partiti? Strizzatina d’occhio al Movimento pentastellato, il quale non sa dire altro di Belzebù se non ricordare la sua intima amicizia con la Mafia (con la M maiuscola)? L’atteggiamento del Presidentissimo mi appare fin troppo… andreottiano. D’altra parte anche l’attuale «Governo del Presidente» sembra avere un alto tasso di democristianità. Forse tutto si tiene. Forse.
La rete, com’è noto, è il luogo per antonomasia delle banalità e dei luogocomunismi, di “destra” e di “sinistra”, e un personaggio così controverso e ambiguo (?) com’è sempre stato Andreotti, non poteva che confermare questo dato di fatto. Esaltandolo. Appena se ne offre l’occasione, ci si lascia andare al più spietato dei tiri al bersaglio ai danni del capro espiatorio di turno. Non c’è tempo per le sottigliezze analitiche: bisogna scaricare subito la dose di veleno quotidiano contro il Nemico di giornata per sentirsi migliori dell’odiata «Casta», e così calmare almeno un poco le frustrazioni e le angosce. Non a caso le foto che da ieri più impazzano sulla rete sono quelle che mostrano insieme Andreotti e Berlusconi: il vecchio Nemico Assoluto che passa il testimone a quello nuovo. Però «Andreotti è stato un imputato esemplare», ha fatto sapere in lacrime Giulia Bongiorno, l’ex avvocato del gobbo di Roma. Una precisazione davvero degna di Miserabilandia, non c’è che dire.
«Siamo tutti pieni di pregiudizi convinti di pulir l’Italia da tutti i vizi», cantava agli inizi degli anni Novanta Francesco Baccini in Giulio Andreotti, ironizzando sulle feroci accuse che raggiunsero il Divo Giulio non appena rotolò nella polvere dopo mezzo secolo di brillante, onorata e onesta gestione del potere al servizio della Patria – scritto senza alcuna retorica. Quando Paolo Cirino Pomicino deride le «leggende metropolitane» che si sono accumulate intorno alla figura ingobbita del suo ex maestro e leader politico, egli mostra di possedere una statura politica di gran lunga superiore ai detrattori «per partito preso» del grande statista romano.
Grande, va da sé, non sulla scorta del mio metro, ma dal punto di vista degli «interessi generali del Paese», ossia degli interessi delle classi dominanti, i cui statisti sono chiamati ad assecondarne al meglio il potere sociale, anche in rapporto agli interessi delle classi dominanti degli altri Paesi, e ad assicurare la continuità del Dominio.
Onesta gestione del potere nonostante i «compromessi» con la Mafia, con la P2, con Gladio, con il Vaticano e con chissà quanti altri «poteri occulti»? Naturalmente! Di più: onesta anche grazie a quei «compromessi», perché il bene superiore della Patria (detto come sopra), quello che piace tanto ai miei connazionali e che invece ripugna nel modo più tetragono il sottoscritto, ha bisogno che qualcuno si sporchi le mani. Questo non l’ha insegnato Machiavelli, o Aldo Moro (prima della nota beatificazione progressista post assassinio), ovvero Belzebù-Andreotti: questo lo conferma sempre di nuovo la prassi del Dominio, in regime dittatoriale come in regime democratico-parlamentare. Ciò che ha fatto di Giulio Andreotti uno statista non mediocre è stata appunto questa consapevolezza, questa chiara, e a volte esibita (ma anche esorcizzata, con l’ironia) convinzione di «dover portare la croce» per il bene del Paese e del Partito, due beni che per i democristiani naturalmente coincidevano.
«Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto di ordinaria amministrazione», scriveva Piero Gobetti nel 1922. «Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l’autobiografia della nazione» (Elogio della ghigliottina, un titolo, detto per inciso, che ammicca ai nostri demagogici tempi). Mutatis mutandis, è ciò che si può dire della Democrazia Cristiana e di Andreotti. Chi oppone l’Andreotti «servo sciocco degli americani» all’Andreotti «amico degli arabi e di Gorbaciov»; l’Andreotti «anticomunista» all’Andreotti «aperto alle grandi convergenze con i comunisti»; l’Andreotti amico della Germania all’Andreotti avversario fino all’ultimo dell’unificazione tedesca; l’Andreotti «amico della Mafia» (mitico bacio a Totò Riina incluso) all’Andreotti amico di Falcone e nemico della Mafia (fino al punto di maltrattare la mitica Costituzione Italiana, come sostennero i radicali ai tempi del varo delle leggi eccezionali contro i mafiosi); ebbene chi azzarda un’operazione politica di questo tipo si preclude la possibilità di comprendere l’azione politica dello statista italiano, uno dei più grandi nella storia dell’Italia post risorgimentale, e certamente post Seconda guerra mondiale.
La complessa struttura sociale del Paese, i poteri e gli interessi politico-sociali che vi si sono consolidati nel corso dei decenni, il suo ruolo internazionale e la sua collocazione geopolitica, le sue ambizioni (che gli derivano anche dal retaggio storico) e i suoi limiti oggettivi: questi e altri fattori hanno trovato per tanto tempo in Andreotti un’espressione quasi plastica, com’era accaduto in passato forse solo con Giolitti. All’anima di Belzebù questo spericolato accostamento storico certamente non dispiace, e io non trovo nulla di sconveniente in questo estremo compiacimento.

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