18.12.14

Anonimi militanti

 
"La Rivoluzione non ha bisogno nè di eroi nè di martiri ma di anonomi militanti"
                                                                                                                               Lenin

Gli scioperi in Belgio sono di esempio per tutti i lavoratori europei

Lunedì 15 dicembre sarà la data culmine di un lungo periodo di scioperi e agitazioni che scuotono il Belgio dall’estate
Il nodo attuale sono le misure decise, su pressione europea, dal governo Michel (nota 1), insediatosi dopo quattro mesi di trattative nell’ottobre 2014: 11 miliardi di € di risparmi sul bilancio in 5 anni, l’aumento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni, tagli alla sanità, tagli salariali (riduzione dell’aggancio dei salari all’inflazione con un risparmio di circa 3 miliardi di € e una perdita pro capite per ciascun lavoratore di 340 € all’anno), taglio degli assegni sociali e di disoccupazione, riduzione del diritto di sciopero.
L’argomentazione principale dei sindacati, che hanno realizzato un fronte unitario di azione, è che tutti i tagli riguardano i lavoratori, che sono fra l’altro i più tassati d’Europa, mentre le rendite finanziarie e immobiliari sono esenti
A onor del vero Michel prosegue sulla linea di austerity impostata dal precedente governo di Elio Di Rupo nel triennio 2011-14. Quello che ha fatto la differenza è che i socialisti, esclusi dal governo per la prima volta da 26 anni, hanno spinto le burocrazie sindacali, prima assai tiepide e conciliatorie, a prendere la guida della protesta operai, anche perché rischiava di sfuggire loro di mano. Le lotte infatti hanno sorpreso i burocrati sindacali per estensione e durezza (La Libre 8 novembre). Se il nuovo governo vira a destra, alle elezioni il PTB+ (una coalizione di Partito dei lavoratori del Belgio, Partito Comunista belga e Lega Comunista rivoluzionaria) ha superato lo sbarramento del 5%. Questo a ridato energia a frange sindacali indipendenti e radicali che hanno costretto i sindacati tradizionali a impostare una serie di scioperi coordinati da un fronte unitario (a cui aderiscono SCS , FGTB Federazione generale dei lavoratori belgi, FGSLB ecc). I burocrati di lungo corso stanno in realtà trattando col governo lontano dalle luci della ribalta, ma intanto hanno avallato le lotte.
A fronte dei lavoratori che vedono peggiorare le loro condizioni sta una classe dirigente di grandi ricchi (il Belgio paese di antica industrializzazione e di capitalismo maturo presenta una concentrazione della ricchezza, in particolare finanziaria notevole) e una classe politica disgregata e incapace di trovare formule di governo stabili (fra il 2010 e il 2011 il paese restò senza esecutivo per 18 mesi). Quindi un paese in continua crisi di squilibrio caratterizzato da successo economico e inefficacia della rappresentanza politica, spaccato in due dall’eredità storica (la metà olandese e la metà francese, fiamminghi contro valloni), che deve fare i conti con una immigrazione consistente dall’Africa e dai paesi arabi . Ospitando nella sua capitale le principali istituzioni europee, i lavoratori trovano facilmente modo di unire la contestazione del proprio governo alla contestazione dei burocrati europei.
E se il partito vittorioso alle ultime elezioni (33% dei voti), NVA (Nuova Alleanza Fiamminga) è parzialmente euroscettico, la maggior parte dei fiamminghi vagheggia un secessionismo più o meno radicale, con annesso taglio delle spese sociali e un indurimento delle politiche anti-immigrazione (l’NVA ha espresso l’obesa leader De Block responsabile di 13 mila immigrati arrestati nei primi sei mesi del 2013; record di richiedenti asilo respinti in patria che poi sono stati uccisi, brutalità della polizia contro gli immigrati). Insomma l’NVA è una versione belga del leghismo nostrano, ma con un peso economico ed elettorale di ben altra consistenza (i fiamminghi sono il 58% della popolazione, che si attesta sui 10,6 milioni).
Le proteste sindacali sono iniziate a partire dal 2012 nell’area vallona, il sud un tempo centro di un impero minerario siderurgico, travolto negli anni ’60 dalla ristrutturazione internazionale e quindi oggi povero e “assistenzialista”, dove cioè il taglio del welfare colpisce strati ampi di lavoratori e pensionati impoveriti. Pian piano si sono estese al nord, ricco e produttivo, dove però si comincia a scontare la chiusura di alcune fabbriche, una parziale crisi del porto di Anversa, i tagli pesanti nelle ferrovie .
Come la politica così anche le azioni sindacali sono pesantemente condizionate dalla doppia anima linguistica del paese.
Sono stati i ferrovieri per primi a rompere lo schema, su iniziativa della CGSP, e a impostare scioperi in tutto il territorio nazionale paralizzando il paese fra giugno e luglio, forti di una tradizione organizzativa e rivendicativa di tutto rispetto. Ma anche nel loro caso mentre in Vallonia e a Bruxelles non ha viaggiato alcun treno, nelle Fiandre era operativo un treno su tre; tuttavia il danno inflitto agli Eurostar e al gestore internazionale Thalys è stato notevole. La protesta riguarda la “riforma” ferroviaria cioè la netta separazione del gestore dell’infrastruttura (pubblico) dall’operatore (privatizzato) con creazione di rami indipendenti (logistica, trasporto merci, passeggeri, controllo informatico), che ha comportato tagli del personale, espansione dei contratti a termine o stipulati tramite cooperative, l’apparto di certi servizi. Peccato che la loro lotta non sia stata collegata a quella dei ferrovieri tedeschi, francesi e svedesi che sono state quasi contemporanee.
L’atmosfera si è scaldata in ottobre con una serie di scioperi regionali fra il 16 e il 24 ottobre: i manifestanti avevano bloccato l’attività del porto di Anversa, chiuse scuole, uffici, supermercati.
Il 6 novembre concentrazione di operai a Bruxelles (circa 150 mila), la più importante dagli scioperi del 1960-61, con presenza di delegazioni dal settore chimico farmaceutico, trasporti, porti, acciaio, aerospaziale (con massa d’urto rappresentata da portuali e siderurgici). Importante il superamento degli steccati linguistici. Presenza anche di studenti e centri sociali. La manifestazione è punteggiata da scontri di piazza, vengono caricati dalla polizia i portuali di Anversa (molti feriti, trenta arresti). Gruppi neo nazisti attaccano fisicamente il Partito Socialista, francofono, che ha messo il cappello politico alla manifestazione
I giornalisti notano nei cortei la presenza di n numerosi giovani, arrabbiatissimi, provenienti da Liegi, dove molte fabbriche fra cui la Mittal hanno chiuso e pronti allo scontro fisico c0n la polizia; sono loro che hanno occupato la sede di Confindustria a Bruxelles e bloccato la circonvallazione esterna della capitale.
Il 24 novembre sciopero “regionale” a Anversa, Hainault, Limburgo e Lussemurgo che riesce perfettamente corredato da picchetti, riguardanti circa 400 luoghi di lavoro con più di 100 dipendenti, blocchi stradali, cortei. Viene bloccata tutta la produzione delle industrie hi-tech. Bloccato l’aeroporto di Charleroi,. Fermi tutti gli autobus e i treni, i centri commerciali, banche , scuole, ospedali. Scioperano anche i netturbini e i giudici.
L’8 dicembre in coincidenza della riunione dell’Eurogruppo, Bruxelles è paralizzata. Incide soprattutto lo sciopero dei trasporti (autobus, treni e metropolitane e l’aeroporto di Zaventem). I ferrovieri bloccano l’intero paese e anche i collegamenti delle principali città (Anversa, Namur, Liegi) con il resto d’Europa. Picchetti sbarrano l’entrata di più di 300 imprese nel Brabante, sia fiammingo che vallone (nota 1). Bloccati i corrieri privati; blocchi stradali sulle arterie di collegamento extraurbano. Bloccate le lezioni in tutti gli ordini di scuola. Picchetti anche davanti ai supermercati (Le Soir 9 dicembre). Ai cortei partecipano gli universitari, gli attori dei teatri, ma anche le piccole officine. Sono stati diffusi 1, 2 milioni di volantini
Questa breve rassegna degli avvenimenti ci permette di verificare le somiglianze con la situazione italiana (là la polizia picchia i portuali, qui i metalmeccanici, simile la ristrutturazione delle ferrovie, simili gli obiettivi iugulatori hesie). La grossa differenza è che tutto quello che i lavoratori belgi stanno per perdere (welfare, contingenza, contratti a tempo indeterminato ecc), gli italiani l’hanno perso molti anni fa (salvo forse l’età pensionabile)
In conclusione c’è un’aria di famiglia nei comportamenti delle borghesie europee, ma certamente i lavoratori belgi hanno combattuto meglio le loro battaglie di difesa e hanno, per loro fortuna, ancora molto da perdere e stanno ancora combattendo con grande vigore, così come hanno fatto i lavoratori greci prima di loro. E con le loro lotte mandano un forte segnale ai lavoratori italiani.
1) Il governo di Michel, un liberalista francofono che guida il MR (Movimento di Riforma) comprende i principali partiti fiamminghi di destra fra cui NVA (Nuova Alleanza fiamminga), che grazie al 33% dei voti ha ottenuto i ministeri più importanti (le finanze, gli interni, la difesa e la funzione pubblica), CD&V (Partito cristiano democratico fiammingo) e Open VLD (Partito dei Liberali Democratici Fiamminghi Aperti).

Togliatti l'infame

Dal sito: Avantibarbari.it

(...) Riproduciamo quindi quanto il programma comunista scrisse dopo la sua [di Palmiro Togliatti] dipartita a Yalta nell'agosto del 1964 e un simpatico articolo successivo motivato dal ricordo che, a un anno dalla morte, ne fece Rossana Rossanda dalle colonne di «Rinascita».

La controrivoluzione ha esaltato se stessa piangendo un suo figlio e strumento

Quando, nel 1956, il XX congresso del partito pseudocomunista russo rovesciò il culto dell'eroe-Stalin nell'anti-culto dello Stalin-demonio, noi ci chiedemmo nel «Dialogato coi Morti» se ci trovavamo di fronte ad «un congresso di marxisti demolitori del culto della Personalità o non piuttosto di professionali lustratori di stivali, che reagivano alla disoccupazione costituendo una cooperativa di geni da dozzina», ed era una domanda in cui era implicita la risposta: «Da Stalin ad un comitato di sottostalinisti, nulla è capovolto». E vi era implicita la spiegazione: il culto della personalità è l'ossigeno in cui vivono il parlamentarismo, l'elettoralismo, la democrazia, e quindi il veleno di cui muore la rivoluzione: «Come si pigliano voti - e quella gente avrà da pigliarne ancora - se non si usa il mezzo base del tifo per l'uomo politico? Come si conserverebbero le ondate di simpatia per i simboli del fronte popolare o dell'unità del lavoro se non con la frenesia per le gesta del men che mediocre materiale umano, di leva nazionale, provinciale o paesana, suscitata coi soliti mezzi nelle masse amorfizzate e diluite nel gregge degli «onesti, dei «buonvolontisti» e simili?».

Queste parole ritornano alla nostra mente oggi, dopo la regia colossale dell'apoteosi del Migliore, inscenata nello stile più puro del culto della Personalità viva o defunta, fra preghiere di sacerdoti in sottana nera o in abito civile, fra piagnistei di lustratori di stivali in veste di «uomini di cultura» alla ricerca di una pubblicità rumorosa e popolaresca, fra discorsi inneggianti all'immortalità appunto del genio, sia pure da dozzina, come arma pubblicitaria per raccogliere voti a favore dei geni da strapazzo ancora in vita. Ma, per noi che non crediamo né al demiurgo creatore di storia né al demone disfacitore di storia, questa apoteosi di uno fra i più squallidi rinnegatori del marxismo ha un solo significato reale, obiettivo, storico: è l'apoteosi non del riformismo classico che era almeno «una cosa seria», ma del super riformismo moderno, cioè di una risibile, miseranda cosa di fronte al giganteggiare delle nubi grevi di lacrime e sangue pesanti sull'esercito innumere degli sfruttati. E' stato questo il protagonista dei riti di magia nera organizzati dalle Botteghe Oscure per le vie di Roma: non un uomo, ancora una volta, ma una realtà oggettiva, una forza impersonale, una macchina di sfruttamento e di oppressione. Di questa forza, di questa macchina anonima, l'uomo chiuso nella bara era stato uno strumento; in lui si celebrava essa, la controrivoluzione che ha riempito di sangue proletario le fosse di tutta la terra, che ha fatto rotolare - ogni volta con telegrammi di plauso di Togliatti a Stalin - le teste non solo dei grandi rivoluzionari della vecchia guardia bolscevica, ma di migliaia e centinaia di migliaia di proletari oscuri dell'eterno ceppo marxista: ben s'inquadrava in questa cornice la preghiera papale al morente, ben ci stava l'epitaffio che da tutte le parti della barricata democratica è stato scritto al defunto!

Prendiamolo, questo epitaffio, come il monito lanciato ai vivi della controrivoluzione mondiale. «E' morto un grande italiano»: dunque, un rinnegatore della fiammeggiante tesi marxista che «i proletari ( e a maggior ragione i comunisti) non hanno patria». Era (giusto, Breznev!) un «autentico patriota»; dunque, un seppellitore dell'internazionalismo, senza il quale il socialismo cessa semplicemente d'essere socialista. Indicò «vie nazionali» al «popolo»; nessuna Internazionale rivoluzionaria e proletaria potrà più rinascere dalla congrega sfilante dietro la sua bara. Volle «la pace»; quindi negò la rivoluzione che sola può uccidere la guerra. Giurò sulla «democrazia»; quindi abiurò per sempre quello che secondo Marx è il cardine distintivo del comunista, la dittatura della classe oppressa sulla vinta classe sfruttatrice. Lottò per il «progresso»; dunque, per l'ideologia borghese di uno sviluppo tranquillo della «civiltà» contro l'ideologia della rottura rivoluzionaria della borghese «società civile». Combatté per il «benessere delle classi lavoratrici»; dunque, non per una società nuova, in cui non ci saranno più classi, ma per la società di oggi condita di qualche riforma destinata - come sognano i riformisti di origine socialista, o i riformisti di ceppo borghese alla Keynes - a distribuire «meglio» i redditi e i consumi lasciando in piedi il meccanismo della produzione di merci. Inneggiò alla «coesistenza pacifica fra regimi sociali diversi»; dunque (vero Mikoyan?), inneggiò al commercio, allo scambio monetario, all'interpenetrazione di due supposti mondi sociali diversi; dunque, alla piena restaurazione e generalizzazione del sistema capitalista, mercantile, salariale, attuariale, alla ricostruzione delle classiche categorie dilette ai borghesi, del profitto, dell'interesse, della rendita, dell'utile aziendale e via discorrendo, che proprio in questi giorni gli eminenti accademici Trapeznikov e Volkov contrabbandano a Mosca come squisitamente «socialiste»; dunque, al modo di produzione chiamato prima o poi (se manca l'incendio rivoluzionario) a travolgere nel baratro della guerra qualunque «benessere», «progresso», «pacifico accordo», «scambio onesto». (L'Unità, rinunziando in un primo tempo a parlare di Togliatti come del fondatore del P.C.d'Italia a Livorno e rivendicandogli il merito - reale per dei borghesi - di aver creato un «partito nuovo di tipo nazionale» dopo il '26, ha ricordato con orgoglio che, di fronte al primo conflitto mondiale, il giovane Migliore si schierò con quelli che lo videro dall'angolo delle particolari «questioni nazionali italiane»; insomma, con gli interventisti: su questo terreno la «coerenza» c'è dunque stata, in lui, dal principio alla fine; e ci sarà nel partito dopo la sua morte). Fu un «flessibile», un «creatore» aderente al «concreto»: infatti, cambiò vela ogni volta che il vento dominante mutava senso, ed è inutile che qui ne ricordiamo le tappe, dal filo estremismo al filo bucharinismo, dal pieno stalinismo fino all'anti ... stalinismo di comodo. Val la pena (senza cedere al vomito) di continuare? Nel suo discorso di addio, Longo ha definito così quello che «il Partito comunista italiano ha sempre affermato e afferma»: «difesa e sviluppo della democrazia, libera dialettica fra tutti i partiti e tutte le forze democratiche, necessità di una loro collaborazione in un sistema di ampie autonomie, rispetto della libertà religiosa e della libertà della cultura». E' questo il corteo di divinità (unite alla pace, alla coesistenza, all'affermazione della personalità umana e via elencando) che è sfilato per Roma: non un cadavere ma forze malauguratamente vive - le forze del più feroce, del più sbracato, del più squallido ultrariformismo. Ad esso andava l'apoteosi di tutti dietro la facciata dell' «unanime cordoglio» per il collega in «creatività», cioè in rifriggimento in centomila varianti dell'antico testamento idealista. e democratico, e borghese.

Nel 1956 scrivemmo:

«Proprio la controrivoluzione è «creativa», e le si scoprono, vivendo la storia, le più nuove e inattese forme e manifestazioni. In questo senso abbiamo molto appreso da mezzo secolo di tradimenti al proletariato socialista.

«E' la rivoluzione che è una; ed è sempre lei, nel corso di un arco storico immenso che si chiuderà come si è aperto e dove ha promesso; dove ha appuntamento forse con molti dei vivi, ma certamente coi nascituri, come coi morti: questi sapevano che essa non manca mai, non inganna mai. Essa, nella luce della dottrina, è già scontata come cosa vista, cosa viva».

Su essa, e solo su essa, noi giuriamo.

il programma comunista, n. 16, 7 settembre 1964 


Un apostolo della Santa Inquisizione

Nel primo anniversario della morte, Palmiro Togliatti è stato ricordato da «Rinascita» sulle cui colonne Rossana Rossanda analizza l'influenza esercitata dal capo dello stalinismo italiano sulla «cultura» del «ventennio» post-fascista. A questa analisi noi vogliamo offrire un piccolo, modesto contributo.

Quando nel 1936 il Cremlino diede inizio ai «processi-purga» con cui fu liquidata la vecchia guardia bolscevica, Palmiro Togliatti scrisse un lungo saggio intitolato: «Gli insegnamenti del processo di Mosca» apparso sulla rivista «teorica» del P.C.I. all'estero, «Stato Operaio». Di questa, gli Editori Riuniti hanno recentemente pubblicato una antologia in due grossi volumi, ma chi li sfogli non trova nemmeno la traccia del sullodato saggio di Togliatti. Franco Ferri, curatore dell'antologia e grande storico... obiettivo, non fornisce ragione alcuna né della scelta né delle omissioni, ma la ragione dell'una e delle altre è evidentemente una sola: stendere una foglia di fico sulle vergogne dello stalinismo italiano. Nell'attesa dunque che il saggio di Togliatti venga finalmente ripubblicato, non ci resta che raccomandarci all'obiettività del senatore Umberto Terracini, avendo egli promesso dalla tribuna del recente congresso del P.C.I. un'edizione completa delle opere di Togliatti. Noi lo ringraziamo in anticipo e affermiamo senz'altro che se avessimo avuto qualche milione da spendere avremmo già da tempo pubblicato l'opera omnia di Togliatti, così come i cinesi stanno pubblicando in Cina l'opera omnia di Kruscev. Poter seguire nel tempo le evoluzioni di una delle più tipiche figure (o vorremo dire «figuri»?) della politica stalinista può rappresentare un'ottima propedeutica, nonché un'operazione utile alla salute, essendo una fonte di inesauribile spasso.

Nell'attesa abbiamo rintracciato il saggio «Gli insegnamenti del processo di Mosca», e di esso vogliamo servirci per recare il nostro modesto contributo all'analisi che Rossana Rossanda ha iniziato su «Rinascita» intorno all'influenza di Togliatti sulla «cultura» del «ventennio» post-fascista. Orbene , nel saggio citato, il «Migliore» fece sfoggio delle sue brillanti doti di intellettuale formatosi alla scuola di Gramsci e Gobetti, e manifestò la finezza del suo gusto letterario in titoli di questo genere: «La collaborazione della polizia con i banditi trotzkisti».

Ma una delle qualità più spiccate di Palmiro fu, come è noto, il suo grande amore per la tolleranza, poi manifestatosi appieno nel «dialogo» da lui iniziato con il Papa di Roma. Non per nulla gli Editori Riuniti hanno recentemente ripubblicato il noto scritto di Voltaire, il quale era un nemico spietato del cattolicesimo, con l'introduzione di Togliatti, il quale lustrò gli stivali del re d'Italia e baciò in effigie la sacra pantofola. La profonda umanità che ha caratterizzato la vita di Palmiro è universalmente riconosciuta. E dunque, noi vogliamo citare un passo del sullodato saggio «Gli insegnamenti del processo di Mosca» che dimostra ancora una volta quanto Togliatti fosse «umano» e «tollerante».

Nel 1937 vi erano dei «mostri» e dei «banditi» che si permettevano di porre in dubbio le confessioni estorte agli accusati nei processi-purga di Mosca. Vi erano dei «criminali» che dinanzi alle affermazioni di Togliatti - «la collaborazione della polizia con i banditi trotzkisti» - avevano il coraggio inaudito di domandare semplicemente: Dove sono le prove?!?

E Togliatti, nel 1937, rispose. Rispose a questa domanda con un acume, una profondità, una umanità, una tolleranza, degni di passare alla storia. Rispose con le seguenti, memorabili, parole: «Nessuno può mettere in dubbio l'autenticità di fatti confermati da una riprova che è sempre stata considerata, da quando esistono al mondo una giustizia e dei giudici, come decisiva e irrefutabile: la confessione degli accusati» ( Da «Gli insegnamenti del processo di Mosca», in «Il complotto contro la rivoluzione russa» E.A.R., 1945, p. 40).

Quando le streghe confessavano di fare all'amore con il diavolo, si possedeva dunque la prova della loro colpevolezza, e in nome della giustizia dovevano essere bruciate vive! E la Santa Inquisizione era un modello di «tolleranza» e «umanità». A questo modello Palmiro Togliatti si è ispirato nel corso della sua vita e gli «intellettuali» italiani passati dal fascismo all'antifascismo possono guardare alla sua figura come ad uno specchio in cui contemplare se stessi.

il programma comunista, n. 9, 25 maggio - 10 giugno 1966

14.12.14

Mafia DEL capitale

Da giorni tiene banco sui giornali l’inchiesta sulla cosiddetta Mafia capitale, l’organizzazione criminale che manipolava la vita economica dell’urbe fra commesse clientelari, mazzette e legami malavitosi.
Ciò che sorprende non è tanto la presenza del malaffare nella politica: da diverso tempo le inchieste su rimborsi elettorali, tangenti per le opere pubbliche e tesseramenti falsi che mascherano finanziamenti occulti ci hanno abituato alla simbiosi fra illegalità e politica borghese.
Casomai colpisce l’estensione e la penetrazione nel mondo della politica di questa “società per azioni a delinquere” che aveva i propri referenti un po’ in tutti i partiti e che era sempre pronta a saltare da uno schieramento all’altro a seconda di chi fosse il vincitore nella competizione elettorale. Infatti se le principali accuse si concentrano sulla passata gestione del comune – quella della giunta di destra guidata dell’ex missino Gianni Alemanno – fra arrestati e indagati non mancano certo esponenti locali del Partito Democratico (l’assessore alla Casa Daniele Ozzimo, il responsabile della direzione Trasparenza Italo Walter Politano – alla faccia della trasparenza! –, Luca Odevaine, ex capo di gabinetto dell’allora sindaco Walter Veltroni…). Colpisce che ai vertici della “cupola imprenditoriale” ci fossero due criminali riciclati, l’omicida Salvatore Buzzi, ma soprattutto l’ex terrorista nero Massimo Carminati, uomo passato per i NAR e la Banda della Magliana, usato da apparati dello stato per i lavori sporchi.
Quello che però è più significativo è la particolarità di una organizzazione mafiosa che agisce non solo nell’illegalità ma spesso ai suoi confini: se non disdegna l’usura e l’estorsione, il suo business principale è la gestione dei servizi pubblici e sociali, dei campi nomadi, dei centri di accoglienza per gli immigrati. Come diceva Buzzi al telefono coi suoi “compari” (o coi suoi soci d’affari, che dir si voglia): “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”.
E per la protezione di questo business che dipende strettamente dalle commesse pubbliche, i membri della cupola non risparmiano soldi: uomini politici su libro paga, ma anche a dirigenti delle partecipate; infatti da un vero e proprio libro mastro di Salvatore Buzzi sarebbero emersi 15.000 euro al mese per l’amministratore delegato dell’AMA Franco Panzironi, 5.000 per il dirigente Eur SpA Carlo Pucci, altrettanti per Luca Odevaine, 10.000 euro una tantum per il consigliere regionale PD Eugenio Patanè, 75.000 euro in cene elettorali per Gianni Alemanno, e così via. Ma anche finanziamenti a fondazioni e comitati elettorali: 40.000 euro alla fondazione Nuova Italia di Gianni Alemanno, 30.000 per la Fondazione Alcide De Gasperi presieduta da Angelino Alfano, 10.000 al comitato elettorale di Emma Bonino che si era candidata alla presidenza della Regione Lazio. Una vera e propria attività di lobby per la difesa dei propri interessi economici, per coltivare e ampliare quei legami con la politica che garantivano accesso privilegiato a lavori che avrebbero dovuto ridurre il disagio sociale ma che fruttavano milioni a danno delle casse dello stato.
Una foto del 2010 ritrae il ministro del Lavoro Gianni Poletti a cena con Buzzi, Alemanno, Panzaroni e Ozzimo, cena che secondo Umberto Croppi, ex assessore alla Cultura nella giunta Alemanno, era stata organizzata per festeggiare un nuovo sistema di finanziamento che permettesse di pagare le cooperative (in questo caso, la coop “29 giugno” di Buzzi) nonostante il comune avesse le casse vuote. Poletti, presente in quanto Presidente della Lega delle cooperative, a cui aderisce la “29 giugno”, si difende: “se fai il presidente delle Coop o di Confindustria e della Confartigianato o di qualsiasi associazione di qualche rilievo, è ovvio che partecipi a tante iniziative e incontri tante persone […] inevitabilmente partecipi a migliaia di incontri e di certo non puoi conoscere tutti quelli che aderiscono alla stessa iniziativa”.
Quella foto è solo l’aspetto di maggiore rilevanza mediatica riguardo alla collusione fra il mondo delle cooperative e quello del crimine. Come sanno bene i compagni che operano nelle lotte della logistica, le cooperative spesso si configurano come associazioni a delinquere finalizzate all’evasione fiscale e contributiva, oltre che allo sfruttamento schiavistico. I soci-lavoratori fanno orari di lavoro massacranti con salari orari ridottissimi, salari su cui vengono fatte ulteriori decurtazioni sia derogando dal pur miserrimo contratto nazionale, sia frodando sul conteggio delle ore lavorate. E non mancano gli interventi diretti della criminalità organizzata che vede nelle cooperative un ottimo investimento sia per il riciclaggio del denaro sporco sia per lo sfruttamento brutale della manodopera.
Ora Renzi si erge a censore, promettendo un inasprimento delle pene per corrotti e corruttori. Questo nonostante fra gli arrestati ci sia qualche suo commensale alla cena di finanziamento del PD (la famosa cena da mille euro), nonostante abbia fatto approvare un Jobs Act che estende le precarietà rendendo i lavoratori più ricattabili da padroncini senza scrupoli come quelli delle cooperative, e un decreto Sblocca-Italia che elimina controlli e vincoli ambientali rendendo più facili abusi edilizi e corruzione.
In un mondo fondato sullo “spietato pagamento in contanti” è inevitabile che le istituzioni “democratiche” siano un comitato d’affari per meglio organizzare lo sfruttamento, che la tangente sia un investimento, la politica una continuazione della carriera con altri mezzi, l’illegalità un campo d’azione come gli altri. Quella di Roma è la “mafia del capitale”, la semplice evoluzione di un sistema che punta a massimizzare il profitto con ogni mezzo, sia esso lo sfruttamento più brutale dell’uomo sull’uomo o l’organizzazione mafiosa; un sistema ampiamente tutelato da chi oggi si scandalizza davanti alle telecamere mentre dietro le quinte continua gli intrallazzi col potere economico, legale o meno, intrallazzi dai quali può ricavare finanziamenti e appoggi per l’attività politica e spesso anche vantaggi personali.
Solo un sistema fondato sui bisogni dell’uomo e non sul motto pecunia non olet potrà porre definitivamente fine sia alle cosche mafioso-imprenditoriali che sono parte integrante della borghesia, sia allo sfruttamento su cui si fonda ogni attività economica capitalista, legale o illegale che sia. Per questo serve un’organizzazione politica che sappia contrapporre una prospettiva rivoluzionaria all’inevitabile corruzione del sistema politico borghese, che dia coscienza politica alla sempre più estesa indignazione testimoniata dalla crescente astensione alle elezioni, che unisca le forze rivoluzionarie contro le politiche del grande capitale e i populismi reazionari, che guidi i lavoratori alla conquista di una società senza classi.


Es criminal..

"Es criminal no enseñar la auto defensa a un pueblo que es víctima constante de ataques brutales..."
                                                                                                                         Malcolm X

30.11.14

Chi ha paura del LP Iskra?

Il comunicato dei compagni del Laboratorio Politico Iskra di Napoli colpiti in questi settimane da un'infame campagna mediatica dei soliti pennivendoli tesa a screditare una delle poche realtà politiche essa stessa espressione di un territorio che da anni sta conducendo un esemplare percorse di lotte e rivendicazioni a fianco di lavoratori, disoccupati, studenti, contro ogni polititicantume borghese. Ai compagni napoletani tutta la nostra solidarietà.

Sono passate tre settimane dalla grande risposta di piazza con cui Bagnoli ha mandato un inequivocabile avviso di sfratto per Renzi e i suoi luridi servi del PD napoletano, ma evidentemente queste settimane non sono state sufficienti al quartier generale del partito di Confindustria e degli speculatori per digerire il boccone amaro e capire che il quartiere che per 20 anni ha subito passivamente i loro scempi e i loro crimini, oggi gli sta presentando il conto e pretende la loro cacciata a furor di popolo.
Dopo che il movimento contro lo SbloccaItalia anche nei giorni successivi al 7 novembre ha prontamente rispedito al mittente i tentativi di criminalizzazione e i teoremi repressivi orditi a Palazzo Chigi e strombazzati ai quattro venti dai gregari locali di Renzi in una macchina del fango che è giunta fino all’ultimi valvassini di stanza a Palazzo San Giacomo e alla X municipalità, ecco che questi ultimi, impotenti di fronte al disprezzo crescente nei loro confronti, si giocano l’ultima carta: additare il LP Iskra quale regia occulta degli episodi di vandalismo e bulloneria avvenuti negli ultimi giorni in alcune scuole occupate.
Ma il PD napoletano dev’essere messo davvero male se per rendere credibile il suo ridicolo e sbilenco Tribunale dell’Inquisizione è costretto addirittura a rifugiarsi sotto la sottana della mediocre ed isterica Anna Mazzarella, preside dell’ITC Giordani reinventatasi per l’occasione novella giustiziera della notte a caccia del “pericoloso studente in occupazione” contro la macelleria sociale messa in atto del suo amato premier , o di un vecchio arnese del bassolinismo quale l’ex assessore Angela Cortese…
Questi infimi personaggi in cerca d’autore (o meglio di scoop giornalistico) non hanno neanche il minimo senso del pudore: decenza vorrebbe che tacessero di fronte alla fitta ragnatela di interessi privati che accompagna le loro biografie pubbliche e private.
Dietro il volto di “eroina della legalità” di cui Anna Mazzarella vorrebbe ammantarsi si nasconde il volto putrido di una casta di intoccabili che da anni regge i fili del potere napoletano, dietro i suoi intenti giustizialisti si nasconde il volto di Eugenio Mazzarella, vecchia cariatide del baronato napoletano e sodale del più celebre Paolo Macry (già distintosi nelle scorse settimane per le sue violente sfuriate contro il movimento del 7 novembre), e che non a caso è sul libro paga del PD nelle vesti di deputato.
Mentre il caro Eugenio a Montecitorio cancella con un colpo di pulsante i diritti dei lavoratori conquistati con duri anni di lotta, e con un altro vota a favore della devastazione ambientale e del saccheggio dei territori sanciti con lo Sblocca Italia, la sorella sbraita contro gli studenti in occupazione addossandogli le colpe di una serie di raid che evidentemente sono stati pianificati in stanze molto vicine alle loro.
Tutto ciò non ci sorprende: si tratta degli stessi personaggi che hanno simulato l’incendio di Città della Scienza pur di poter ricostruire sulla spiaggia; si tratta degli stessi personaggi che portano sulle loro spalle la responsabilità materiale, politica e morale delle centinaia di morti di tumore a Bagnoli; si tratta degli stessi personaggi che blaterano di giustizia ma non hanno osato pronunciare una sola parola di condanna per la vergognosa sentenza che ha assolto gli assassini dell’Eternit!
Ma anche questo non ci sorprende: con quegli assassini il PD ci è sempre andato a braccetto!
Stiano tranquilli questi piccoli allievi di Goebbels: non è il LP Iskra che trama contro di loro, è l’intera parte proletaria della città che è stanca di subire le loro provocazioni, la loro ipocrisie, il loro marciume.
Il 7 novembre Bagnoli ha detto basta con questi cadaveri in putrefazione: e i loro squallidi castelli accusatori non serviranno a riportarli in vita!

Laboratorio Politico Iskra
Comunisti per l'Organizzazione di Classe - Napoli


16.11.14

La Furia! - Consuma

Brasile al bivio dopo le presidenziali

 
La vittoria di misura di Dilma Rousseff alle presidenziali di fine ottobre (con il 51,6% al ballottaggio con Aecio Neves che si ferma al 48,4%) non fa che registrare una spaccatura non risolta all’interno della classe dirigente brasiliana (Nota 1).
Determinante per la sua vittoria è stato il voto degli stati più poveri, dove percentualmente sono più numerosi i beneficati dai programmi di sussidi come la Bolsa Famula e Fome Zero. Essa raccoglie più del 60% dei voti in Amazzonia, nel nord e nel nord-est, dove prevale la popolazione nera o meticcia (in un villaggio del Marnhao, uno degli stati più miserabili la Rousseff ha raccolto il 94% dei consensi…), mentre votano per il suo avversario il sud e il sud-ovest, cioè gli stati più ricchi, più istruiti e industrializzati e a maggioranza bianca. A San Paolo Neves, considerato il campione dei brasiliani bianchi, dei grandi industriali e degli immobiliaristi, raccoglie il 64% dei voti.
I fautori delle politiche di Lula-Rousseff esaltano la politica sociale che ha fatto uscire dalla povertà estrema un quinto dei brasiliani, sia con sussidi e prezzi agevolati, sia triplicando in 12 anni il minimo salariale. Di questo programma sociale hanno usufruito 14 milioni di famiglie (pari a circa 50 milioni di brasiliani). Il potere d’acquisto medio dei lavoratori dipendenti è migliorato anche se il gap fra ricchi e poveri in Brasile resta uno dei più forti del mondo. I detrattori hanno sempre sostenuto che lo stesso risultato si ottiene con uno sviluppo sostenuto dell’economia, mentre la distribuzione a pioggia dei benefici e il clientelismo che ha dominato i criteri di distribuzione ha accresciuto la piaga della disoccupazione pubblica. Molti “beneficati” inoltre si trovano fortemente indebitati (ad es. per la casa), l’inflazione è in aumento (6,7%) e solo il tasso di disoccupazione ai minimi storici (4,9%) resta un dato confortante.
Al contrario fra il 2013 e il 2014 è scoppiata la rivolta della cosiddetta “classe media”: proteste di piazza per i numerosi casi di corruzione (in prima fila uno scandalo di fondi neri e bustarelle riguardante la Petrobras, la potente azienda petrolifera di stato), ma anche contro le spese pazze in occasione dei Mondiali di calcio, ma soprattutto per la infima qualità dei servizi pubblici.
Infatti la qualità dei servizi pubblici, dalla sanità alla scuola, ma soprattutto dei trasporti e delle infrastrutture è molto scadente. Un quarto delle case nelle grandi città manca ancora di copertura fognaria, solo il il 14% delle strade è asfaltato. Soprattutto le piccole e medie imprese lamentano il basso gradi di preparazione della manodopera (che contrasta con le eccellenze scientifiche delle grandi Università private), lo stato deplorevole dei trasporti urbani che “consumano” in modo improduttivo il tempo della giornata di lavoro. Ospedali fatiscenti, la burocrazia che imperversa e rallenta, poste e telefoni che non funzionano completano il quadro.
La politica dei sussidi è stata resa possibile nel decennio scorso dalla crescita economica, trainata dalla domanda internazionale di materie prime e prodotti alimentari, i cui prezzi crescevano grazie alle forti esportazioni soprattutto in Cina. Il rallentamento cinese ha determinato una caduta dei prezzi internazionali e un brusco ridimensionamento della crescita brasiliana che adesso è in recessione (+0,3% nei primi 9 mesi del 2014, negativo l’indice PIL previsto sull’intero anno).
Non è più possibile conciliare la bassa tassazione delle imprese con la garanzia del salario minimo ai lavoratori.
In più il modello Lula puntava all’appoggio incondizionato del governo alle grandi imprese di stato, agevolate in ogni modo e che si sono affermate in modo significativo sul mercato internazionale; una situazione che era tollerata dagli imprenditori in quanto le aziende di stato facevano da volano a quelle private, ma adesso le considerano concorrenti sleali e troppo costose. Un mercato internazionale dove la domanda è meno sostenuta mette in luce la debolezza dell’apparato produttivo brasiliano, le aziende manifatturiere non sono abbastanza competitive, pagano una manodopera poco istruita e un ritardo di innovazione.
E’ ripartito, feroce, il dibattito sul deficit pubblico. E qui casca l’asino, si vedono, cioè i limiti del cauto riformismo di Lula e della sua allieva Dilma: nessuno dei due si sogna di tassare i più ricchi, che finanziano il loro stesso partito, quindi dovrà tagliare risorse ai più poveri.
Fra i paesi Brics il Brasile è quello che cresce meno. E’ possibile quindi che la Rousseff, una volta eletta, adotti parte del programma del suo avversario, per rassicurare il mondo degli affari, imbrigliando l’inflazione, tagliando una parte della spesa pubblica. C’è infatti grande attesa sulla scelta del prossimo Ministro degli Esteri, al posto del dimissionario Mantega (sono stati proposti i nomi di Luiz Carlos Trabuco Cappi. Presidente della Bradesco, la seconda banca privata, di Henrique Meirelles, già presidente della banca centrale con Lula, che rassicurerebbe banche e mercati, mentre la nomina di Nelson Barbosa indicherebbe una continuità col passato). Resta il fatto che la politica della Rousseff non dispiace a tutti i settori industriali, perché di fatto i sussidi hanno rianimato i consumi interni e la politica di chiusura alle “invasioni” commerciali e finanziarie degli Usa è ovviamente piaciuta, per la sua componente protezionista, ma anche tenuto conto dell’esempio argentino, con i suoi due default provocati anche dagli hedge fund Usa.
L’elezione della Rousseff garantisce una certa continuità in politica estera: il Brasile resta un “mattone” dei Brics, prosegue il rapporto privilegiato con la Cina (che pure è il principale concorrente nel settore manifatturiero) e la distanza politico-economica con gli Usa. Il 16 novembre il Brasile parteciperà al G20 di Brisbane (Australia) con gli altri quattro membri Brics, cioè Cina, India, Russia, Sudafrica: insieme totalizzano il 42,6% della popolazione mondiale e il 20,4% del PIL mondiale.
Prosegue l’alleanza con i Paesi dell’Alba (Venezuela Ecuador Bolivia) che garantisce a tutti la totale indipendenza energetica per i concorso del bio-diesel brasiliano, del petrolio venezuelano ed ecuadoregno e del gas boliviano.
Prosegue l’integrazione nel Mercosur, che punta a fare del Brasile un contrappeso regionale agli Usa e che riunisce Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Venezuela, contrapposti alla filostatunitense e neoliberista Alleanza del Pacifico (Colombia, Messico, Perù Cile). Da marzo sono riprese le trattative per stringere un accordo fra Mercosur ed Europa (attualmente l’interscambio fra i due blocchi vale 130 miliardi di $ annui), in particolare per sviluppare le telecomunicazioni transatlantiche.
In teoria oltre che dirigere la politica estera e dare le linee di indirizzo alla politica di bilancio, Dilma Rousseff dovrebbe nei prossimi mesi procedere ulteriormente contro la corruzione. Dovrebbe, ma è improbabile che lo faccia.
Ed è probabile che, per tralasciare questa promessa elettorale, possa trovare un ottimo alibi nella composizione delle due camere brasiliane, cioè il Congresso Federale e il Senato usciti dalle elezioni del 5 ottobre (in concomitanza del primo turno delle presidenziali).
Rispetto al 2010 fra i 612 parlamentari eletti, risulta fortemente ridimensionato il drappello dei sindacalisti o comunque dei personaggi legati a una qualche istanza sociale (da 83 a 46), sostituiti da ex militari (circa il 30% degli eletti), leader religiosi, principalmente provenienti dalle sette pentecostali, agrari (ben 200 fra le due camere), leader delle campagne anti abortiste, anti gay, o richiamanti a scelte genere “legge e ordine” (contro gli indios, contro i campesinos senza terra, contro gli ambientalisti ecc.). Si sono già delineati robuste lobbies di pressione (che in Brasile si chiamano frentes o bancadas) soprattutto facenti capo al settore agroalimentare e degli armamenti.
Queste lobbies sono in grado di fare sintesi più degli stessi partiti: ben 28 presenti al Congresso per 531 seggi e 16 in Senato per 81 seggi. Il Partito dei lavoratori ha 70 rappresentanti al Congresso e 2 al Senato. Inevitabili, in questa frammentazione, le alchimie parlamentari da “mercato delle vacche”.

La composizione sociale del nuovo Parlamento brasiliano delude chi si era illuso che le battaglie di piazza degli ultimi due anni producesse una radicalizzazione parlamentare. Ancora una volta si conferma che logiche elettorali e movimenti di lotta non corrispondono e che l’espressione di voto, influenzata dai legami clientelari o personalistici, dai mass media e da fattori locali è molto più “conservatrice” di quello che esprimono le classi e gli strati sociali quando agiscono in prima persona. Se ai movimenti di lotta non corrisponde una direzione politica indipendente essi finiscono per ripiegarsi su se stessi dopo la fiammata, riassorbiti dalla politica di piccolo e grande cabotaggio delle classi dirigenti. E mai come in Brasile oggi vale la considerazione che “lo Stato sono loro”.

Nota 1: Su 143 milioni di brasiliani che avevano diritto di voti, 29 milioni si sono astenuti (circa il 20% ) e le schede bianche o nulle sono state 7 milioni (il 4,8%). Al primo turno aveva votato il 79,44 % degli aventi diritto.

14.11.14

Lega nord & antirazzismo di facciata

Pochi giorni fa sono rimbalzate agli onori della cronaca le provocazioni pretestuose e interessate del segretario della Lega Nord la cui inventiva sulle modalità di creare "casi" per incassare sostegno da tramutare in voti per la prossima tornata elettorale bisogna riconoscerglielo, non è di poco conto. Fin qui nulla di strano per noi, un partito borghese, espressione di interessi padronali di media e piccola borghesia che parla di "popoli" e di "identità"da difendere che alimenta xenofobia e razzismo fa il suo mestiere: confondere la classe, predicare un interclassismo utile al padronato, creare una tradizione e concetti di "patria" per dotarsi di un'ideologia da usare nel baraccone elettorale.

Quello su cui ci soffermiamo sono le litanie di molti di coloro che criticano Lega Nord/leghisti e razzisti ad ogni occasione. Tralasciando quelli che sono gli umori schizofrenici della società civile, (che non può per sua natura esprimere giudizi o pareri che si discostino, in generale, dai leit motiv ideologici che media e istituzioni gli propinano ogni giorno), anche all'interno del movimento e della sinistra radicale per non parlare di quella galassia di gruppi, reti, partiti, associazioni che fanno dell'antirazzismo una loro bandiera distintiva e comunque sempre ostentata, si sviluppano dei meccanismi che per noi, in sostanza, relegano di fatto le loro rivendicazioni circoscritte all'interno delle regole del Sistema.
Personalizzare il "nemico", in questo caso il razzista Salvini, il Partito Lega Nord, o il leghista qualunque, accanendosi su questi soggetti e il loro operato razzista e xenofobo, senza mai chiamare in causa il sistema che lo/li sostiene, lo Stato che li riconosce, legittima e difende, sarebbe come dire che sono loro col loro comportamento ad essere fuorisciti dagli schemi (democratici?), mentre devono rientrarci subito, finendola col razzismo, col diffondere xenofobia etc. Essere contro il razzismo non può limitarsi a questo: questi soggetti, queste personalizzazioni, sono solo espressioni particolari di un Sistema che opprime ed è opprimente con o senza una Lega Nord, con o senza un Salvini, con o senza i leghisti. E' il capitale che ne riceve i benefici sempre e comunque.
Un altro aspetto deleterio è circoscrivere il razzismo attorno ai casi più eclatanti ,quelli di cui da sempre la Lega Nord è uno degli artefici politici più attivi. Ma quindi, al di fuori di questi casi (attorno ai quali si focalizza l'attenzione mediatica per qualche giorno), al di fuori della Lega Nord, Forza Nuova, CPI, et similia, ad eccezione di qualche singolo che viene puntualmente bollato come pazzo o deviato, di qualche nostalgico del ventennio, o di un certo elettorato, il razzismo e il pregiudizio razziale in Italia non esistono? Per noi è presente eccome, non solo perchè lo viviamo quotidianamente sulla nostra pelle, ma perchè è la storia non solo recente ma contemporanea di questo Paese che è intrisa di razzismo e di quello con la R maiuscola. Esiste a prescindere. Si può essere razzisti senza sapere di esserlo, in buona fede, magari pensando di essere degli antirazzisti, come si possono nascondere pregiudizi razzisti sotto un paternalismo di stampo cattolico, o ancora arrivare ad essere razzisti assolutizzando un terzomondialismo di maniera. Tantopiù non basta essere "di sinistra" per non avere niente a che spartire col razzismo. Anche qui se la maggioranza della società (quindi classe salariata in testa) è vittima sua malgrado di quello che l'ideologia borghese gli propina, dalla culla alla scuola fino al lavoro, come non può essere "libera" da concetti come "Patria", "interesse nazionale" "Società occidentale" non può non essere razzista negli innumerevoli modi in cui si può esserlo. E tutto ciò rappresenta la norma:  la Lega Nord è solo la punta di un iceberg rappresentato dal Sistema stesso, è solo una forma più estrema e visibile in cui il razzismo appare in forma più eclatante.
L'antifascismo è anticapitalismo, L'antirazzismo è la stessa cosa, forse di più, antirazzismo è anticapitalismo.

CG

La “primavera nera” del Burkina Faso destabilizza gli equilibri imperialistici in Centrafrica

 
I disordini scoppiati a Ouagadougou, in Burkina Faso, culminati nella cacciata del premier Blaise Compaore, al potere incontrastato da 27 anni, hanno colto tutti di sorpresa ma sono il risultato di contraddizioni che si andavano accumulando da tempo.
Il Burkina Faso è un paese senza sbocchi sul mare, incuneato fra Mali, Niger, Benin, Togo, Ghana e Costa d’Avorio, con una superficie di poco inferiore a quella italiana. Ha 19,5 milioni di abitanti, uno dei più bassi PIL procapite e una massa di giovani disoccupati e senza prospettive (nel 2011 il numero di figli per donna era di 5,8), Sono questi giovani, come già nelle primavere arabe, i protagonisti dei moti di piazza. Come in tutta l’Africa subsahariana i giovani sotto i 25 anni sono il 65% della popolazione, ma il loro tasso di disoccupazione è tre volte più alto di quello medio. Trovare lavoro in patria è spesso una opportunità connessa a legami mafiosi, clientelari o clanici.
La guerra in Libia e la guerra in Mali e Centrafrica hanno chiuso i tradizionali sbocchi per le migliaia di burkinabè che in passato si trasferivano stagionalmente a lavorare nelle campagne e nell’edilizia, nei paesi vicini.
Metà della popolazione vive con meno di 1 dollaro al giorno (il PIL pro capite è di 790$); nelle statistiche ISU (indice di sviluppo umano il Burkina è al 181° posto su 187 paesi. L’aspettativa di vita è inferiore ai 50 anni, in media con gli altri paesi dell’Africa nera. Solo il 28,5% della popolazione adulta è alfabetizzata. La mortalità infantile è del 7,7%.
Questa povertà coesiste con lo sviluppo economico, il PIL negli ultimi tre anni è aumentato del 7% all’anno. In particolare il tasso di sviluppo è legato alla vivace attività di estrazione mineraria: rame, ferro, manganese, ma soprattutto oro (di cui il Burkina è quarto produttore africano).
Ma a far precipitare la situazione sono stati a partire dalla fine del 2013 il calo del prezzo dell’oro, la crisi dell’industria tessile legata alla produzione di articoli di cotone di lusso (tutti destinati all’export e rovinati dalla concorrenza dei prodotti cinesi in fibra artificiale molto meno costosi). Infine ha pesato anche la siccità che ha prodotto un aumento dei prezzi degli alimentari.
Benché la violenta protesta di piazza fosse in gran parte spontanea, i militari hanno tentato subito di metterle il cappello e da una parte all’altra sono spuntati, in uno scenario da tardo impero romano, più candidati che si autoproclamavano premier ad interim: dal generale Honore Traore al luogotenente colonnello Isaac Yacouba Zida; con il prevalere alla fine di quest’ultimo che avrebbe maggiore ascendente sulla bassa forza dell’esercito (Figaro 1 novembre). Stesso scenario fra le file dell’opposizione politica con due candidati “civili”, cioè il generale in pensione Kouame Lougué e una donna, Saran Séremé, leader del Partito per lo Sviluppo.
Francia e Stati Uniti da tempo referenti internazionali di hanno optato per una linea di attesa neutrale, limitandosi a un generico richiamo a una transizione che ripristini la normale dialettica democratica, ma guardandosi bene dall’offendere i capoccia dell’esercito, perché l’importante è garantire l’ordine e il controllo delle masse. Per la Francia è fondamentale conservare in Burkina Faso (un tempo colonia francese col nome di Alto Volta), le proprie basi militari, comprendenti piste e hangar per elicotteri, da cui spesso l’esercito francese si muove per le sue spedizioni (recentemente verso il Mali e la repubblica Centroafricana) e anche i propri servizi di intelligence. La Francia ha con discrezione garantito la fuga senza danni dell’ex premier e alleato in Costa d’Avorio, dove è al potere un leader, Ouattara, che è di origine burkinabè (nota 1).
Ha però rifiutato di raccogliere le sollecitazioni a un intervento diretto, anche perché proprio in occasione della crisi in Repubblica Centroafricana e Mali ha trovato una sponda più efficace nel governo algerino contro i gruppi jajidisti sviluppatisi nell’area. Senza contare che al contrario del Niger, il Burkina non è in sé un’area di interesse vitale per la Francia, al di fuori della sua posizione strategica. (Figaro 31 ott). D’altro canto la Francia raccoglie nell’area i frutti dell’intervento in Libia, che ha provocato il ritorno in patria dei lavoratori centrafricani, che spesso in mancanza di meglio si lasciano reclutare dai gruppi islamici estremi. Il Mali e il Niger sono ancora minacciati da gruppi tuareg e islamici, con un forte rischio per gli interessi francesi. Nel 2015 si terranno nuove elezioni presidenziali in Costa d’Avorio ed è possibile che come nel 2010 esploda un nuovo scontro interetnico fra minoranza burkinabé e gli indigeni Akan.
Tutti i capi di stato dei paesi confinanti seguono con preoccupata partecipazione gli avvenimenti.
La miccia che ha fatto da detonatore all’incendio in Burkina è stato il tentativo di Campaorè di modificare la Costituzione per ottenere l’ennesimo mandato. Uno stratagemma che altri autocrati regionali stanno per mettere in atto (fra gli altri Paul Kagamé in Randa, Joseph Cabila in Congo-Kinshasa e Denis Sassou Nguesso in Congo-Brazzaville, ma anche d’Issayas Afewerki in Eritrea). Dopo i disordini in Burkina non potranno farlo alla leggera. I loro regimi risultano sempre più inadeguati in paesi come l’Africa subsahariana che stanno conoscendo ritmi di crescita elevati (5% medio all’anno), in rapporto alla semi stagnazione delle metropoli, ma dove lo sviluppo va a vantaggio di piccole minoranze arroccate intono a governi corrotti, inefficienti e repressivi.
Se le masse hanno ragione di protestare per le pessime condizioni di vita, lanche e borghesie locali spesso desiderano un cambiamento politico, ma preferiscono una soluzione bonapartista cioè cercano un interprete “naturale” nelle alte sfere dell’esercito, garante di un cambiamento in un quadro di legge e ordine.
Anche in Burkina i militari hanno lasciato mano libera alle masse per alcuni giorni, poi hanno sparato sui manifestanti, memori della precedente rivolta di piazza del 2011, scatenatasi dopo l’assassinio di uno studente da parte della polizia. Nel 2011 anche una parte della truppa si era ribellata rifiutando di sparare sui manifestanti. Anche in Burkina i businessmen vogliono lo sviluppo delle infrastrutture e dei servizi, quindi una rete efficiente di trasporti, la garanzia di una fornitura costante di elettricità, servizi bancari più efficienti, mano d’opera più istruita. Una delle poche ferrovie che collega il Burkina al Niger, la ferrovia del Sahel è stata costruita al tempo di Thomas Sankara (1984).
Molti fra i giovani manifestanti inneggiano Thomas Sankara, il leader assassinato a 37 anni proprio da Campaoré, nel 1987. Sankara è stato premier per soli 4 anni, ma aveva impresso al paese una spinta riformista radicale: riforma agraria e distribuzione della terra ai contadini poveri, smantellamento di una parte delle piantagioni per garantire l’autosufficienza alimentare; rifiuto di pagare i debiti al FMI e alla BM, nazionalizzazione delle miniere, campagna di vaccinazioni obbligatorie dei bambini, un nuovo diritto di famiglia più favorevole alle donne (abolizione della poligamia), campagna contro l’infibulazione, campagna di alfabetizzazione e creazione di presidi sanitari nelle campagne, campagna di rimboschimento per contrastare la desertificazione, creazione di un Ministero per garantire acqua potabile, campagna contro l’Aids (fu il primo leader africano a riconoscerne la gravità). Fu lui a ribattezzare il paese con un nome che significa “paese degli uomini onesti”. Soprannominato “Che Guevara dell’Africa”, Sankara aveva ottenuto il potere grazie all’appoggio di Gheddafi ed era fortemente pan-africanista e anti-francese. Fu Mitterand a ordinarne l’eliminazione, dopo essersi accordato con Campaoré e aver ottenuto il beneplacito degli Usa, irritati per le tirate antimperialiste di Sankara. (Al Jazeera 31 ott.)
Che questi giovani si richiamino all’era precedente a Campaoré è logico, ma è improbabile che il panafricanismo sia oggi un valido strumento di organizzazione per le masse sfruttate. L’opposizione politica “ufficiale”, d’altronde, è rappresentata da partiti moderati, che si sono subito affrettati a dichiarare la loro “fiducia nell’esercito”, chiedendo ai “valorosi concittadini” di tornare a casa.
Il fatto che i manifestanti abbiano tentato di incendiare il Parlamento la dice lunga sulla spaccatura che comunque si è creata fra le masse e la politica ufficiale.


1.11.14

Processo allo sciopero: condannato per “manifestazione non autorizzata”

 
Si è concluso mercoledì 29 ottobre a Piacenza il processo contro il compagno Roberto Luzzi, attivista nel SI Cobas, per uno sciopero del settembre 2013 presso il magazzino Traconf di Piacenza (logistica dei prodotti di lusso “Burberry”). E’ stato condannato a 5 giorni di arresto, tramutati in una multa di 1358 euro per “manifestazione non autorizzata”. Si tratta della prima sentenza di questo genere nell’Italia post-fascista, di condanna per l’organizzazione di uno sciopero con picchetto, un pericoloso precedente che si inserisce nel clima di reazione antioperaia incarnata dal governo Renzi.
Lo sciopero in questione era stato indetto, con proclamazione dello “stato di agitazione”, per una vertenza interna al magazzino e soprattutto perché la cooperativa teneva a casa senza retribuzione da più settimane tre lavoratori iscritti al SI Cobas, di cui due delegati, mentre i capi all’interno chiedevano agli iscritti si Cobas di dare la disdetta dal sindacato, se volevano lavorare. Lo sciopero, cui partecipò una parte dei lavoratori, con picchetto ai cancelli, si concluse dopo tre ore circa con l’arrivo del responsabile del consorzio Lord, di cui la cooperativa faceva parte, che si impegnò a far ritornare immediatamente al lavoro i tre lavoratori. La polizia accorsa con Digos e “scientifica” non contestò alcuna infrazione ai partecipanti, ma la Questura costruì il caso, non denunciando la cooperativa per attività antisindacale, ma denunciando il Luzzi alla magistratura per “manifestazione non autorizzata”, sulla base immaginiamo della presenza di alcuni lavoratori iscritti al SI cobas di altri magazzini del polo logistico, solidali con lo sciopero. Viene richiamato l’art. 18 del Regio Decreto 773/1931 (legge sulla pubblica sicurezza) che prevede la comunicazione di una manifestazione al Questore con un anticipo di almeno tre giorni. La sanzione è l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda da € 103 a 413. Il teorema è questo: la presenza ai cancelli di n persone durante uno sciopero corrisponde a una “manifestazione”. Se tale “manifestazione” non è stata preventivamente comunicata è una “manifestazione non autorizzata”. Ergo gli organizzatori dello sciopero vanno condannati. Con questa innovazione giuridica, che a quanto ci consta è una novità assoluta in Italia, la Questura di Piacenza si è voluta distinguere nella lotta contro gli scioperi, e ha trovato un giudice compiacente, che ha emesso sentenza di condanna nonostante lo stesso PM avesse chiesto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”, essendosi trattato di uno sciopero e non di una manifestazione, tesi confermata da tutti i testimoni (a parte l’agente Digos), incluso l’ex responsabile di magazzino della cooperativa. La sentenza si inserisce nel blocco anti-operaio delle istituzioni locali piacentine creatosi in occasione della lotta contro i licenziamenti Ikea. Proprio ieri, il giorno dopo la sentenza, il sindaco PD di Piacenza Dosi ha fatto visita al magazzino Traconf , dove lo scorso 16 ottobre si è tenuto un secondo sciopero, continuato per tutta la notte e la mattinata successiva, in occasione dello sciopero nazionale della logistica, ma motivato anche dalle pesanti condizioni interne.
Questa sentenza rappresenta un inaudito attacco alla libertà di sciopero, con l’utilizzo di una legge che risale al fascismo, e va respinta. Ogni sciopero che si rispetti vede da sempre il formarsi di capannelli e picchetti per informare convincere la massa dei lavoratori ad aderire. Fino all’altro ieri nessuno aveva messo in discussione la libertà di organizzare scioperi, sancita tra l’altro dalla Costituzione italiana, anche se gli accordi interconfederali sulle rappresentanze vanno nella stessa direzione. Da oggi in poi questa libertà è sotto minaccia. Il ricorso in appello seguirà il suo corso, ma questa sentenza va respinta innanzitutto sul terreno, non indietreggiando nell’organizzazione di scioperi, principale strumento di organizzazione e di lotta della classe operaia.

Comunisti per l’Organizzazione di Classe

[NAPOLI] 7 Novembre a Bagnoli

 
Se pensi che il tuo lavoro sia sottopagato
Se pensi di avere diritto ad un salario migliore 
Se pensi che la tua scuola faccia schifo 
Se pensi che in futuro non avrai un lavoro né un posto dove andare a dormire
Se pensi che i trasporti non funzionano 
Se pensi che la sanità cade a pezzi
Se pensi che ti stanno distruggendo la terra, l’aria, l’acqua, solo per i loro profitti 
Se pensi che c’è chi continua ad arricchirsi sulle tue spalle concedendoti solo le briciole…

ORGANIZZIAMOCI VERSO IL #7NOV
SOLO UNITI SI VINCE
CACCIAMO RENZI DA BAGNOLI!
RENZI NON STARE SERENO: STATT’ A CAS!

25.10.14

Ebola: le mani sporche del capitale

Negli ultimi mesi abbiamo assistito all’ennesima emergenza sanitaria che colpisce il continente africano, il più povero (per i proletari che lo popolano) ma anche il più ricco del nostro pianeta grazie alle immense risorse naturali, la diffusione dell’epidemia nota come Ebola.
La malattia da virus Ebola (Evd), in passato nota come febbre emorragica da virus Ebola, è una malattia grave e spesso fatale per l’uomo, nota alla medicina fin dal 1976, quando si sono riscontrati i primi casi in un villaggio africano presso il fiume da cui prende il nome.
La comprensibile preoccupazione per la salute, che dovrebbe generare allarme nel mondo quando qualunque membro del genere umano viene colpito da una malattia contagiosa, è diventata oggetto di attenzione da parte dei media soprattutto quando si è verificato lo sconfinamento del male fuori dai confini del continente nero, per approdare in Europa e in America. È dal 1976 che il virus è stato individuato e sono noti i sintomi della malattia, mentre dalla metà degli anni ’90 si sono verificati almeno una volta l’anno dei focolai epidemici, con percentuali di mortalità che vanno dal 100% dell’ex Gabon nel 1996 a un 51% del Sudan nel 2012, per i due ceppi più pericolosi del virus, mentre altri ceppi hanno percentuali dal 25% a un massimo del 51%. I più frequentemente colpiti sono stati finora Uganda, Congo, Gabon e Costa D’Avorio, oltre al Sudan dove il male ha iniziato a manifestarsi nel 1976. Oggi anche Sierra Leone e Liberia. Basta scorrere le cronache degli ultimi venti anni per ritrovare i nomi di tutti i paesi citati nelle crisi geopolitiche e nelle lotte feroci e mercenarie per il possesso di fonti energetiche, minerarie e tutte le ricchezze che fanno gola agli investitori di tutto il mondo, da Oriente a Occidente, mentre alcuni sono ancora nell’elenco dei paesi coinvolti in conflitti bellici, sia internazionali che interni, come la Nigeria che, solo pochi giorni fa, è stata dichiarata ufficialmente “Ebola-Free”. I paesi più colpiti sono perciò i più devastati da guerre civili, crisi economiche, corruzione, condizioni di vita sotto il livello di povertà nella maggioranza della popolazione, con diffusi problemi di malnutrizione, assenza di prevenzione sanitaria, analfabetismo. Sono anche i paesi dove l’economia dipende dai mercati internazionali, la produzione agricola è fortemente condizionata dalle nervose oscillazioni in Borsa delle “commodities”, le materie prime contrattate nei mercati sono soggette, perciò ai disordini economici del capitalismo.
Cosa ha fatto il mondo “sviluppato” per salvaguardare la salute e la sopravvivenza del genere umano, in queste aree? La diagnosi della malattia è difficile, dal momento che all’inizio i sintomi sono simili a quelli di altre malattie diffuse e connesse con la povertà, come febbre tifoide, dissenteria e varie febbri tropicali. Nelle comunità africane le precauzioni igieniche sono scarsissime e spesso le necessità quotidiane si scontrano con la mancanza di risorse: ad esempio la scarsa disponibilità di acqua corrente costringe le persone a lavarsi le mani in un unico recipiente, mentre d’altro canto le multinazionali dell’acqua si accaparrano le fonti idriche per poter venderle a caro prezzo. Attualmente circa il 70% degli infetti in Africa muore, e come riportato dall’O.M.S. siamo ormai a quota 8.033 casi tra sospetti e confermati (anche se fino a 6 casi su dieci potrebbero passare inosservati alle autorità sanitarie) e già 3.865 morti. Secondo il Center for Disease Control and Prevention (C.D.C), bisogna assicurare che il 70% dei pazienti contagiati riceva cure adeguate e venga messo in quarantena. Il tutto entro i prossimi 60 giorni. Altrimenti, più tempo passerà più gli sforzi, e il costo in vite umane, saranno ingenti. Mentre in Europa e in America si seguono trepidando le cure e il decorso dei malati locali, importatori involontari del virus oppure contagiati sul posto, dei loro familiari e colleghi, persino dei loro animali domestici, in Africa migliaia di pazienti, e anche di medici e personale sanitario, infettati, attendono l’esito fatale o una altrettanto fatalistica guarigione, con terapie approntate frettolosamente, nella speranza che funzionino efficacemente. 
Dov’è stato il sistema farmaceutico mondiale in questi 30 anni? Non solo le giustamente vituperate multinazionali dei farmaci, che si sono macchiate di veri e propri crimini contro l’umanità, sperimentando nuove molecole sulla pelle di pazienti inconsapevoli e negando loro le cure più efficaci – come nel caso della Pfizer nell’epidemia di meningite del 1996 a Kano, in Nigeria – ma anche i capitalismi emergenti che dall’India e da altri paesi insidiano le ampie fette di mercato delle prime, coi loro prodotti a basso costo. Se un’epidemia (come ad esempio l’A.I.D.S.) colpisce in prima fila le economie dove ci sono soldi da spendere per le cure, oppure o le minaccia da vicino (come nel caso dell’influenza aviaria), ingigantendone la pericolosità, il capitale che investe nei farmaci non si tira indietro, finanzia la ricerca, si fa concorrenza spietata su chi per primo brevetta la molecola “giusta” e fa la guerra a chi ne copia il contenuto. Ma se un’epidemia virulenta, oppure una malattia endemica in aree depresse del pianeta, colpisce i più poveri, quelli che non hanno denaro da spendere neppure per salvarsi la vita, allora che interesse c’è a finanziare ricerche, impegnare scienziati e costosi laboratori, perseguire serie ed efficaci sperimentazioni condotte senza mettere a rischio la sopravvivenza dei malati? Che cosa fa il mondo capitalistico contro la bilarziosi o l’ameba, malattie endemiche in Africa? O la febbre gialla (200.000 casi l’anno)?
Le vecchie malattie come la peste bubbonica o la malaria sono ormai un lontano ricordo, in Europa, ma sono tuttora diffuse in Bangladesh la prima e in Oriente e sul continente africano la seconda, ma non sono di interesse per il capitale, perché i proletari di quelle aree non hanno assistenza sanitaria, neppure la minima parvenza di welfare, quello così costoso che le politiche restrittive dei nostri governi vogliono progressivamente sgretolarlo. Ricordiamoci che il mondo non è poi così grande, non solo per i virus che viaggiano, e che quel “privilegio” che viene tolto oggi a qualcuno è tolto, indirettamente, a tutti, anche a chi ora non ce l’ha e può giustamente rivendicarlo.

12.10.14

Nasta - Que ardan

Urne e diamanti

Mancano due settimane alle elezioni e molte nubi si addensano sul processo democratico in Botswana. Accuse di spionaggio e il nuovo rapporto di Survival International che stigmatizza la violazione dei diritti umani dei boscimani sono solo gli ultimi colpi contro il presidente Ian Khama, favorito per un secondo mandato, ma anche spregiudicato nel mantenere il potere.
«Il partito di governo, il Botswana democratic party (Bdp) avrebbe ingaggiato consulenti ed esperti di intelligence con denaro della compagnia diamantifera De Beers, per intercettare e contrastare la campagna elettorale dei partiti d’opposizione in vista delle elezioni generali del prossimo 24 ottobre». L’accusa è stata lanciata dalle colonne del quotidiano Botswana Guardian. Il Bdp è al governo fin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna (1966) e questo un sintomo di debolezza della democrazia. Ma governare significa gestire il business dei diamanti e dunque il Bdp sta facendo ogni sforzo per mantenere saldo il timone.
La De Beers e il governo sono attualmente soci al 50% nella compagnia Debswana, che secondo il sito della multinazionale è la più grande produttrice mondiale di diamanti. Debswana contribuisce per circa il 30% del Pil del paese e al 50% delle entrate statali. La compagnia mineraria respinge al mittente le accuse e smentisce ogni suo coinvolgimento nel processo elettorale. Ma non è la prima volta che la multinazionale finisce nel mirino della stampa locale. Quattro anni fa fu il settimanale d'inchiesta Sunday Standard a pubblicare articoli su un finanziamento della De Beers al partito di governo, per complessivi 500 milioni di dollari. Cifre enormi, ma congrue per chi deve garantirsi affari miliardari.
Ieri, infine, è arrivato l’ultimo rapporto di Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, che punta il dito contro gli abusi, i pestaggi, gli arresti e le uccisioni dei boscimani del Kalahari per mano delle guardie forestali e della polizia. Il governo accusa i boscimani di bracconaggio, ma la ragione vera sono ancora i diamanti. La Central Kalahari Game Reserve è stata creata nel 1961 per permettere ai boscimani di mantenere il loro stile di vita di cacciatori-raccoglitori. Ma quando negli anni Ottanta sono stati scoperti giacimenti di diamanti all’interno della riserva, la presenza dei boscimani non è più gradita.
Nel 2006 una sentenza della Corte Suprema del Botswana ha riconosciuto il diritto dei boscimani a vivere e cacciare all’interno della riserva. Il governo, tuttavia, ha emesso un divieto nazionale di caccia che, di fatto, riduce alla fame i boscimani per costringerli ad abbandonare la loro terra. E allora che le accuse di bracconaggio diventano il pretesto per cacciare inquilini non graditi alle multinazionali dei diamanti ma legittimi custodi di quella terra.


fonte: Nigrizia

Lo scivolamento dell'Ucraina verso la barbarie militare

L'attuale crisi in Ucraina è la più grave dallo scoppio della Jugoslavia 25 anni fa. La Russia cerca di difendere i suoi interessi nella regione contro i tentativi delle forze occidentali di aumentare la loro influenza, minacciando di scatenare una guerra civile e la destabilizzazione della regione.

Il paese ha un nuovo presidente, Petro Porochenko, eletto a maggioranza nel primo turno delle elezioni sulla base della promessa di schiacciare senza esitazioni « i terroristi separatisti » nell'est del paese. Certamente egli non rappresenta niente di nuovo. La sua carriera politica è cominciata nel Partito unificato socialdemocratico dell'Ucraina, poi è passato nel Partito delle regioni, leale verso Kutchma, un alleato della Russia, prima di scegliere il Blocco Nostra Ucraina di Iuchtchenko nel 2001. E' stato ministro nei governi di Iuchtchenko e Ianukovitch. Miliardario del cioccolato, è stato accusato di corruzione nel 2005 e si è battuto alle elezioni presidenziali con il sostegno dell'ex pugile Vitaly Klitschko – che nello stesso momento è stato eletto sindaco di Kiev – e dei suoi corrotti partigiani Levochkin e Firtash. L'Ucraina attualmente è diretta da un nuovo oligarca corrotto, che offre la sola prospettiva che il sistema capitalista putrefatto riserva all'umanità : il militarismo e l'austerità.

Non essendo stato capace di sconfiggere rapidamente i separatisti filo-russi, il conflitto continua con alterne vicende, ma con i separatisti che continuano a mantenere le loro posizioni.

Lungi dall'aprire un nuovo perido di stabilità e di crescita, le elezioni presidenziali del 25 maggio hanno segnato una nuova tappa nello scivolamento verso una sanguinosa guerra civile, nonostante i referendum sull'autonomia tenuti dai separatisti in Crimea a marzo e quelli di Donetsk e Luhansk a maggio. Quello che sta accadendo è un allargamento delle divisioni interne di questo paese artificiale in fallimento, amplificate dalle manovre imperialiste esterne. Il rischio è che esso venga dilaniato dalla guerra civile, dalla pulizia etnica, i pogrom, i massacri e l'estensione dei conflitti imperialisti.

L'instabilità d'origine dell'Ucraina

L'Ucraina è il secondo paese d'Europa come estensione, una costruzione artificiale con il 78% di ucraini e il 17% di russofoni, maggioritari nella regione del Donbass, più diverse etnie inclusi i Tartari della Crimea. Le divisioni sulle ricchezze economiche seguono le stesse linee di frattura, con il carbone e la siderurgia nell'est russofono, che esporta massicciamente verso la Russia rappresentando il 25% delle esportazioni. Per quanto riguarda la parte occidentale, teatro della « rivoluzione arancione » del 2004 e delle manifestazioni a Maidan, la piazza dell'indipendenza a Kiev, lo scorso inverno, guarda all'Occidente in cerca del suo sostegno.

L'economia è in fallimento. Nel 1999 la produzione era calata del 40% rispetto ai valori del 1991, data dell'arrivo all'indipendenza dell'Ucraina. Dopo una piccola ripresa, essa ha di nuovo perso il 15% nel 2009. L'apparato industriale dell'est è obsoleto, molto pericoloso e inquinante. L'esaurimento delle miniere ha comportato un aumento dei rischi di incidenti sul lavoro per l'aumento della profondità degli scavi fino a 1200 metri con la minaccia di esplosione di metano e di polvere di carbone nonchè dello sfaldamento delle rocce (le stesse condizioni di pericolo che hanno causato più di trecento morti recentemente a Soma, in Turchia). L'inquinamento causato dalle miniere compromette l'approvvigionamento d'acqua, mentre i mulini che trattano i residui di carbone e di ferro causano un inquinamento dell'aria visibile a occhio nudo e l'accumularsi delle scorie e del metallo arrugginito può causare frane nel terreno fangoso. A tutto questo bisogna aggiungere la radioattività causata dallo sfruttamento di miniere dell'epoca nucleare sovietica. Queste industrie non sono competitive sul medio termine, o anche a breve termine, se si devono confrontare con quelle dell'Unione Europea, ed è difficile intravedere chi avrà il coraggio di fare gli investimenti che ci vorrebbero. Certamente non gli oligarchi al potere, il cui unico obiettivo è riempirsi le tasche a spese dell'economia. Nè tantomeno la Russia che deve a sua volta fare i conti con la sua industria obsoleta ereditata dall'epoca sovietica. Nè ancora il capitale dell'Europa occidentale che ha deciso la chiusura della maggior parte delle proprie industrie minerarie e metallurgiche tra il 1970 e il 1980. L'idea che la Russia possa proporre una soluzione al disastro economico, all'impoverimento e alla disoccupazione che non ha smesso di aggravarsi man mano che gli oligarchi si arricchivano – una specie di nostalgia per lo stalinismo e la sua disoccupazione mascherata – è una illusione pericolosa che può solo indebolire la capacità della classe operaia di difendersi da se stessa.

Altrettanto pericolose sono le illusioni sulla moneta europea. Il Fondo Monetario Internazionale ha concesso un fido di 14/18 miliardi di dollari a marzo, in sostituzione dei 15 miliardi di dollari ritirati dalla Russia al momento della caduta di Ianukovitch. Questo fido è condizionato alla attuazione di una stretta austerità che ha provocato un aumento del prezzo del carburante del 40% e un taglio del 10% nel settore pubblico, corrispondente a 24.000 posti di lavoro. E le stesse cifre sulla disoccupazione non sono attendibili, dal momento che molte persone non sono registrate o sono sotto-impiegate.

Quando l'Ucraina faceva parte dell'URSS e confinava con paesi satelliti della Russia, le divisioni non minacciavano l'integrità del paese – il che non vuol dire che queste divisioni non esistevano. 70 anni fa, per esempio, i Tartari della Crimea furono espulsi ed alcuni sono tornati solo di recente. Le divisioni vengono utilizzate in maniera nauseante assetando di sangue tutte le parti in gioco. Il partito Svoboda, di estrema destra, non è solo in questa opera : il governo provvisorio di conciliazione di Stefan Bandera, la guerrafondaia nazista ucraina Iulia Timochenko, tutti fanno appello all'uccisione e al bombardamento dei dirigenti e della popolazione russa, e Porochenko lo mette in pratica. Il campo russo è altrettanto immondo e sanguinario. Entrambe le parti hanno costituito delle milizie paramilitari, e il governo stesso di Kiev non ricorre solo al suo esercito regolare. Queste forze irregolari riuniscono i fanatici più pericolosi, mercenari, terroristi, assassini, che spargono il terrore sulle popolazioni civili e si ammazzano reciprocamente. Una volta messe in marcia, queste forze tendono a diventare autonome, incontrollabili, portando alla stessa situazione di morte che si vive oggi in Iraq, Afganistan, Libia o Siria.

La Russia difende i suoi interessi strategici in Crimea

L'imperialismo russo ha bisogno della Crimea per la sua base navale sul Mar Nero, un mare caldo con accesso al Mediterraneo. Senza questa base la Russia non potrebbe effettuare operazioni nel Mare Mediterraneo o nell'Oceano Indiano. La sua posizione strategica dipende dalla Crimea. Ma essa ha bisogno anche dell'Ucraina per la difesa del gasdotto South Stream in corso di costruzione. E' una preoccupazione costante dall'indipendenza dell'Ucraina. La Russia non può assolutamente tollerare l'esistenza di un governo filo-occidentale in Crimea, motivo per cui si è opposta a qualsiasi accordo con l'Unione Europea. Nel 2010 essa ha concesso uno sconto sul prezzo del gas in cambio di un prolungamento della concessione per la sua base navale. Quando il governo Ianukovitch ha rinviato l'accordo di associazione all'U.E. lo scorso novembre, la Russia ha risposto con un'offerta di aiuto di 15 miliardi di dollari, ritirato quando Ianukovitch è stato deposto ed è scappato dall'Ucraina. Poco tempo dopo la Russia si è impadronita della Crimea e ha organizzato un referendum per la sua adesione, utilizzandolo poi nella sua propaganda di guerra in favore dell'annessione.

E così da marzo La Russia possiede la Crimea, di fatto, senza riconoscimento internazionale. Ma questa non è comunque sicura, dal momento che è circondata dall'Ucraina, un paese che è in procinto di firmare un accordo di associazione con l'U.E. alleandosi quindi con i nemici della Russia e liberarsi così del ricatto russo trovando nuovi donatori nell'Europa occidentale. Per poter avere un accesso via terra in Crimea la Russia ha bisogno di controllare la parte orientale dell'Ucraina. Questa tuttavia è differente dalla Crimea, nonostante il peso della popolazione russofona che ha fornito il pretesto per l'invasione. Non essendoci basi militari russe nell'Est dell'Ucraina i referendum separatisti di Donetsk e Luhansk non possono mettere al sicuro questa regione ma solo destabilizzarla, provocando altri scontri. L'Ucraina dell'est non è nemmeno sicura di controllare le gang separatiste locali.

La Russia ha comunque un'altra carta da giocare in caso di destabilizzazione di questa regione : la Transnistria, che si è separata dalla Moldavia, alla frontiera Sud-ovest dell'Ucraina dove vive ugualmente un'importante etnia russofona.

Non siamo di fronte a una nuova guerra fredda, quanto piuttosto a un nuovo passo nella barbarie militare


Questi fatti non significano assolutamente un ritorno alla guerra fredda. La guerra fredda costituisce un periodo di parecchie decine di anni di tensioni militari tra i due blocchi imperialisti che si dividevano l'Europa. Nel 1989 la Russia si è indebolita al punto da non poter più controllare i suoi satelliti, nemmeno la vecchia Unione Sovietica, come si è visto al momento della guerra in Cecenia. Ora molti paesi dell'Est Europa fanno parte della NATO che così si è impiantata fino alle frontiere della Russia. Tuttavia quest'ultima ha sempre un arsenale nucleare e conserva gli stessi interessi strategici. La minaccia di perdita di ogni influenza in Ucraina costituisce un pericolo di indebolimento che essa non può permettersi. Perciò è costretta a reagire.

Gli Stati Uniti sono la sola superpotenza restante, ma essi non hanno più l'autorità di un dirigente di blocco sui suoi « alleati » e concorrenti in Europa ; questo è stato attestato dal fatto che essi non hanno potuto mobilitare queste potenze per spalleggiarli nella seconda guerra in Iraq, come gli era riuscito nella prima. Gli Stati Uniti sono stati un po' indeboliti da più di vent'anni di usuramento nelle guerre in Iraq e in Afganistan. In più essi devono far fronte all'emergere di un nuovo rivale, la Cina, che è in grado di destabilizzare il Sud-Est asiatico e l'Estremo Oriente. Perciò, nonostante la loro intenzione di diminuire il budget militare, gli Stati Uniti sono obbligati a focalizzare la loro attenzione su questa regione del mondo. Obama ha dichiarato : « Alcuni dei nostri più grandi errori passati non vengono dal nostro disimpegno, ma dal nostro accanimento a precipitarci in avventure militari senza pensare alle conseguenze.» Questo non significa che gli Stati Uniti non cercheranno di avere la loro parte di torta in Ucraina, attraverso la via diplomatica, la propaganda e le azioni segrete, ma non c'è la prospettiva di un intervento immediato.

La Russia non si confronta con un Occidente unificato, ma con una moltitudine di paesi che difendono ognuno i loro propri interessi imperialisti, anche se a parole condannano l'intervento della Russia in Ucraina. La Gran Bretagna non vuole che le sanzioni compromettano gli investimenti russi nella City ; la Germania pensa alla sua attuale dipendenza dal gas russo, anche se cerca altre risorse energetiche.I paesi Baltici sono favorevoli a una condanna e ad azioni molto severe visto che una buona proporzione delle loro popolazioni sono russofone, e quindi si sentono anch'essi minacciati. E' così che il conflitto ucraino ha scatenato una nuova spirale di tensioni militari nell'est europeo dimostrando che non c'è rimedio contro di esse.

In questo momento la Russia affronta delle sanzioni che sono potenzialmente molto dannose, dato che riguardano le esportazioni di petrolio e di gas. La recente firma di un contratto per vendere gas alla Cina le è venuta in aiuto. La Cina non ha seguito l'ONU nella condanna dell'annessione della Crimea da parte della Russia. A livello di propaganda essa rivendica Taiwan sulle stesse basi delle pretese russe in Crimea : l'unità dei popoli che parlano cinese, mentre non vuole ammettere il principio di autodeterminazione per le sue numerose minoranze etniche.

Tutte le fazioni borghesi, sia all'interno dell'Ucraina che quelle che manovrano dall'esterno, sono confrontate a una situazione in cui ogni movimento non fa che peggiorare le cose. E' un po' come al gioco degli scacchi, gioco amato sia dai russi che dagli ucraini, quando ogni movimento fatto da un giocatore non può che aggravare la sua situazione, cosicchè egli non può fare altro che muovere o abbandonare. Per esempio, Kiev e l'U.E. auspicano un avvicinamento, il che non può che condurre a un conflitto e al separatismo nell'est ; la Russia vuole affermare il suo controllo sulla Crimea, ma siccome non può prendere il controllo dell'Ucraina o della sua parte orientale, tutto quello che può fare è provocare discordia e instabilità. Più ogni parte cerca di difendere i propri interessi, più la situazione diventa caotica e più il paese scivola verso la guerra civivle aperta – come nella Jugoslavia degli anni 1990. Questa è una caratteristica della decomposizione del capitalismo, in cui la classe dominante non può proporre una prospettiva razionale alla società e la classe operaia non è ancora capace di avanzare la sua prospettiva.

Il pericolo per la classe operaia


In questa situazione il rischio per la classe operaia è di essere irreggimentata dietro l’una o l’altra delle differenti fazioni nazionaliste. Questo pericolo è accresciuto dalla ostilità storica basata sulla vera e propria barbarie che ogni fazione ha esercitato durante tutto il 20° secolo: la borghesia ucraina può ricordare alla popolazione e in particolare alla classe operaia la carestia che ha ucciso milioni di persone come conseguenza della collettivizzazione forzata sotto la Russia stalinista; i Russi possono ricordare alla loro popolazione il sostegno degli ucraini alla Germania durante la seconda guerra mondiale mentre i Tartari non hanno dimenticato la loro espulsione dalla Crimea e la morte di circa la metà delle 200.000 persone coinvolte. C’è anche il pericolo, per la classe operaia, di rimproverare a questa o quella frazione di essere responsabile dell’aggravamento della miseria e di essere attirata nella trappola della difesa di un campo contro un altro. Nessuna di esse ha niente da offrire alla classe operaia, se non l’accentuazione dell’austerità e un conflitto sanguinario.

E’ quasi inevitabile che qualche operaio sia attirato nel sostegno a una fazione filo e anti-Russi, anche se non siamo sicuri di ciò che stia effettivamente avvenendo. Ma il fatto che il Donbass sia diventato un campo di battaglia per le forze nazionaliste evidenzia la debolezza della classe operaia in questa zona. Confrontati alla disoccupazione e alla povertà, gli operai non hanno la forza di sviluppare lotte sul proprio terreno insieme ai loro fratelli di classe dell’Ucraina dell’Ovest e corrono il rischio di essere sollevati gli uni contro gli altri.

C’è però una speranza, tenue ma significativa: una minoranza internazionalista in Ucraina e in Russia, il KRAS e altri, hanno espresso una presa di posizione coraggiosa: «Guerra alla guerra. Non versiamo una sola goccia di sangue per la ‘nazione’»; questi internazionalisti difendono la posizione della classe operaia. La classe operaia, sebbene non possa ancora mettere avanti la sua prospettiva rivoluzionaria, non è battuta a livello internazionale. E’ questa la sola speranza per un’alternativa di fronte alla corsa del capitalismo verso la barbarie e l’autodistruzione.

Alex, 8 giugno