22.3.14

Il rapporto redatto nel 1852-53 da un agente della polizia prussiana su Karl Marx e la sua famiglia


 
Il capo di questo partito (dei comunisti) è Karl Marx; i sottocapi sono Friedrich Engels a Manchester, Freiligrath e Wolff (detto Lupus) a Londra, Heine a Parigi, Weydemeyer e Cluss in America; Burgers e Daniels lo erano a Colonia, Weerth ad Amburgo. Ma la mente attiva e creatrice, la vera anima del partito è Marx; perciò voglio informarla anche della sua personalità.

 Marx è di media statura; ha trentaquattro anni; malgrado l’età, i suoi capelli sono già grigi; la sua corporatura è vigorosa; i tratti del volto ricordano notevolmente quelli di Szemere (Bertalan Szemere, poeta e nazionalista ungherese, primo ministro durante la rivoluzione del ’48 – ndr), a parte il colorito più scuro e i capelli e la barba nerissimi; porta la barba completa; i suoi occhi grandi, focosi e penetranti, hanno qualcosa di sinistro, di demoniaco. Tuttavia si nota in lui al primo sguardo l’uomo di genio e di energia. La sua superiorità intellettuale esercita un’influenza irresistibile su chi lo circonda.

 Nella vita privata è estremamente disordinato e cinico; è un pessimo amministratore, e conduce una vera esistenza da zingaro. Lavarsi, pettinarsi, cambiare la biancheria sono per lui delle rarità, alza volentieri il gomito. Spesso se ne sta tutto il giorno stravaccato, ma se ha molto da fare lavora giorno e notte con una resistenza inesauribile; il sonno e la veglia non sono distribuiti nella sua vita in modo regolare; molto spesso rimane sveglio tutta la notte, poi verso mezzogiorno si getta vestito sul canapè e dorme fino a sera, senza preoccuparsi di chi gli gira intorno, in quella casa in cui tutti vanno e vengono liberamente.
Sua moglie, la sorella del ministro prussiano von Westphalen, è una signora colta e gradevole, che per amore del marito si è abituata a una vita zingaresca e ora si sente perfettamente a suo agio in quella miseria. Ha due bambine e un bambino, tutti molto belli e con gli stessi occhi intelligenti del padre.
 
Come marito e padre di famiglia Marx, a dispetto del suo carattere altrimenti irrequieto e violento, è l’uomo più tenero e mansueto di questo mondo. Marx abita in uno dei peggiori quartieri di Londra, e di conseguenza anche dei più economici. Occupa due stanze; quella che guarda sulla strada è il salotto, quella che dà sul retro è la camera da letto. In tutta la casa non si trova un mobile pulito e in buono stato; tutto è rovinato, logoro, a pezzi, ricoperto da uno strato di polvere spesso un dito; ovunque regna il massimo disordine. In mezzo al salotto si trova un grande tavolo di età veneranda, ricoperto da uno spesso strato di cera mai rimossa. Qui si ammonticchiano i manoscritti, i libri e i giornali di Marx, i giocattoli dei bambini, i lavori di rammendo della moglie, tazze di tè dagli orli sbreccati, cucchiai sporchi, coltelli, forchette, candelieri, calamai, bicchieri, pipe di terracotta olandesi, cenere di tabacco: tutto gettato alla rinfusa su quell’unico tavolo.
Quando si entra in casa di Marx il fumo del carbone e del tabacco è così denso che al primo momento si brancola come in una spelonca; poi, a poco a poco, lo sguardo si abitua al fumo, e si comincia a scorgere qualche oggetto, come attraverso una nebbia. Tutto è sporco e ricoperto di polvere, sedersi è veramente un’impresa pericolosa. Qui una sedia si regge solo su tre gambe, là i bambini giocano ai cuochi su un’altra sedia, casualmente rimasta intera. Naturalmente la sedia intera viene offerta al visitatore, ma senza ripulirla dalla cucina dei bambini, e chi si siede rischia un paio di pantaloni. Ma tutto ciò non procura a Marx e a sua moglie il minimo imbarazzo. L’accoglienza è la più amichevole; la pipa, il tabacco e tutto quello che si trova in casa viene offerto con la massima cordialità. Una conversazione intelligente e piacevole sopperisce finalmente alle deficienze domestiche, rendendo tollerabile ciò che al primo impatto era solo sgradevole. Allora ci si può perfino riconciliare con la compagnia, e trovar l’ambiente interessante e originale.

Ecco il ritratto fedele della vita familiare di Marx, il capo dei comunisti.

fonte:  http://gabriellagiudici.it

21.3.14

Ucraina


Non è un mistero per nessuno, come poi vedremo, che il “caso Ucraina” non rappresenta in nulla e per nulla una questione strettamente interna a quel paese e tantomeno un suo problema di affrancamento dall’occhiuta tutela o da un presunto interventismo russo negli affari di quel paese, ma semplicemente un episodio della guerra fredda, in via di surriscaldamento, scatenata dagli USA contro l’incipiente e sempre più robusta concorrenza dei paesi emergenti, prima fra tutti la Russia, con l’Europa in funzione ausiliaria (e da tenere essa stessa a freno). La prima potenza imperialistica è oggi ferita, ma proprio per questo, grazie al perdurante ruolo dominante del dollaro ed alla sua straripante forza militare, è costretta ad un massimo di aggressività a scala internazionale. Per essa non si dà certamente la prospettiva “pacifica” che fu dell’Inghilterra di passare al secondo rango nel novero dei paesi imperialisti.

Ciò non toglie, di certo, che l’Ucraina soffra di “suoi” specifici problemi interni da cui si originano i varii sommovimenti “interni”. Solo che essi sono il risultato di contraddizioni capitalistiche che non hanno nulla di specificamente “interno” e tanto meno sono risolvibili entro questo quadro. Per l’Ucraina liberarsi dai “suoi specifici problemi interni” significa fare i conti con le leggi attuali della crisi capitalista mondiale entro cui essi sono imprigionati. Né la sponda USA né, meno ancora, quella europea potranno dare ad essi una prospettiva di soluzione; tant’è: l’amorevole soccorso occidentale all’Ucraina già in partenza significa pesanti diktat economici e politici il cui peso è destinato a ricadere sulle masse lavoratrici del paese, come ben si vede dai “suggerimenti imperativi” trasmessi a Kiev dal FMI e dalle cancellerie di Bruxelles.

Prima di muovere i carri armati, l’Occidente lavora a prepararne il terreno sul piano ideologico, dell’imbottimento dei crani. Tutto come da copione. La prima guerra mondiale fu preceduta da campagne propagandistiche di massa sulla “barbarie” (dei nemici contro cui lanciarsi): il tedesco cattivo per natura da una parte della barricata, la minaccia zarista dall’altra. La seconda idem: orrore nazi-fascista da un lato, diritto dei “paesi proletari” ad emanciparsi dalla dittatura plutocratica dall’altro. Il nuovo tornante preparatorio di un ennesimo massacro planetario di inedite dimensioni sta facendosi strada attraverso un’offensiva in nome della “giustizia internazionale” contro gli “stati canaglia” (il cui elenco sta via via dilatandosi) ed ha già messo a segno il risultato del passaggio dalla propaganda alle armi: Iraq, Afghanistan. Jugoslavia, Somalia, Sudan, Libia, Siria, Africa francofona etc. etc. Ora ci stiamo avvicinando a grandi passi verso il centro nodale: Russia, Cina, America deyankizzata, e non è ancora finita, soprattutto a misura che le “canaglia” stanno cessando di restare impassibili, e persino corresponsabili, di fronte al Nuovo Ordine Mondiale imposto dagli USA, e sottoscritto dall’Europa, e – come in Siria ed Ucraina –cominciano a puntare i piedi...e qualcosa di più.

A questa stregua di deve comprendere l’attuale macchina propagandistica antirussa, di cui ci occuperemo qui di seguito brevemente per mostrare il nesso tra “idee” ed armi.


L’ultima offensiva mediatica antirussa si è svolta all’insegna della “lotta all’omofobia”. Il paravento della (sacrosanta) difesa degli omosessuali a tutela dei loro diritti civili, contro ogni forma di discriminazione, sta diventando sempre più una sorta di grimaldello a favore di una propaganda politica di parte (e di che parte!) contro chi sta sulle scatole ai big imperialisti, ed a ciò non mancano di prestar le armi certe lobby gay di regime, ben diramate e foraggiate ovunque al pari di tante ONG che Putin ha provvidenzialmente fatto smammare dal proprio paese. A parte che diverte il fatto che Obama e soci, così intransigenti in tema di diritti gay, non si diano eccessiva cura di quelli delle molteplici popolazioni (etero ed omo, vecchi e bambini...) in cui si va ad occupare territori altrui ed uccidere a raffica, resta assodato che la presunta “omofobia” russa è semplicemente una bufala. Le leggi in vigore in Russia in materia sessuale (votate da tutto “l’arco costituzionale” del paese, se l’espressione è permessa anche per i cattivi slavi!) non inibiscono né tantomeno sanzionano penalmente i rapporti omosessuali tra adulti consenzienti, com’è giusto e del tutto indipendente dai pareri che si possano personalmente o “a stragrande maggioranza” della popolazione avere in materia. Esse si limitano a proibire, secondo noi del tutto a ragione, la “pedagogia” (diciamo così) ed il reclutamento omosessuale tra i minori, diversamente da quanto avviene in molti paesi occidentali sull’onda della diversificazione ed allargamento del mercato del sesso da ridurre a motivo di profitto contabilizzabile. D’altra parte basterebbe ai nostri egregi “informatori” dar conoscenza diretta delle leggi di cui sopra, e poi ognuno dirà la sua. Né, a quanto sembra, si sono mai trovati in Russia reclusi per “reati di omosessualità” da esibire al pubblico (mentre ve ne sono, magari, in certi paesi “nostri amici”, come poi diremo).

Ciò non toglie che sul tema si sia scatenata una campagna mediatica senza precedenti e che la prima clamorosa misura presa “a difesa dei diritti gay” sia stata quella del boicottaggio delle Olimpiadi invernali di Soci da parte della maggior parte delle autorità di governo occidentale. La cosa non stupisce: anche le precedenti Olimpiadi di Pechino avevano subito la stessa sorte, magari declinata non sui diritti gay ma su quelli buddisti o uiguri o qualsiasi altra cosa purché mirante al segno: l’imbottimento-crani dei popoli d’Occidente per la crociata ideologica (per il momento...) imperialista. Ci fossero state le Olimpiadi nel Cile di Pinochet nessuno di questi mascalzoni sarebbe mancato. E, come ciliegina sulla torta, la RAI ha relegato l’evento tra le ultime di cronaca, come si fosse trattato di una gara di bocce aziendale, ricordandosene solo in occasione di qualche medaglia di bronzo o di legno all’insegna dell’Inno di Mameli. Come, e più, nel caso di Pechino era sconveniente mostrare la perfetta organizzazione dei giochi messa in atto dai cattivoni di turno con tanto di strutture probabilmente destinate a non cadere a pezzi a breve termine come altrove (forse noi italiani ne sappiamo qualcosa!), smentendo la favola del paese al collasso.

In un ottimo e divertente articolo sul Manifesto il solito Dinucci, voce alquanto fuori dal coro rispetto allo staff redazionale, ha ricordato al difensore dei diritti nostrano Letta in procinto di partire per Soci, ma con l’intenzione dichiarata di manifestare lo sdegno italiota nei confronti dell’omofobo “zar” Putin, che queste nobili intenzioni le stava manifestando fresco di ritorno dai paesi arabi del Golfo, con tanto di contratti e soldi (non sporchi come il rublo!) in tasca, dove la condizione dei gay non sembra davvero delle più rosee, con una gamma di correzioncelle amorevoli che vanno dalla galera alla lapidazione; e lui, povero ignaro!, non se n’era accorto! Pare non essersene accorto/a neppure l’ex –“onorevole” di Rifondazione Comunista (!) ed ex-Isola dei Famosi (senza aggettivi!) Vladimir Luxuria che, in luogo di trasferirsi in quei paesi arabi, ha provveduto ad agghindarsi clown (difficile che gli omosessuali seri vi si possano riconoscere!) e farsi soccorrere da reporter di regime per andare a Soci ad inalberare la bandiera dei diritti civili. Audience in loco? Nessuna, tantomeno da parte delle pretese “masse gay oppresse”, salvo forse la sorpresa di qualcuno nel sapere che in Italia il Carnevale arriva in anticipo. Ci permettiamo di dare un suggerimento agli opinion maker anti-Putin: aggiornate il vostro repertorio, lasciate stare i fenomeni da baraccone – il cui mantenimento, tra l’altro, costa caro – tipo Femen, Pussy Riots e Luxurie e pensate a strumenti di più serio e produttivo. O forse avete già pensato a qualcosa di più... esplosivo? Ne abbiamo il sospetto!

La macchina propagandistica imperialista ci ha davvero rotto i timpani col suo incessante “zar Putin” che ci viene rifischiato nelle orecchie unanimemente dalla destra più becera alla “estrema sinistra” più... manifesta. Un leader borghese ed un paese borghese non in posizione di primato imperialista a scala internazionale vengono qualificati di zarismo allorché assumono posizioni di sbarramento nei confronti delle cannoniere (in senso metaforico e proprio) USA, ma nessuno, neppure al Manifesto, si perita di definire Obama come Attila per quanto dove passa lui davvero non cresca più l’erba o con altri nomi spregiativi, sino a Maramaldo, i suoi sodali (ultimo il buon Renzi, le cui prime telefonate rassicuranti a capi esteri sono state per Netanyahu ed Obama).

Ma la merda mass-mediatica è il meno, ovvero è solo uno strumento a servizio dell’offensiva borghese.

E veniamo al seguito, alla guerra guerreggiata.

IL FILM UCRAINO: KIEV RECITA DA COMPARSA

Non intendiamo spendere in materia molte parole. Persino Il Giornale, a firma F. Biloslavo (21 febbraio), può tranquillamente dire di cosa si tratta: “In realtà è in atto una battaglia cruenta della nuova guerra fredda fra Washington e Mosca”, “con l’aggravante di continuare a raccontarci solo dei manifestanti europeisti ammazzati dalla polizia e non degli agenti uccisi sull’altro fronte”. Due cose, quindi, balzano subito in scena: il fatto che il protagonista primo di questo scontro siano gli USA che stanno dietro alla mobilitazione fascistoide di piazza Maidan preventivamente “piena di arsenali nascosti”, di facilmente indovinabile provenienza, e di un personale “autoctono” ben addestrato e promosso dagli yankee, con Mosca oggetto di questa provocazione; in secondo luogo: il valore del tutto ausiliario dell’Europa in questa operazione, destinata – oltretutto – a pesare gravemente su di essa in termini di costi e... zero profitti (tanto economici che politici).

La palla della primavera (d’inverno) ucraina si sgonfia da sé. Vero che il governo Janukovic, sorretto anche da un cosiddetto fasullo “partito comunista” ad esso coalizzato, faceva letteralmente schifo. Meno vero che lo facesse più della precedente esperienza Timoschenko. Assolutamente fasulla poi l’equazione Janukovic “servo di Mosca”. In realtà in quasi tutte le repubbliche nate dalla dissoluzione dell’URSS si sono istallati al potere dei profittatori privati assolutamente al di sotto di ogni soglia minima di presentabilità borghese all’altezza dei compiti, ma incommensurabilmente più rapaci individualmente di qualsiasi rapace borghese in quanto classe. Questo il frutto dello stalinismo, strangolatore da un lato della prospettiva comunista dall’altro incapace di allevare nel proprio (capitalistico) seno un personale borghese ad hoc. Mosca si è trovata a dover trattare con questo tipo di personale (per i propri interessi borghesi? Fin troppo ovvio), ma senza invasioni di campo (sinonimo non di buona volontà, ma di perdurante debolezza strutturale). Tant’è: per certi tratti Janukovic ha tentato di giocare la propria partita da piccolo trafficante su più tavoli e ci sono stati anche dei momenti in cui l’Occidente lo ha considerato un possibile buon interlocutore così come non gli aveva negato in precedenza il riconoscimento di esser stato regolarmente eletto attraverso democratiche elezioni con tanto di certificato degli osservatori OCSE (particolare già di per sé significativo dell’attenzione prestatagli come possibile partner).

Una sintesi abbastanza congrua del problema ucraino attuale, a partire dai suoi remoti precedenti, può desumersi – ricettari politici d’intervento “marxista” a parte – nel testo Dove va l’Ucraina? di Alan Woods (sul sito marxist.com), mentre per la “cronaca” della “rivoluzione arancione atto secondo” possiamo rimandare all’esauriente pezzo di Flavio Pettinari per Marx21.it (Ucraina: i tragici sviluppi dell’aggressione nazifascista sostenuta dall’Occidente imperialista più l’annesso sul rapporto del Research Team dell’Executive Intelligence Review di Washington), anche in questo caso diffidando dalle conclusioni politiche. Non c’interessa ripeterci.

Sul “protagonismo” dell’Europa nella questione e sulle sue ricadute su di essa le analisi forse più interessanti le troviamo, invece, in certa stampa di “destra rivoluzionaria”. Ad essa (a parte ogni doverosa considerazione sul suo carattere controrivoluzionario) va il merito di demolire la bubbola dell’“allargamento dell’Europa” all’Ucraina per i precipui interessi propri. Il patron delle attuali bande al potere a Kiev presente in loco a dettare legge è Kerry, mentre i governanti europei stanno, al massimo, al telefono a “consultarsi” col padrone; ma è ad essi che toccherà accollarsi i costi dell’aggregazione formale dell’Ucraina all’Europa e, sin d’ora, delle sanzioni emanate contro Mosca a tutto loro danno (Hollande ne voleva ancora di maggiori, forse per far dispetto più a Berlino – i cui fili economici sono ben intrecciati con Mosca – che alla Russia). La “destra rivoluzionaria” bene intende la necessità che un’Europa realmente in vena di sovranità (capitalistica) avrebbe di spezzare le catene che la tengono avvinta agli USA gettando un ponte verso gli emergenti “paesi canaglia” (URSS e Cina in primis). Traduzione aggiornata del tema “paesi proletari contro potenze plutocratiche” (e relativi... posti al sole da conquistare).

E veniamo al punto per noi cruciale: la posizione assunta dal proletariato ucraino, dell’ovest e dell’est, sulla faccenda. Nessun cronachista o commentatore ha potuto osar scrivere che esso abbia fatto parte della canea fascistoide di Kiev né che, all’est, si sia parimenti fatto ingabbiare dalle sirene borghesi russe. Sta di fatto che (come, per altri versi, in Siria) esso si sia tenuto in qualche modo in disparte. Non scrive male il Woods: “La debolezza (?!) principale del movimento (si intende forse delle iniziali spinte anticorruzione del “popolo”, prima ed al di fuori di quanto esploso successivamente, n.n.) è l’assenza di un movimento indipendente della classe operaia. Ci sono stati diversi tentativi di organizzare uno sciopero nazionale, ma nessuno ha avuto successo. La stragrande maggioranza della classe operaia è ferocemente ostile alla oligarchia e al regime politico corrotto. Ma non si vedono rappresentati dai manifestanti e hanno adottato un atteggiamento passivo. E’ l’assenza di un movimento indipendente del proletariato ucraino che ha condotto le proteste in un vicolo cieco. L’atteggiamento dei lavoratori nelle regioni orientali è di scetticismo. Quando viene detto loro che Janukovic è corrotto alzano le spalle e dicono: ’E chi non lo è?’. Questo scetticismo è fondato. Hanno già avuto l’esperienza della ’rivoluzione arancione’ e si ricordano come è finita. C’è stato un rimpasto ai vertici e una banda di oligarchi corrotti ha preso il posto di un’altra, e per le masse nulla è cambiato”. Questo provvisorio “assenteismo” della classe operaia ha naturalmente le sue ragioni storiche, che stanno interamente nella funzione svolta per decenni dal potere stalinista e post-stalinista nella regione e su ciò sarebbe bene interrogarsi, soprattutto da parte di chi (come il Woods) è stato artefice della teoria dello “stato operaio degenerato” da... rigenerare attraverso una rivoluzione politica e non sociale: per tutto un lunghissimo arco storico la classe operaia sovietica è stata esautorata e castrata sia sul piano politico che su quello sociale con tanto di schifose oligarchie frutto consequenziale della “conquista da difendere” della “proprietà collettiva” (!) a carattere “post-capitalista”.

Risalire da questo abisso è difficile ed è perfettamente inutile diffondersi in programmi alternativi incapaci di rendersi conto dei singoli anelli da riconquistare, attraverso difficili ed amare esperienze, per ricostituire la catena di un programma di classe. La quale – diciamolo subito – non potrà mancare, come già si intravvede nelle esperienze di lotta che stanno presentandosi, ad esempio, nella ex-Jugoslavia (vedi i recenti fatti in Bosnia-Erzegovina). Ma proprio per aiutare queste esperienze a farsi strada verso lo zenit comunista occorrerà esserci presenti col massimo della chiarezza teorico-programmatica traendo tutte le debite lezioni dal passato al di fuori di certe mistificazioni tanto neo-staliniste che “trotzkiste”. “Il problema centrale è quello della direzione”, scrive il Woods; già, ma esattamente di una giusta direzione che non sia stata compromessa con lo stalinismo o si appresti a nuove virate verso altri abissi.

NEL CAMPO DELLE “OPINIONI”
SUL CASO UCRAINA QUI DA NOI

Nel “campo rosso” le posizioni assunte rispetto alla questione ucraina si possono sommariamente dividere in due gruppi: a) quelle che in qualche modo attribuiscono alla Russia un ruolo anti-imperialista, magari anche soltanto “oggettivo” (la famosa pietra d’inciampo), da appoggiare o magari cui appoggiarsi in nome di una soluzione “socialista” dei “nostri” problemi europei (una Nuova Europa è in programma!) e/o soprattutto italiani (viste le ultime scoperte, in certi ambiti, del nesso marxismo-patriottismo sin qui ignorato e vilipeso dai soliti dogmatici settari); b) quelle che rifiutano di confondersi, sia pur “solo” tatticamente, con gli interessi della neo-borghesia russa e si richiamano a una soluzione autenticamente socialista, rivoluzionaria, della crisi ucraina nel quadro dell’internazionalismo proletario. Ovvio che noi stiamo su questa seconda trincea, ma non è per sfizio narcisistico che ci tocca anche dalla maggior parte dei suoi sostenitori prendere delle debite distanze. Vi è poi una terza via, da scaricare subito nella fogna: quella, praticata da certi marrani del trotzkismo da neo-sinistri alla Syriza, che addirittura hanno appoggiato la “rivolta popolare” di piazza Maidan, replicando l’esperienza criminale (quando non solo semplicemente idiota) dell’appoggio alle “rivoluzioni” libiche e siriane e corollari vari del genere. (Citiamo da Falce Martello, fidandocene: “Il fatto che Barbara Spinelli e i promotori liberal-progressisti della lista Tsipras abbiano sostenuto la rivolta ucraina, lamentando semmai un sostegno ’debole’ e ’insufficiente’ alla rivolta da parte dell’UE dà un’idea della subalternità (noi aggiungeremmo: dell’internità, n.n.) del ’civismo democratico’ al liberalismo borghese e alle sue mistificazioni”)

Quanto alla prima delle due posizioni ci limitiamo a dire: un discorso del genere che voi usate ci suona logico (e, da questo punto di vista, apprezzabile) quando ci viene da forze della “destra rivoluzionaria” (“socialista nazionale”, va da sé) quale la squadra di Rinascita che, coerentemente, muove da considerazioni di geopolitica su cui poggiare le strategie italiane ed europee di indipendenza dal cappio USA e, quindi, di una propria sovranità (capitalista – occorre dirlo? –anche se con gli opportuni ritocchi “sociali” a favore del “popolo”). Ma che esso ci venga presentato sotto veste marxista semplicemente c’indigna, più che farci sorridere. E lo diciamo con rammarico fraterno e non per anatema, perché sappiamo benissimo come su questa trincea ci stanno compagni soggettivamente onesti, combattivi, realmente impegnati in tante lotte nostre. Compagni, talora, assai più affidabili, da questo punto di vista, di certi “ortodossi” formali.

Quale la posizione dei comunisti degni di questo nome? Dal punto di vista analitico si tratta di evitare certe equiparazioni quanto alle opposte forze borghesi in campo. Non serve nulla (al contrario!) equiparare, poniamo, USA Europa e Russia come la stessa cosa e con gli stessi metodi. Qui la spinta aggressiva rispetto all’Ucraina ha degli agenti diretti che non sono Mosca come Washington, ma USA e blocco europeo egemone, anche qui con varie finalità e modalità d’intervento (c’è chi traina e chi è trainato, e quest’ultimo senza i guadagni ipotizzati – ciò che non lo rende meno criminale –). Il capitalismo russo è, nella situazione attuale, sulla difensiva (non a mani nude, certo, e non senza una prospettiva di contrattacco), ma per evitare di appoggiarlo codisticamente serve poco l’equazione Mosca=Washington.

Un certo “puro internazionalismo” di facciata senza compromissioni con nessun fronte borghese, quale che si sia, conduce certuni, specie nel campo cosiddetto “trotzkista”, a – diciamo eufemisticamente – delle esagerazioni: né con Saddam né con Bush, né con la NATO né con Milosevic, né con Gheddafi né con gli euro-USA e i loro scherani in campo, né con Assad né con i suoi nemici (interni ed esterni), né con Chavez né con la piazza (stellestrisce) opposta etc. etc. L’alternativa consisterebbe nell’esplodere di una vera ed incontaminata rivoluzione socialista, ma ci si dimentica semplicemente che una tale prospettiva può darsi solo a partire da una mobilitazione attiva contro l’aggressione imperialista capace, per la sua forza di massa ed il programma politico-sociale cui essa – eventualmente – arriva a riferirsi, di non muoversi a rimorchio della “propria borghesia offesa” o di eventuali schieramenti borghesi “amici”. Ad esempio: la lotta contro la banda Capriles e i suoi mandatari USA è sacrosanta per definizione, ma può riuscire vincente solo a patto di superare in corso d’opera lo sbarramento “chavista”. Un altro rispetto al chavismo nasce, se arriva a nascere, da questo quadro, non da un “né né” astratto dal terreno di lotta.

Prendiamo il caso della domanda di separazione dall’Ucraina avanzata dalla popolazione della Crimea. Il PCdL scrive in proposito: “La mobilitazione della popolazione russofona contro la minaccia nazionalista reazionaria ucraina ha in sé (?) una sua legittimità. In particolare la Crimea inserita in Ucraina dall’URSS di Krusciov nel 1954 ha diritto alla propria autodeterminazione. Ma le istanze russofile sono oggi leva di manovre di altre forze ed interessi”, quindi... nisba. Parola d’ordine dei nostri: “Per una Ucraina socialista unita – con il rispetto dei diritti nazionali della minoranza russofona e dello specifico diritto di autodeterminazione della Crimea – nella prospettiva degli Stati Uniti Socialisti d’Europa”.

In realtà ove fosse presente un movimento proletario gagliardamente in piedi non parleremmo di “diritti” secessionisti, né in sé né... fuori di sé, ma di unità anche territoriale su base di classe nel superamento delle barriere nazionali (e relativi diritti borghesi) e della stessa forma-Stato tradizionale (ancora una volta: borghese). In assenza di ciò, al presente, i russofoni sono in qualche modo costretti, per salvare se stessi, a diventare russofili (i due termini non sono equivalenti) ed a pretendere quel divorzio da Kiev che – guarda caso! – non era precedentemente in programma secondo il diritto democratico (quindi: borghese) dell’autodeterminazione. Entrano in gioco altre forze ed interessi? Ovvio. Ma spetta in questo caso ai comunisti in campo (compresi quelli ipotetici a distanza) far sì che la conquista di questo diritto “costituzionale” (omettiamo di re-aggettivarlo) non si traduca in un programma ucrainofobo o piattamente pro-Putin. Se c’è qualche comunista a Kiev difenderà a spada tratta questo diritto contro i propri dirigenti fascio-borghesi per gettare un ponte fraterno, di unità di classe, ai propri compagni proletari di Crimea; e lo stesso dirà il comunista di Crimea:ci tocca separarci dal “vostro” stato banditesco, ma non ci separiamo da voi, nostri fratelli di classe. Un buon punto di partenza è il fatto che sia gli abitanti di Crimea sia la stragrande maggioranza dei dimostranti in Russia a loro favore non manifestano alcun odio anti-ucraino (ne è testimonianza, d’altra parte, la situazione di normalità in cui vie oltre un milione e mezzo di lavoratori e lavoratrici ucraini in Russia). Resta come un macigno il “ma” di cui sopra, cui ci limitiamo ad obiettare: siete forse a conoscenza di qualche esercizio del diritto di autodeterminazione esente da “manovre di altre forze ed interessi”? Difficile invocare Lenin al proposito. Non ci pare che in occasione della separazione Svezia-Norvegia Lenin abbia posto delle precondizioni ultimatiste di natura immediatamente socialista, né ancor meno che lo abbia fatto nei riguardi del diritto all’autodecisione di nazionalità “sovietiche”, cui attribuiva il diritto di separarsi da Mosca (per quanto spiacevole fosse e certamente in presenza di “altri interessi” in campo rispetto ai nostri).

E allora. Partiamo intanto dal riconoscimento pieno del diritto della Crimea a separarsi da Kiev come atto elementare di autodifesa imposto dall’aggressione imperialista occidentale tramite i suoi scherani in loco giacché l’esercizio di questo diritto non può essere rimandato all’attesa dell’“irruzione” dei proletari come li vorremmo nella “lotta di classe con una loro politica anticapitalista”, come c’insegna il PCdL; prendiamo pure atto che esso è distante le mille miglia dal nostro programma matrimoniale “socialista unitario” (con... diritto alla separazione tra i coniugi!?) e per l’appunto lavoriamo in questa direzione essendocene assicurata la precondizione necessaria: il riconoscimento da parte nostra del diritto in questione nel concreto, su cui tutto il nostro lavoro resta sicuramente da fare. Detto questo va pertanto ribadito da comunisti che noi lavoriamo per andare oltre il traguardo di un’autodecisione racchiusa nell’ambito del capitalismo attuale; autodecisione che non potrebbe essere che illusoria a questa stregua. Perché? Lo diceva bene la Luxemburg: “E’ vero: il socialismo riconosce ad ogni popolo il diritto all’indipendenza, alla libertà e alla libera decisione sui propri destini. Ma è una vera beffa al socialismo presentare gli odierni Stati capitalistici come espressione di questo diritto all’autodecisione. Infatti in quale di questi Stati fino ad ora la nazione ha deciso sulle forme e condizioni della propria vita nazionale, economica e sociale? (..) Il socialismo internazionale riconosce il diritto di nazioni libere, indipendenti, dotate di eguali diritti, ma esso soltanto può creare queste nazioni, esso solo può realizzare il diritto di autodecisione dei popoli. Anche questa parola d’ordine del socialismo non è, come tutte le altre, una canonizzazione di quanto già esiste, ma una guida e un incitamento alla politica rivoluzionaria. (..) Di più: nell’ambiente imperialistico del giorno d’oggi (..) ogni politica socialista che prescinda da questo ambiente storico determinato e in mezzo al vortice mondiale voglia farsi guidare soltanto dai punti di vista isolati di un paese è a priori costruita sulla sabbia.” Se si voleva dire questo allora d’accordo: anche noi siamo per “una guida e un incitamento alla politica rivoluzionaria”; solo che si guida e si incita un movimento, e questo non sostituibile da proclami finali.

Infine: in una data “letteratura marxista”, quella “trotzkista” in particolare, assistiamo regolarmente all’indicazione di ciò che i popoli in conflitto dovrebbero fare per mettersi in regola con le tavole della nostra Legge. Alan Woods, ad esempio, ed i suoi seguaci di FalceMartello: “Una volta che la classe operaia abbia scacciato i parassiti di dosso e preso il controllo dei mezzi di produzione non ci sarebbero limiti ai traguardi da raggiungere. (..) In queste condizioni, sarebbero le popolazioni dell’Unione europea e dell’America che rivolgerebbero sguardi invidiosi a Oriente e scenderebbero in piazza per chiedere che l’Europa aderisse alla Federazione Socialista. (!!) La condizione preliminare è che i lavoratori di Ucraina devono prendere il potere nelle proprie mani”. A questo quadro idilliaco manca, a nostro avviso, qualcosa di essenziale: vada pure impartire lezioni di dovere a chi ci è distante; ma non è forse vero che “il nemico principale è il casa nostra”? Ed allora – questa sì che è una “condizione preliminare” contro le chiacchiere a vuoto – perché non dire quali sono i nostri doveri qui, in casa nostra, nel luogo in cui il “nostro” imperialismo fucina i disastri da consumarsi altrove a proprio profitto? Quali i nostri doveri nei confronti del nostro proletariato contro l’insieme delle forze borghesi in campo, quelle “progressiste” comprese?

Il fattore che gioca più pesantemente sui destini dell’Ucraina è proprio il fatto che qui, nelle metropoli, nulla si muove in concreto in materia. Ci si interessa, se volete, come “opinione pubblica”, della commedia sulle quote rosa parlamentari, ma del fatto che Renzi vada ad inginocchiarsi di fronte a Kerry assicurandogli il “nostro pieno appoggio” non frega niente a nessuno, salvo i quattro diavoli del (malcombinato) “quadro marxista” e, su tutt’altro versante, di alcuni “rivoluzionari” rosso-bruni. Sì, è vero, ci sono anche le proteste per il lavoro ed il salario. Ma la loro debolezza è evidente e senza sbocchi in assenza di una visione cosciente della situazione: si vede il governante Tizio e vi si contrappone il governante Caio, ma il problema di cos’è,come lavora e dove sta andando il capitalismo di cui quei Tizio e Caio sono i megafoni trova sorda e smarrita la massa ed a nessuno passa in testa di mettere un po’ il naso fuori casa peninsulare per vedere l’intreccio tra problemi interni e quadro internazionale.

Ed allora: dove sta una campagna di denunzia del nostro imperialismo nella faccenda (e che non sia sbilanciata a favore di capitalismi buoni con cui far gioco tattico di squadra europea)? E da parte di certe sentenziose ali sinistre “trotzkiste” dell’ala sinistra rifondarola della sinistra Tsipras o del centro-sinistra renziano (con cui in comuni e regioni si sta assieme al governo) dove sta una demarcazione anche fisica da simili “compagni di strada”?

Altro che sermoni impartiti agli ucraini! Cominciamo a fare il nostro dovere qui, e fino in fondo!

Altro che “né con l’Unione europea né con Putin”, ma: implacabilmente contro il nostro imperialismo assassino con cui non abbiamo nulla da spartire (neppure nelle ridotte di governi “locali” che nulla avrebbero da spartire con Roma, quasi che la fognetta fosse un’alternativa alla fogna)! (Da parte di certuni ci basterebbe anche solo una vibrante mozione di condanna anti-imperialista contro il nostro governo da proporre tassativamente nelle sedi locali dove la “sinistra unita” regge il carro; non crediamo arriverà, ma, ove fosse, saremo i primi a prenderne nota e dare ad essa il merito che le spetta).

16 marzo 2014
Nucleo Comunista Internazionalista 

14.3.14

Guerra alla guerra! Non una sola goccia di sangue per la “nazione”!

Comunisti per l’Organizzazione di Classe aderisce alla dichiarazione internazionalista contro la guerra in Ucraina e auspica una collaborazione fra le forze internazionaliste proletarie del mondo nella lotta per la conquista rivoluzionaria di una società senza classi sociali né stati.

Dichiarazione Internazionalista contro la guerra in Ucraina

Guerra alla guerra! Non una sola goccia di sangue per la “nazione”!
La lotta di potere tra i clan oligarchici dell’Ucraina minaccia di estendersi ad un conflitto armato internazionale. Il capitalismo russo tenta di utilizzare il riassetto del potere dello Stato ucraino per attuare le sue già stantie aspirazioni imperialiste ed espansioniste in Crimea e in Ucraina orientale, dove ha forti interessi economici, finanziari e politici.
Sullo sfondo della prossima ondata della crisi economica che incombe in Russia, il regime sta cercando di far rivivere il nazionalismo russo per distogliere l’attenzione dai crescenti problemi socio – economici dei lavoratori: salari e pensioni da fame, smantellamento del sistema sanitario disponibile così come dell’educazione e di altri servizi sociali. Nel frastuono della retorica nazionalista militante è più facile portare a compimento la formazione di uno stato aziendale e autoritario basato su valori conservatori reazionari e politiche repressive.
In Ucraina l’acuta crisi economica e politica ha portato ad uno scontro crescente tra i “nuovi” e i “vecchi” clan oligarchici, i primi dei quali hanno utilizzato anche formazioni dell’estrema destra e ultranazionaliste per provocare un colpo di stato a Kiev. L’élite politica di Crimea e dell’Ucraina orientale non vuole condividere il proprio potere e le sue proprietà con il prossimo governo di turno a Kiev e cerca di appoggiarsi all’aiuto del governo russo. Entrambe le parti hanno fatto ricorso alla dilagante isteria nazionalista: ucraina e russa rispettivamente. Ci sono scontri, spargimenti di sangue. Le potenze occidentali hanno i propri interessi e aspirazioni e i loro interventi nel conflitto potrebbero portare alla terza guerra mondiale.
Le fazioni belligeranti spingono, come di consueto, noi, gente comune: lavoratori salariati, disoccupati, studenti, pensionati … a combattere per i loro interessi, trasformandoci in dipendenti della droga nazionalista; gettandoci l’uno contro l’altro dimentichiamo i nostri bisogni e interessi reali: a noi non importa né possiamo curarci delle loro “nazioni” nelle quali ora siamo maggiormente preoccupati da più vitali e urgenti problemi come sopravvivere cosa che si scontra con il sistema che loro hanno fondato per schiavizzarci e opprimerci.
Non cedere alla intossicazione nazionalista. Che vadano al diavolo con il loro stato e le loro “nazioni”, le loro bandiere e i loro proclami! Questa non è la nostra guerra e noi non dobbiamo parteciparvi pagando con il nostro sangue i loro palazzi, i loro conti bancari e il piacere di sedere su comode poltrone delle autorità. E se i capi di Mosca, Kiev, Lviv, Kharkiv, Donetsk e Simferopoli, Washington e Bruxelles danno inizio a questa guerra, il nostro dovere è quello di ooporci ad essa con tutti i mezzi!
Né guerra tra i popoli – né pace tra le classi!
KRAS , sezione russa dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori
Internazionalisti di Ucraina, Russia, Moldavia, Israele, Lituania, Romania, Polonia
Federazione Anarchica in Moldavia
Frazione dei Socialisti Rivoluzionari (Ucraina)

Questa dichiarazione è stata sostenuta da:
Workers Solidarity Alliance (Stati Uniti)
Internazionalisti dai Stati Uniti, da Irlanda, dai Paesi Bassi
Iniziativa anarco-sindacalista – Romania
Libertari Barcellona
La sinistra comunista e internazionalisti – Ecuador, Perù, Repubblica Dominicana, Messico, Uruguay e Venezuela
Initiative Communiste-Ouvrière (Francia)
Gruppo di Leicester Federazione Anarchica (Gran Bretagna)
Francophone Federazione Anarchica
Internazionale delle Federazioni Anarchiche
Unione delle lavoratori e precari Clermont-Ferrand CNT-AIT (Francia)
“Rivoluzione Mondiale” (Croazia)
Un socialista libertario (Egitto)
Gruppo libcom.org
Network “World in Common”

Questa dichiarazione è aperta ad altre adesioni

12.3.14

A fianco della classe lavoratrice del Venezuela

 
Un anno fa (il 5 marzo) moriva il presidente del Venezuela Chavez. Per molti militanti Chavez resta una figura mitica, il forgiatore di un nuovo modello sociale, chiamato socialismo del XXI secolo. Come sempre i miti sono smentiti dalla realtà quotidiana che non si accorda con le edulcorate narrazioni di fans e supporters. Il regime “socialista” bolivariano, guidato prima da Chavez e oggi da Maduro, ha basato la sua politica “socialista” sull’utilizzo degli introiti petroliferi (il Venezuela è il quinto produttore mondiale di petrolio) per finanziare vari programmi di assistenza sociale per poveri. Tali programmi hanno certamente diminuito l’analfabetismo e hanno accresciuto l’assistenza sanitaria, migliorando le condizioni abitative e di reddito dei poveri. La struttura capitalistica del paese non è stata però in alcun modo messa in discussione e le leve fondamentali dell’economia sono rimaste nelle mani dei capitalisti. Una politica di questo genere non ha impedito alla borghesia venezuelana di ingrassare con ogni mezzo, legale o illegale, a spese del popolo lavoratore, a dispetto di qualsiasi fraseologia rivoluzionaria. Il capitalismo ha delle leggi di funzionamento che non lasciano scampo: o le si asseconda, piegandosi ad esse, o le si distrugge. Una via di mezzo non esiste e per questo tutti i riformismi, a qualsiasi latitudine, alla fine falliscono, le regole di funzionamento del capitalismo si impongono rovinando ogni tentativo di modifica riformista basati su meccanismi di programmazione economica e di redistribuzione del reddito dei parametri capitalistici di funzionamento della produzione e della distribuzione. Il Venezuela non fa eccezione alla regola: la situazione economica è veramente disastrosa, inflazione al 56% su base annua, penuria di generi di tutti i tipi e file chilometriche per poterseli accaparrare, mercato nero e speculazione dilaganti. Gli interventi, tardivi e inefficaci, del governo non sono riusciti nell’intento di riportare la situazione sotto controllo. Da un lato la borghesia vede con sempre maggiore insofferenza i freni che il governo cerca di imporre alla sua brama di arricchimento, dall’altro si verifica uno scollamento tra settori sempre più ampi della classe lavoratrice esasperata da una situazione economica devastante e il regime bolivariano.
In questo contesto esplosivo, la destra reazionaria, legata direttamente agli Stati Uniti, ha approfittato delle difficoltà del governo bolivariano per cercare di dare il colpo di mano finale al regime e cacciare Maduro. I caporioni di questo settore della borghesia venezuelana sono Leopoldo Lopez (capo del partito di destra Volontà Popolare) e Maria Corina Machado (seguace di Margareth Thacher, deputata dell’opposizione e conosciuta per i suoi legami con gli USA). Il fronte della destra reazionaria sta conducendo da un mese una vasta campagna che attraverso manifestazioni, anche violente, sta cercando di realizzare l’obbiettivo di cacciare dal potere i bolivariani. La manifestazione del 12 febbraio è stata la loro prima prova di forza. Essa è stata autorizzata ma si è conclusa con l’assalto all’edificio del procuratore generale. Nei giorni successivi le manifestazioni si sono succedute a un ritmo incalzante. Il Procuratore generale ha quindi spiccato mandato di cattura nei confronti di Lopez per avere aizzato la folla il 12 febbraio. Anche il mandato di cattura è stato utilizzato da Lopez nella sua lunga marcia alla conquista della leadership del fronte di destra: si è infatti consegnato alle autorità, accompagnato in corteo dai suoi sostenitori. Spera così, giocando il ruolo di “martire”, di scalzare l’attuale leader dell’opposizione di destra al regime bolivariano, Capriles Radonsky, avversario sconfitto da Maduro alle presidenziali con uno scarto veramente minimo. Capriles ha preso le distanze da Lopez giudicando la sua azione politica avventuristica e avente come conseguenza il rafforzamento del regime di Maduro. In ogni caso, dato che le manifestazioni proseguivano il governo ha dichiarato ai quattro venti che si stava tentando un golpe con l’appoggio degli USA e ha chiamato alla mobilitazione la base dei sostenitori. Il 18 febbraio c’è stata una grande manifestazione in appoggio al governo dei lavoratori petroliferi e il 19 febbraio Maduro ha lanciato un appello alla classe lavoratrice a unirsi, mobilitarsi e rafforzare le milizie popolari.
Sembra pertanto di assistere a due classiche rappresentazioni: dal lato della destra alla rappresentazione dal titolo “Combattenti per la libertà contro il regime comunista dittatoriale”, dal versante dei bolivariani alla rappresentazione intitolata “golpisti contro regime popolare”. Peccato che, come a teatro la rappresentazione non è mai la realtà ma solo uno specchio parziale, più spesso totalmente deformato, della realtà. Se è innegabile che Lopez e compari abbiano intenzione di rovesciare il governo è altrettanto innegabile che la borghesia in questo mese non è scesa direttamente in campo dando appoggio a Lopez preferendo cucinare a fuoco lento il regime bolivariano, attendendo il suo collasso politico, conseguenza inevitabile della situazione economica. Dall’altro lato il governo il governo “socialista” reagisce cercando la mediazione con settori ”responsabili” dell’opposizione per adottare provvedimenti che avrebbero come unica conseguenza quella di aggravare la già pesantissima situazione delle masse.
Al momento in cui scriviamo queste note la situazione sembra ancora sotto controllo per il governo: nonostante le quasi quotidiane manifestazioni, anche con scontri e morti, l’esercito è per ora unito a fianco del governo, la campagna delle destre fascistoidi non ha avuto l’appoggio popolare sperato (in molti casi il nerbo delle mobilitazioni è costituito dai borghesissimi studenti delle università private). Tuttavia la situazione è fluida e aperta a ogni possibilità anche se, al momento, tuttavia, quella che sembra avere più probabilità di realizzarsi è che il regime per il momento non crollerà. In ogni caso, però, il governo bolivariano, incapace di imboccare, con i fatti e non con le chiacchiere, una strada realmente socialista, non sarà in grado di risolvere la situazione disastrosa che si trova davanti e, pertanto, alla fine rischia lo stesso di essere travolto a causa delle contraddizioni non sapute e volute risolvere, al più tardi alle prossime elezioni presidenziali.
Noi, dal canto nostro, ci auguriamo una soluzione diversa: ci auguriamo che le masse proletarie del Venezuela, stufe delle titubanze e delle incoerenze del governo bolivariano e ugualmente avverse al fronte opposto (che, una volta al governo, condurrebbe una politica economica molto più feroce nei loro confronti di quella condotta del governo attuale) scendano direttamente in campo senza intermediari. E non semplicemente per sconfiggere i piani reazionari di Lopez e padrini nordamericani ma per imporre la soluzione proletaria al disastro economico attuale: dittatura della classe lavoratrice e delle masse povere contro speculatori, accaparratori e parassiti borghesi. Non è una speranza fantastica: la classe lavoratrice del Venezuela ha dimostrato in molte occasioni la capacità di agire senza timori e riguardi per il sacro ordine borghese. Ancora una spallata virulenta e questo marcio edificio potrebbe da essa essere buttato giù, accendendo un fascio di luce che illuminerebbe la classe operaia di tutto il mondo.

Combat – Comunisti per l’Organizzazione di Classe

7.3.14

Julhaym

 
A ti guerrilera
de mil luchas,
te entrego en
tus manos
esta rosa roja.
Por que en tus
manos nacerán 
millones de
Capullos rojos.

                                                                             Alex Pimentel

1.3.14

Argentina - in crisi il “modello k”

Cercasi disperatamente modello economico alternativo!

Alternativo a cosa? «Ma al devastante modello neoliberista, è chiaro!» Mica tanto. «Cosa credevi?» Pensavo fosse anticapitalismo… «E invece era un calesse!» Appunto.
Scrivevo abbastanza sconsolato il 4 maggio 2012: «In Venezuela si nazionalizza, in Argentina pure, in Bolivia anche. E i sovranisti di mezzo mondo vanno in brodo di giuggiole. Letteralmente. Dimenticavo: alla lista dei paesi che si stanno mettendo sulla buona e “rivoluzionaria” strada del nazionalismo economico c’è anche la Bielorussia di Lukashenko» (Socialnazionalismo). Oggi il vento sembra spirare in senso contrario, e la sola cosa che non muta è purtroppo la mia – pessima – condizione umorale quando ho a che fare con la «merda economica».
Scrive Albero Bisin: «Continuiamo a sentire l’Argentina magnificata come economia modello perché ha ripudiato il debito e svalutato (alla fine del 2001), nonostante gli ovvi segnali di sfaldamento da alcuni anni a questa parte. A questo proposito non stupisce poi tanto sentire Beppe Grillo farneticare riguardo all’assegno di due metri per uno che il governo argentino avrebbe consegnato al Fondo Monetario a Manhattan (sic) pur senza aver svenduto il Paese, il suo sistema educativo e sanitario. Per non parlare di economisti del calibro di Paul Krugman che ancora nel maggio 2012, a deterioramento evidente e ben consolidato della situazione economica in Argentina, la additavano alla Grecia come esempio da seguire» (La Repubblica, 27 gennaio 2014). Krugman, probabilmente il premio Nobel più sopravvalutato di tutti i tempi, oggi suggerisce all’Argentina una ricetta economica assai più ortodossa, quasi “rigorista”: «Non c’è alcuna contraddizione nel sostenere che l’Argentina fece bene a seguire politiche eterodosse nel 2002, ma fa male ora a non ascoltare chi le consiglia di ridurre i disavanzi e riportare sotto controllo l’inflazione» (Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2014). L’economista di successo crede di poter cadere sempre sulle zampe, come accade ai gatti, ma con ciò stesso egli si espone alla giusta ironia dei suoi colleghi, certamente più preparati di lui ma anche meno reclamizzati dai media, soprattutto da quelli progressisti, e quindi pronti a rinfacciargli ogni sciocchezza detta e scritta. E l’economista statunitense non fa certo economia in quanto a produzione di sciocchezze, soprattutto quando affetta pose ultrakeynesiane.
Nel suo libro del 1999 sul Ritorno dell’economia della depressione (Garzanti, 2001), Krugman citava un solo caso di successo (capitalistico) riguardante l’America Latina, quello cileno. «Per molti anni i paesi dell’America Latina hanno quasi avuto l’esclusiva di crisi valutarie, fallimenti bancari, bervi periodi di iperinflazione […] Deboli governi eletti democraticamente si alternavano a dittature militari, ed entrambi cercavano di conquistare la fiducia della gente con programmi populisti che in realtà non potevano permettersi. Nell’intento di finanziare questi programmi finivano per ricorre a prestiti concessi da disinvolti banchieri esteri, che facevano entrare in crisi la bilancia dei pagamenti, oppure alla stampa di denaro contante, che creava iperinflazione […] In America Latina pochi ammiravano la brutalità di Augusto Pinochet; ma le riforme economiche che aveva lanciato in Cile si rivelarono molto efficaci e furono mantenute quando il Cile tornò finalmente alla democrazia nel 1989». L’Argentina invece rispose alla crisi economico-sociale che la scuoteva a ogni livello con un mix di autoritarismo, populismo clientelare e nazionalismo: vedi la disastrosa operazione-Malvinas messa in atto dal generale Leopoldo Galtieri nel 1982 nientemeno che contro l’Inghilterra della signora Thatcher – peraltro anche lei desiderosa di fughe in avanti di stampo nazionalistico per scuotere un Paese in forte crisi di identità, oltre tutto il resto.
 La via cilena alle «riforme strutturali», soprattutto in materia di mercato del lavoro e di gestione del fondo pensioni, fu allora studiata attentamente anche in Italia, e scartata dalla classe dirigente del Bel Paese per non intaccare gli equilibri economici e politici radicati assai in profondità nella sua struttura sociale ormai da decenni – già da prima del fascismo. L’alternanza di fascismo e democrazia ricordata da Krugman a proposito dell’America Latina in generale e del Cile in particolare, ci dice, tra l’altro, quanto sia vera la tesi secondo la quale le due forme politico-istituzionali non sono che le facce intercambiabili della stessa medaglia.
L’Argentina attende ancora quelle dolorosissime «riforme strutturali» che possano recidere una volta per tutte i robusti lacci che la costringono in una dimensione di Paese relativamente arretrato nella sua struttura capitalistica, basata perlopiù sull’esportazione di materie prime alimentari, agricole (soprattutto la soia) e minerarie. «Salari Bassi e “vantaggi naturali” erano storicamente alla base dell’inclusione del capitalismo argentino nel mondo, poco è cambiato negli ultimi dieci anni in questo senso» (R. Astarita, Argenpress.info, 30 gennaio 2014).
A tal proposito è molto istruttivo quanto scrive Filippo Fiorini: «La famiglia Kirchner è salita al potere nel 2003, con una proposta di centrosinistra che presto si sarebbe rivelata una riedizione del peronismo classico: intervento dello Stato sull’economia, protezionismo doganale per rafforzare l’industria e tasse alle campagne. Sulla soia imposero dazi d’esportazione che arrivarono al 35%. Considerato che l’Argentina stava diventando il terzo fornitore mondiale dopo Stati Uniti e Brasile, significava garantirsi un importante flusso di capitale in cassa. Con questi soldi finanziarono grandi piani sociali per i ceti umili e incentivi all’industria, ma mentre cresceva l’impiego, aumentava il carovita […] Dopo la bancarotta dello Stato nel 2001 e una protesta agraria che nel 2008 ha segnato il momento più difficile per la Casa Rosada da quando è stato eletto il primo Kirchner, l’Argentina del 2014 è tornata a essere un Paese economicamente instabile. Anni di statistiche ufficiali edulcorate, di deficit nel commercio estero e nel bilancio delle imprese statalizzate hanno seppellito l’ottimismo per la crescita del pil e del gettito fiscale. Due settimane fa, quando le riserve della Banca Centrale sono andate in rosso e l’autorità monetaria ha smesso di vendere dollari per sostenere il peso, la valuta nazionale è crollata. Governo e popolazione sono stati così travolti dall’urgenza di acquisire beni solidi, che facessero da àncora a tutto ciò che era diventato volatile. Esclusa dai mercati del debito internazionali a causa del default di dieci anni fa, Buenos Aires si è girata ancora una volta nella sua storia verso l’entroterra, accusando gli agricoltori di speculare e ordinando loro di aprire i magazzini per esportare di più» (La stampa, 17 febbraio 2014).
La decisione presa a fine gennaio dalla Banca Centrale degli Stati Uniti di ridurre ulteriormente l’acquisto di asset (soprattutto titoli di Stato) su larga scala (dal 2008, la Federal reserve ha acquistato titoli fino a 85 miliardi di dollari al mese nell’ambito della strategia monetaria quantitative easing) ha certamente dato un brutto colpo alla divisa argentina, che   «tra il 22 e il 23 gennaio, in 48 ore, ha perso il 15 per cento del suo valore rispetto al dollaro» (Internazionale, 5 febbraio 2014); ma l’indebolimento del peso argentino ha, come si è detto, delle cause ben più strutturali e vecchie. Scrive Adriana Bernardotti: «I funzionari e le voci vicini al Governo hanno denunciato comportamenti cospirativi e parlano di un “golpe dei mercati”, puntando il dito specialmente contro la multinazionale anglo-olandese Shell, che il giorno prima dello shock valutario aveva acquisito grandi somme di dollari ad un prezzo superiore all’ufficiale e che adesso ha aumentato del 12% il prezzo della benzina. Tuttavia, al di là del fondamento delle accuse, è evidente che gli interessi che escono vittoriosi sono adesso più chiari: i gruppi monopolisti che controllano il commercio d’esportazione dei cereali e derivati (quindi la fonte principale di ingresso di valuta in Argentina) e i suoi alleati del mondo delle finanze, cioè gli speculatori di mestiere. In ogni caso, le ragioni ultime di questa disfatta sono da ricercare nelle debolezze del modello di sviluppo argentino, ancora dipendente dalle esportazioni di materie prime alimentari controllate da pochi gruppi concentrati» (Cambiailmondo, 8 febbraio 2014). Come ricorda la Bernardotti, il “golpe dei mercati” è un mantra che i politici argentini ripetono da sempre crisi economica dopo crisi economica, peraltro con un certo successo in termini di controllo sociale, di tenuta politica e ideologica.
 Il Fondo Monetario Internazionale si è detto pronto ad accogliere a braccia aperte l’Argentina nella famiglia dei paesi finanziariamente responsabili, naturalmente a patto che il governo di Buenos Aires metta una buona volta il Paese sui virtuosi binari delle «riforme strutturali». D’altra parte, il FMI deve fare i conti con l’effetto contagio, ossia con la possibilità che la crisi argentina inceppi il meccanismo di crescita dei paesi che aderiscono al Mercosur, Uruguay e Paraguay in testa, le cui economie sono particolarmente dipendenti dallo stato di salute dell’economia argentina. «Non a caso pochi giorni fa la senatrice Lucia Topolansky dell’Uruguay (moglie del presidente José Mujica) ha dichiarato: “Se l’Argentina starnutisce, l’Uruguay prende il raffreddore”. Non va inoltre sottovalutato l’aspetto psicologico, che potrebbe indurre i risparmiatori di altri paesi emergenti a disfarsi delle valute locali per cercare rifugio negli asset denominati in dollari» (D. Tentori, Limes).
Va da sé (ma è sempre utile ricordarlo per non venir confuso con certi “comunisti-peronisti” nostrani) che io faccio il tifo solo ed esclusivamente per gli interessi delle classi subalterne argentine, azzannate dall’ennesima crisi economica, e quindi la «modernizzazione capitalistica» dell’Argentina è mia nemica, esattamente come lo è quella del Bel Paese, anche quando dovesse vestire i panni del più spinto keynesismo.
Roberto Lampa e Alejandro Fiorito del Manifesto a questo proposito sembrano pensarla diversamente, e la cosa non mi stupisce affatto: «Ciò che a nostro avviso merita di essere evidenziato è che mentre l’Unione europea annaspa ostaggio del pensiero economico ortodosso e delle ricette neo-liberali propugnate dalle istituzioni internazionali, proprio il Keynes meno addomesticato e l’eterodossia economica strutturalista hanno invece trovato ospitalità nei palazzi di governo dell’economia argentina. Basti ricordare, a mo’ di esempio, il recente obbligo per le banche e le assicurazioni di destinare il 5% dei depositi ad investimenti produttivi in settori strategici stabiliti dal Sottosegretariato alla Pianificazione (!): ciò che in Italia farebbe gridare al regime bolscevico, sembra ancora in grado di garantire all’Argentina una crescita economica di tutto rispetto, nonostante la pessima congiuntura internazionale ed alcuni nodi irrisolti. Se ne accorgeranno il governo e gli addetti ai lavori italiani?» (Il Manifesto, 25 agosto 2013).
L’articolo citato recava questo titolo: Un keynesismo forte fa respirare l’Argentina. Della serie: le ultime parole famose! Fatto sta che «l’Argentina non viveva un evento economico così scioccante dal dicembre 2001, tristemente noto per i cacerolazos nelle strade e il default sul debito estero, preludio della pesantissima recessione che fece sprofondare quasi metà della popolazione sotto la soglia di povertà» (Limes, 6 febbraio 2014). Certo, il Sottosegretariato alla Pianificazione, con tanto di punto esclamativo, non può certo lasciare indifferenti gli amanti dello statalismo, pardon, del “comunismo”, magari in salsa latinoamericana. Per quanto mi riguarda, non posso che augurarmi un nuovo ciclo di lotte operaie e proletarie, in Argentina e ovunque nel mondo. Infatti, una forte lotta di classe fa respirare chi vive di salario. «Ma toglie ossigeno al Sottosegretariato alla Pianificazione». Appunto!
Cristina Kirchner sostiene con sempre più forza la necessità di moderare le richieste salariali nel prossimo rinnovo dei contratti nazionali di lavoro, e confida per il successo della nuova politica economica nella collaborazione delle centrali sindacali, le quali hanno sostenuto con entusiasmo il “Modello K”. Quando la Patria è sottoposta all’attacco dei «poteri forti», della speculazione finanziaria e, dulcis in fundo, dell’Imperialismo statunitense, ogni sacrificio richiesto per la sua salvezza è accettabile. Di qui, l’incitamento del barbuto di Treviri rivolto ai salariati di tutto il mondo: non sentitevi patrioti, ma sfruttati in lotta per la vostra emancipazione! Assai significativamente, Lampa e Fiorito giudichino positivamente «la tradizionale vicinanza dei governi peronisti alle centrali sindacali argentine»: come volevasi dimostrare.
«Da parte del governo», scrive lo statalista Claudio Tognonato, «ci sono stati e ci sono molti errori, distra­zioni, misure sba­gliate, incom­pe­tenze e casi di cor­ru­zione, ma il governo ha sem­pre pun­tato al recu­pero del set­tore pub­blico e si è con­fron­tato con i grandi inte­ressi pri­vati. Le scelte poli­ti­che pos­sono essere cri­ti­cate, dibat­tute e miglio­rate, ma gli argen­tini hanno vis­suto sulla pro­pria pelle la cecità della legge del mer­cato, quella che pre­tende di deter­mi­nare il valore delle cose igno­rando i diritti e destabilizzando l’economia reale» (Il Manifesto, 27 gennaio 2014). Personalmente non faccio alcuna differenza tra Capitale pubblico e privato, né condivido la ridicola dicotomia tra economia fittizia ed economia reale, balla ideologico-speculativa ripetuta ormai da un secolo da chi non conosce i meccanismi di funzionamento del Capitalismo mondiale. Ovviamente il problema non è – puramente – dottrinario, ma piuttosto essenzialmente politico, nella misura in cui quella gigantesca balla postula la costruzione di un fronte unito dei «ceti produttivi» (dagli industriali «onesti e responsabili» ai loro operai: era la fissa del PCI di Berlinguer e della CGIL di Lama) contro la maledetta speculazione finanziaria e i «poteri forti», nazionali e internazionali.
Nel Capitalismo «il valore delle cose» ha come suo ultimo fondamento lo sfruttamento del lavoro salariato, e questa realtà difficile da cogliere nei periodi di euforia speculativa viene puntualmente a galla nei momenti di crisi economica, quando «la gente avverte l’urgenza di acquisire beni solidi, che facciano da àncora a ciò che è diventato volatile». Non a caso oggi economisti di statura mondiale che non credono in una prossima “uscita dal tunnel” dell’economia mondiale consigliano la gente a investire nel vecchio e caro oro. 
 A proposito del noto guru genovese tirato in ballo da Bisin nell’articolo visto sopra, ecco una gustosa frecciatina lanciatagli dal blogger Mario Seminero: «E così, dopo l’Argentina, abbiamo inseguito la bufala dell’Islanda che ha fatto “default controllato e non avrebbe pagato i propri debiti, Anche queste sono purissime idiozie che si squagliano come neve al sole della realtà. Vedo che ora Grillo sta cercando di rifugiarsi in Ecuador (un po’ come fatto da Julian Assange, ma per motivazioni ben più nobili e serie), e si è trovato un nuovo modello da presentare ai gonzi di casa nostra. Un modello talmente sovrano che l’Ecuador è un paese completamente dollarizzato. Ci vuole sempre molta pazienza, diciamo» (Phastidio, 27 gennaio 2014). Tempi duri per i sovranisti che vanno a caccia di modelli “alternativi”.

 fonte: Sebastiano Isaia