28.7.13

Akala - Malcom said it


Perù - Manifestazione contro il governo e scontri a Lima

Dopo gli scontri di inizio mese, un'altra giornata di mobilitazione nazionale si è tenuta ieri in Perù nel centro della capitale. Ieri, sabato 27 luglio, migliaia di dimostranti hanno manifestato a Lima riuniti sotto il movimento denominatosi "Toma la Calle". Alle mobilitazioni hanno partecipato tutti i settori sociali che alle precedenti elezioni hanno riposto fiducia nel presidente Hollanta, portavoce di un cambiamento che doveva essere volto a migliorare le condizioni degli strati più poveri della popolazione. Fiducia presto disattesa; uno degli slogan più ripetuti e ricorrenti nelle dimostrazioni di questi mesi compresa quella di ieri, è infatti quello di "Traitor" riferito al Presidente e a tutto il suo governo.
In piazza lavoratori, organizzazioni sindacali, studenti e rappresentanze di tutto i movimenti di protesta contro i progetti minerari nel Paese, in lotta da anni per difendere il loro territorio da speculazioni e devastazioni ambientali. I lavoratori protestano contro la recente legge del governo "Servicio civil" che investe tutti i lavoratori del settore pubblico e che mina i diritti di organizzazione sindacale. Gli studenti protestano contro le privatizzazioni delle università e contro l'aumento dei costi di iscrizione. Tutti protestano contro la corruzione e la distribuzione delle cariche pubbliche tra gli alleati politici del governo.
Negli scontri di ieri ci sono stati 16 arresti, ma si parla di altri arresti in funzione preventiva già nei giorni precedenti alla manifestazione, che ricordano tempi non troppo lontani quando, in nome della "sicurezza nazionale" e della lotta contro il terrorismo, vigeva uno stato di polizia dove la paura e il sospetto venivano alimentati ad arte dallo Stato per soffocare ogni rivendicazione sociale e restingere i diritti di libertà più basilari.
Il governo ha affermato nelle scorse ore che repressione e violenza della polizia assieme all'enorme dispiegamento di forze (5000 poliziotti in Piazza Dos de Mayo e San Martin luogo di assembramento della manifestazione) erano "giustificati" perchè vi era il rischio di infiltrazioni di ex membri di Sendero Luminoso nelle proteste. Gli scontri sono iniziati quando i manifestanti si sono avvicinati alla sede del Congresso. Nonostante le forze del (loro) ordine fossero al corrente del carattere prevalentemente pacifico della manifestazione, ribadito più volte anche dai promotori stessi del movimento, improvvisamente sono iniziate cariche, lanci di lacrimogeni sparati ad altezza uomo, pestaggi e arresti. Tutte le giustificazioni fornite dalla polizia, sono state smentite dagli organizzatori, compresa quella che millantava una fazione violenta dei manifestanti capeggiata dai "barristas" (gli ultras peruviani) di una delle due squadre della capitale, anche loro in manifestazione ma in un altro posto nel momento in cui sono iniziati gli scontri.
La situazione politica che si delinea vede una classe politica divisa tra il promuovere una politica neoliberista da una parte, e una politica più nazionalista (che coinvolge tutte le anime della sinistra fuori dal governo) dall'altra, sostenitrice di un ruolo più centrale dello Stato sui settori chiave della produzione nazionale, come quello minerario.
Le associazioni, i sindacati, i movimenti che hanno manifestato ieri assicurano che le mobilitazioni andranno avanti anche oggi, domenica 28 luglio, a 192 anni dall'indipendenza peruviana.

CG

22.7.13

Rivoluzionari/e: Claudia Jones

Erano passati pochi mesi dai fatti di Notting Hill, la rivolta razziale contro la popolazione nera avvenuta nel 1958 a ovest di Londra. La piccola comunità immigrata caraibica che viveva nel quartiere di Kensington si stava appena riprendendo dagli attacchi razzisti e fascisti dell'estate passata, quando un gruppo di razzisti accoltella a morte Kelso Cochrane, ragazzo di origine caraibica. Nessuno verrà processato. Gli immigrati provenienti dalle diverse isole dei Caraibi iniziano ad organizzarsi contro gli attacchi fascisti e una polizia a loro ostile. Al centro di questa lotta c'è la comunista Claudia Jones.
Nata a Trinidad, quando essa era ancora una colonia britannica, all'età di 9 anni, la sua famiglia si trasferì ad Harlem, New York, dove vivevano in condizioni di estrema povertà. Quando Claudia compie 12 anni sua madre, un operaia, morì di sfinimento e di povertà. "Non riuscivo a frequentare i corsi scolastici perché non avevo un vestito. La nostra famiglia era così povera. Ho pianto per giorni".
Lavorò come commessa e come operaia. Si accorse che le misure del governo contro i neri avevano colpito anche i bianchi poveri; ciò la spinse all'età di 18 anni, ad aderire al Partito comunista americano. Era il 1936. Dal 1941 divenne il coordinatore nazionale della Lega dei Giovani Comunisti e dedicò tutto il suo tempo al lavoro e alla militanza politica.
Dopo la seconda guerra mondiale iniziò il cosidetto fenomeno del 'maccartismo': il governo degli Stati Uniti perseguitava, incarcerava, deportatava molti neri e comunisti colpevoli di attività 'anti-americane'. Claudia fu imprigionata quattro volte dal governo americano.
In carcere dichiarò:"Se noi neghiamo tutti i diritti e incarceriamo in campi di concentramento, i prossimi saranno i sindacalisti, poi toccherà ai neri, agli ebrei, a tutti i nati all'estero, e tutti coloro che amano la pace e la libertà si troveranno ad affrontare la bestialità e il tormento del fascismo. Il nostro destino è il destino della democrazia americana. La nostra lotta è la lotta di tutti gli avversari della barbarie fascista, di tutti coloro che aborrono la guerra e desiderano la pace. "
Nonostante le campagne e le proteste per la sua liberazione, venne deportata nel 1955.
Nell'inverno del 1955 Claudia arriva a Londra. Qui la discriminazione razziale è ancora perfettamente legale. Una città dove i proprietari possono mettere alle finestre delle case cartelli con scritto sopra: "Niente neri, niente cani, niente irlandesi"- costringendo i neri che arrivavano risiedere in quartieri poveri come Notting Hill.
Claudia inizia da subito a lottare per i diritti dei neri e contro le discriminazioni.
Fonda, sopra il negozio di un barbiere a Brixton, uno dei primi quotidiani "neri", la 'West Indian Gazette'. Tutti i migliori scrittori caraibici del tempo scrissero per la Gazzetta, figure come quella di Paul Robeson caro amico di Claudia, passarono per il giornale.  
Claudia, nonostante il peggioramento della sua salute, si impegna in tutte le campagne in corso in quegli anni: contro la legge sull'immigrazione 1962 che rese più difficile per i neri del Commonwealth entrare in Gran Bretagna, per la liberazione di Nelson Mandela, lottando continuamente contro il razzismo nei luoghi di lavoro e nelle sezioni sindacali.
Il 25 dicembre del 1964 venne trovata morta nel suo appartamento - stroncata da un attacco cardiaco. Una vita di stenti e sofferenze minarono la sua salute fino ad ucciderla all'età di soli 48 anni.
Claudia Jones è stata sepolta accanto alla tomba di Karl Marx nel cimitero di Highgate, a nord di Londra.

                                                  I funerali di Claudia Jones

21.7.13

Danilo Montaldi - Bisogna sognare!

Una sorte fatale -scriveva Lenin- tocca ai rivoluzionari: 30 anni dopo la loro morte essi diventano delle icone. E' una sorte che è toccata allo stesso Lenin; quella di venire imbalsamato. E sarebbe assai meno preoccupante la presenza del suo cadavere conservato in piena Piazza Rossa, se essa non significassa che prima ancora che i resti dell'uomo si è cominciato a «mettere in conserva» il corpo delle sue idee, della sua dottrina, delle sue esperienze.
Da allora l'iconografia leniniana ha assunto aspetti diversi e contraddittori: Lenin è stato rappresentato come un vecchio benevolo maestro tra discepoli, tra i quali il più adulto, Giuseppe Stalin il preferito (come San Giovanni discepolo di Cristo) stava sovente seduto con lui a meditare. Lenin è stato rappresentato nell'iconografia ufficiale come un buon democratico che pensa ai poveri, come un saggio filantropo, come un riformatore borghese. E chi non ricorda il libro di Malaparte (morto in pace con tutte le Chiese), secondo il quale Lenin sarebbe stato un piccolo borghese, un amministratore zelante e codino della rivoluzione, un travet del bolscevismo? Questa versione della figura di Lenin, provocava la legittima reazione di Trotzky, che non si stancò mai di combattere le basi del mito di Lenin creato a danno del suo pensiero dinamico e sovversivo.
Quando Majakovskij disse a Lenin che era stato «il più umano degli uomini», disse la verità. Lenin criticò sempre i patetici del socialismo, i patiti del sentimentalismo piccolo-borghese, i sognatori di paradisi proletari che non volevano «sporcarsi le mani» nel presente. E ne metteva a nudo con lucidità l'anima servile ed opportunista.
Ma Lenin è stato anche l'uomo che ha sognato più di ogni altro. Senza con questo cadere nelle lacrime; ma con un concreto senso dell'avvenire. E ha parlato del «sogno» come di una necessità proprio in un libro di organizzazione, il libro che di Lenin è il meno accettato dalla coorte di parolai.
In Che fare?, Lenin scrive: «"Bisogna sognare!". Scrivendo queste parole sono stato preso dalla paura>>, perché ha subito immaginato le reazioni dei «socialisti scientifici» e dei parolai del suo tempo. Qualcuno gli avrebbe immediatamente chiesto se lui, Lenin, aveva il diritto di sognare «senza l'autorizzazione preventiva dei comitati del partito». «Poi si alza il compagno Martynov, il quale -scrive Lenin- continua ancora più minaccioso: "Diro di più. Vi domando: ha un marxista il diritto di sognare se non ha dimenticato che, secondo Marx, l'umanità si assegna sempre dei compiti che si sviluppano insieme con il partito stesso?».
E Lenin chiarisce il proprio pensiero: «la sola idea di queste domande minacciose mi fa fremere, e non penso che a trovare un nascondiglio.» Cerchiamo di nasconderci dietro Pisarev.
"C'è contrasto e contrasto, -scriveva Pisarev a proposito del contrasto fra il sogno e la realtà. -Il mio sogno può andare oltre il corso naturale degli avvenimenti in una direzione verso la quale il corso naturale degli avvenimenti non può mai condurre. Nel primo caso, non reca alcun danno; anzi, può incorraggiare e rafforzare l'energia del lavoratore... In quei sogni non c'è nulla che possa pervertire o paralizzare la forza operaia; tutt'al contrario. Se l'uomo fosse completamente sprovvisto della facoltà di sognare in tal maniera, se non sapesse ogni tanto andare oltre il presente e contemplare con l'immaginazione il quadro compiuto dell'opera che è abbozzata dalle sue mani, quale impulso, mi domando, l'indurrebbe a cominciare e a condurre a termine grandi e faticosi lavori nell'arte, nella scienza e nella vita pratica?... Il contrasto tra il sogno e la realtà non è affatto dannoso se chi sogna crede fortemente al suo sogno, se osserva attentamente la vita, se confronta le sue osservazioni con le sue fantasticherie, se, in una parola, lavora coscienziosamente all'attuazione del suo sogno. Quando vi è contatto tra il sogno e la vita, tutto è per il meglio."
Dei sogni di questo genere ve ne sono disgraziatamente troppo pochi nel nostro movimento, -conclude Lenin dopo aver citato Pisarev. -E ne hanno colpa soprattutto i rappresentanti della critica legale e del "codismo" illegale, che fanno pompa della loro ponderatezza, del loro "senso della realtà".
Il senso della realtà. Dietro queste parole si è sempre nascosto l'opportunismo più limitato. Gli ipotenti hanno "il senso della realtà"; quelli che si accomodano nelle poltrone ufficiali hanno il "senso della realtà", e non fanno niente perché hanno il "senso della realtà"; quelli che disertano le file del movimento operaio lo fanno anche loro «"perché hanno il senso della realtà"».
Ma Lenin preferiva sognare; e si chiedeva: Che fare?
A questo punto Kolakowski rivela come «i due uomini che hanno scritto un libro con questo titolo -Cernysevskij e Lenin- rappresentano due fasi dello sviluppo di questo sforzo ostinato: di questo confronto costante tra l'esperienza quotidiana e l'ideale soltanto immaginato; di questo costante dialogo tra la realtà sotto la forma che essa ci presenta e la realtà ideale».
Bisogna sognare; e dare forma al sogno; dargli figura organizzativa. Il sogno è il soffio di una realtà più profonda. Il sogno di Lenin ha creato le basi di una nuova civiltà. Lenin non volle avere quel «senso della realtà», e «sognando» realizzò quanto nessun «realista» riusciva nemmeno ad immaginare.

Danilo Montaldi

da "Azione Comunista" n° 36, 1958

Lágrima Ríos


Quando l'Uruguay abolì la schiavitù nel 1842, documenti descrivono rituali di danza africana a Montevideo, danze note come tanghi, con l'accento sulla seconda sillaba. Sono riferite a questo periodo le differenti ipotesi sulle sconosciute origini del tango, uno dei più noti generi musicali latino-americani.
Il tango si sviluppa simultaneamente a Montevideo e Buenos Aires. Anche se generalmente considerata come una creazione di immigrati italiani e spagnoli, secondo gli esperti, la musica del tango e i movimenti di danza ad essa associati sono stati profondamente influenzati dalla danza e dalla musica africana.

Carlo vive - 20.07.2001/20.07.2013


18.7.13

L'unica vera ragione di vita



                                                      Frida Kahlo - Moses (1945)

Wu Ming: è proprio quest'acqua qua!

 
Nell’invettiva scagliata ieri da Wu Ming contro «il Partito cosiddetto democratico», dalla quale si possono ricavare interessanti elementi di valutazione circa il rapporto (di odio/amore?) che lega il noto «collettivo di scrittori italiani» alla cosiddetta sinistra italiana, si può leggere, tra l’altro, quanto segue: sul razzismo «la Lega lombarda prima e la Lega nord poi hanno costruito un intero percorso politico […] Il razzismo è da secoli un modo di pensare funzionale al mantenimento di un sistema di sfruttamento e discriminazione» (Il partito del non senso, Internazionale, 15 luglio 2013). In poche parole, nell’articolo in questione Wu Ming, prendendo spunto dall’ultima battuta razzista di Calderoli sulla ministra Cécile Kyenge, rinfaccia al PD (e soprattutto all’ex segretario Bersani) un atteggiamento quantomeno contraddittorio nei confronti dei leghisti, dai “democratici” disprezzati o blanditi secondo le mutevoli convenienze politiche. I «sedicenti democratici potrebbero almeno risparmiarci lo spettacolo ipocrita della loro chiassosa indignazione per le battute dei razzisti che fino a ieri consideravano buoni interlocutori». Che indignazione!
Com’è noto, già Massimo D’Alema parlò del movimento capeggiato da Bossi come di «una costola della sinistra». Era il tempo in cui si consumava la congiura ai danni del primo governo Berlusconi. Anche allora molti sinistri si scandalizzarono, ma alla fine abbozzarono e, togliattianamente, si acconciarono a baciare il rospo Lamberto Dini secondo le direttive calate dalla Segreteria. Anche allora parecchi “comunisti” tirarono fuori la tattica del Presidente Mao sul «nemico principale», che dal 1994 si chiama, come sanno tutti, Berlusconi. Stranamente Wu Ming non ricorda quell’illuminante episodio, e concentra il suo fuoco sulla croce rossa, ossia su Bersani e compagni.
Vale la pena ricordare l’episodio del ’95, in seguito negato, o quantomeno reinterpretato, dal protagonista: «Nell’intervista al Manifesto D’Alema esprime un’altra convinzione a proposito di una forza politica che può essere “collegata” alla sinistra: “La Lega c’entra moltissimo con la sinistra, non è una bestemmia. Tra la Lega e la sinistra c’è forte contiguità sociale. Il maggior partito operaio del Nord è la Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola, è stato il sintomo più evidente e robusto della crisi del nostro sistema politico e si esprime attraverso un anti-statalismo democratico e anche antifascista che non ha nulla a che vedere con un blocco organico di destra”» (La Repubblica, 1 novembre 1995). Qui baffino mostrava di saperla più lunga, in materia di analisi politico-sociologica, di molti intellettuali schizzinosi appartenenti al suo stesso campo politico, i quali erano – e sono – avvezzi a pestare il mortaio pieno di schiuma, col risultato di creare una gigantesca poltiglia che impedisce loro di capire l’essenza dei problemi politici e sociali.
 Detto che ridurre la Lega Nord a mero fenomeno politico-culturale razzista, secondo una ben consolidata vulgata progressista, è semplicemente risibile sul piano storico e sociale, perché in tal modo si sorvola a piè pari sulle macroscopiche cause sociali (a cominciare dal gap sistemico Nord-Sud) che hanno reso possibile il suo «percorso politico»; detto questo si può tuttavia convenire sul fatto che nel Bel Paese esiste «un sistema si sfruttamento e discriminazione». Ma allora, se le cose stanno così perché prendersela con un onesto partito borghese che cerca di fare al meglio (poi bisogna vedere con quali risultati, è chiaro) il proprio escrementizio lavoro al servizio delle classi dominanti del Paese? Può forse il PD anche solo lontanamente immaginare di assestare un seppur timido colpetto a quel «sistema»? Siamo seri! Mi correggo: siamo anticapitalisti! E soprattutto: di che «sistema» stiamo parlando? La mia testolina proletaria mi invita a “declinare” quella ambigua parola in un modo quanto mai semplice: trattasi del sistema capitalistico. Punto. Lo ammetto, si tratta di un punto di vista indigente sul piano della dialettica, e per questo m’impegno fin d’ora in una full immersion negli scritti del collettivo benicomunista.Per quanto le apparenze possano far pensare il contrario, il mio delirio estivo non ha di mira i raffinati intellettuali di Wu Ming, i quali fanno la loro onesta battaglia politica tesa a costruire un dignitoso (laico, antirazzista, antiliberista, antiberlusconiano, forse persino socialdemocratico) partito “de sinistra” in Italia. Essi ritengono «i sedicenti democratici il principale ostacolo politico alla rinascita di una sinistra che possa dirsi tale», e si comportano di conseguenza nei confronti di un partito che considerano «del non senso». Auguri!
 A proposito di «partito del non senso», mi è tornato alla mente  quanto ebbe a dire una volta l’onesto Enrico a proposito del PCI: si tratta di un partito «insieme rivoluzionario e conservatore». Era il tempo in cui in Italia persino alle parallele veniva concessa la possibilità di «convergere» nella contingenza e non all’infinito. Naturalmente in vista di «punti d’equilibrio politici, sociali e istituzionali più avanzati». Com’era cristallino il linguaggio politico della «Prima Repubblica»! Ed era altresì il tempo in cui il PCI e il suo sindacato di riferimento imponevano ai lavoratori una rigida politica dei sacrifici e si ponevano come avanguardia della repressione poliziesca ai danni di chi non ne voleva sapere del «bene superiore del Paese». Ogni tanto è giusto ricordare queste cose a chi affetta pose nostalgiche circa «la sinistra di una volta». Mutatis mutandis, da Togliatti a Occhetto «è quest’acqua qua».
«Forse, se invece di lanciarsi in opportunistici non sensi logici da furbini del deserto, i sedicenti democratici avessero combattuto i razzisti dall’inizio e senza quartiere, oggi non ce li ritroveremmo bel belli dentro le istituzioni [razzisti e opportunisti, giù le mani dalle nostre amate istituzioni!]. Ma il punto è che non potevano farlo, perché quando si dismette il piano della battaglia per l’affermazione dei diritti e delle istanze sociali [già, le "istanze sociali"!], e ci si dedica anima e corpo alla gestione dello status quo, tocca poi gestirlo con chi c’è. “È quest’acqua qua”, direbbe Crozza/Bersani. Acqua putrida, di fogna, in cui si cerca di varare una nave, o piuttosto una zattera, per stare a galla, invece di costruire un depuratore». Ma si sta parlando della «Seconda Repubblica» o del Capitalismo nudo e crudo? Scherzo ancora, è chiaro.
Mentre i veri democratici e gli autentici progressisti progettano un bel depuratore, secondo una metafora che peraltro fa molto green economy, io mi concedo il lusso di baloccarmi con l’utopia della rivoluzione sociale, e do il mio microscopico contributo affinché «i movimenti sociali che cercano di opporsi all’avanzata del peggio», e che per questo «vengono manganellati e repressi» (dallo Stato democratico nato dalla resistenza), possano quanto prima liberarsi dalla catena ideologica del “bene comune”, comunque declinato (da “destra”, da “sinistra”, da “papista”). Infatti, per me l’acqua del Capitalismo (altrimenti chiamato Paese) è sempre putrida e merdosa, a prescindere dal colore politico e dai principi etici di chi pro tempore ci amministra. Il Capitalismo, per me, «è quest’acqua qua». Sempre e comunque.