21.8.14

Rivolta sociale a Ferguson

 
Il 9 agosto la polizia uccide a Ferguson (una cittadina di circa 20.000 abitanti situata nella cintura operaia di St. Louis, nel Missouri) un giovane studente afroamericano disarmato, Michael Brown. Già dalle prime notizie trapelate la versione dei fatti fornita dalla polizia si rivela lacunosa. La polizia sostiene, infatti, che il ragazzo, fermato da degli agenti, avesse assalito uno dei poliziotti, ma diversi testimoni affermano che la realtà era diversa e che il ragazzo avesse le mani alzate in segno di resa.
In seguito a questo fatto la rabbia esplode: manifestazioni, attacchi ad auto della polizia, assalti ai supermercati fanno presagire alle autorità che stavolta la cosa non passerà liscia nel sobborgo proletario in cui la grande maggioranza della popolazione è afroamericana e viene continuamente vessata dalla prepotenza poliziesca. Si avverte subito la sensazione che stavolta la misura è colma basti pensare che due terzi della popolazione del luogo è afroamericana, che su 53 poliziotti solo 3 sono neri e che tutte le cariche istituzionali sono in mano ai bianchi, al punto che è lo stesso New York Times a ricordare che “A Ferguson città nera, potere bianco”.
Le autorità cercano di correre maldestramente ai ripari tentando di convincere la popolazione a calmarsi: si dice che verranno accertati i fatti, si sospende l’agente che avrebbe sparato al giovane,(il cui nome però non viene rivelato), ma in realtà si reprimono nel modo più duro le manifestazioni. Arresti in massa, gas lacrimogeni, mezzi pesanti per strada, intimidazioni e persino l’arresto di due giornalisti del Washington Post e dell’Huffington Post, “colpevoli” di aver registrato con i cellulari le mosse degli agenti. Questi fatti accendono ulteriormente la rabbia e da allora le manifestazioni e gli scontri si ripetono a cadenza quotidiana in quella che è ormai diventata una vera e propria rivolta sociale i cui effetti hanno travalicato i confini del Missouri per diventare un caso nazionale.
Obama si trova costretto a intervenire per cercare di calmare la situazione, fa generiche promesse sul fatto che sarà fatta luce sulla vicenda dispensando contemporaneamente una manciata di insulsa retorica sul fatto di “essere tutti cittadini americani”. Le parole in libera uscita di Obama non hanno avuto l’effetto sperato: a Ferguson le manifestazioni e gli scontri sono proseguiti nel week end, dopo che per qualche ora si erano fermate in seguito all’intervento del “ presidente nero”. Giovedì 14 agosto ci sono state manifestazioni in un centinaio di città degli Stati Uniti, tra cui anche a New York, a Washington, a Chicago, a Atlanta, a Miami (nella quale alcuni manifestanti hanno occupato l’ufficio della Giustizia Federale, con 8 arresti) e a Los Angeles, città nella quale c’è stata anche una manifestazione domenica, davanti alla sede della polizia per protestare contro l’uccisione, sempre per mano poliziesca, di un altro afroamericano disabile mentale.
A Ferguson, dato che la violentissima repressione “ordinaria” non è riuscita a far tornare la calma è stato proclamato il coprifuoco ma questo provvedimento non ha sortito alcun risultato: gli scontri e le manifestazioni sono continuati nonostante l’intervento di un altro imbonitore della “sinistra”americana, il reverendo Jesse Jackson, presente a una manifestazione, che aveva invitato la popolazione a “non autodistruggersi con la violenza”. Evidentemente non aveva fatto i conti col fatto che la popolazione di Ferguson non ha intenzione di “farsi distruggere dalla violenza dello Stato”, quello stesso Stato che fa fare ai “dissidenti” come lui la bella vita nello stesso tempo in cui stritola senza pietà i diseredati senza santi in paradiso.
A questo punto un’ulteriore incentivo alla ribellione è stato fornito dai risultati dell’autopsia indipendente che è stata commissionata dalla famiglia di Michael Brown: contro il giovane studente risulta che siano stati sparati almeno 6 colpi di pistola, 2 dei quali lo hanno colpito alla testa e altri 4 al braccio sinistro. Tutti risultano esplosi da un individuo che gli si trovava di fronte.
Le fandonie della polizia non potevano avere smentita più clamorosa! La cosa è diventata talmente eclatante che il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti, con una procedura eccezionale, è stato costretto a ordinare una nuova autopsia sul corpo del giovane. Addirittura Obama ha interrotto le vacanze per aggiornarsi sulla situazione e ha fatto nuove dichiarazioni: con la solita tracotanza degli uomini di stato borghesi ha detto che comprende (bontà sua!) che la comunità di Ferguson si senta giustamente ferita dell’uccisione del giovane ma ha aggiunto che “attaccare la polizia mina la giustizia”.
Quello che il Presidente non dice è che gli abitanti di Ferguson conoscono fin troppo bene la brutalità poliziesca: un dispaccio di France TV intitolato , non a caso, “Quattro buone ragioni per detestare la polizia quando si vive a Ferguson” si sofferma su casi documentati e cita testimonianze di vera e propria barbarie poliziesca. Obama non dice neanche che uno studio basato su dati del FBI rivela che dal 2006 al 2012, in media negli USA, sono stati ammazzati da un poliziotto bianco 2 afroamericani a settimana. Nell’ultimo mese la frequenza è stata rispettata e sono stati ammazzati 4 neri disarmati (vedi Panorama.it). Meno male che i media di tutto il mondo avevano detto che con l’elezione del “ primo presidente nero degli Stati Uniti” si assisteva alla dimostrazione che gli Stati Uniti erano definitivamente cambiati! In realtà, nonostante le mistificazioni di Obama, di Jackson, di tutti i politicanti e pennivendoli, su scala nazionale e internazionale, lo stato capitalista (negli USA e in tutti gli altri paesi) non offre molto altro che brutalità, violenza poliziesca, violazione dei diritti formalmente proclamati e galera ai diseredati, specialmente se questi appartengono a minoranze etniche o sono immigrati
La rivolta esplosa dopo il brutale omicidio di Brown a Ferguson dimostra che le vittime di questo sistema cominciano a prendere in mano il loro destino, non a caso è stato riesumato il vecchio slogan “no Justice no Peace” a dimostrazione che nella rivolta le classi sfruttate sono in grado anche di recuperare la loro memoria storica.
Dato che la situazione si è ormai fatta critica e le manifestazioni, ora amplificate a livello internazionale da stampa e televisioni, proseguono senza fermarsi, il governatore del Missouri, Jay Nixon, ha sospeso il coprifuoco e ha chiesto il dispiegamento della Guardia Nazionale. Corpo repressivo ben conosciuto nella storia del movimento proletario degli USA per aver versato fiume di sangue proletario.
Al momento non possiamo prevedere se la Guardia Nazionale riuscirà a stroncare la rivolta sociale dei diseredati di Ferguson. Qualunque sarà l’esito di questa vicenda siamo certi che essa potrà dare frutti preziosi se diventerà la base per una più matura organizzazione di classe del proletariato degli Stati Uniti. Pertanto non possiamo che concordare con i compagni del Workers Party in America che, dopo l’omicidio di Michael Brown, in un loro comunicato, dicono che la sola cosa sensata, di fronte alla violenza brutale delle classi dirigenti, la sola strada da percorrere è quella di organizzare l’autodifesa delle comunità nei quartieri, cominciando in tal modo a imporre alle classi dominanti il rispetto e la dignità come esseri umani. Scrivono i compagni del Workers Party in America nel loro comunicato del 11 agosto: “ Per difendersi efficacemente è necessaria un’organizzazione. I comitati di quartiere devono incontrarsi regolarmente e coordinare le loro azioni. Questi comitati possono anche prendere delle decisioni più importanti sulla qualità della vita e dei servizi pubblici. Lavorando coi comitati di altri quartieri e nei nostri luoghi di lavoro, noi avremo la forza di affrontare questioni più generali, come il miglioramento dell’istruzione e degli alloggi e di coordinare l’economia per una produzione basata sui bisogni umani. Un consiglio eletto dei rappresentanti di questi comitati potrà essere in grado di organizzare e amministrare i servizi pubblici, la difesa comune e il benessere della società”.
Noi ci auguriamo che il proletariato degli Stati uniti prenda con decisione questa strada fino a eliminare per sempre il dominio di classe, la miseria, lo sfruttamento, l’oppressione e i loro necessari corollari, razzismo e brutalità poliziesca.

20.8.14

Oltre il Rio Grande non c'è libertà

 
Ogni anno sono decine di migliaia i minori che attraversano il Rio Grande (il fiume che scorre lungo il confine tra Messico e Texas). Spesso sono arrestati con i loro familiari o assieme alle persone con le quali provano ad entrare clandestinamente negli States. A volte gli arresti sono effetttuati tramite raid della polizia contro alberghi e chiese (nelle quali gli immigrati si rifugiano). Negli ultimi anni  il numero di immigrati provenienti dai paesi centroamericani di Salvador e Guatemala è in aumento. In passato, dai due Paesi giunsero massiciamente negli anni '80 e agli inizi degli anni '90 centinaia di migliaia di persone a causa della situazione interna dei rispettivi Paesi che vedeva scontrarsi formazioni guerrigliere contro governi di destra supportati dalle amministrazioni americane. Durante questo periodo si calcola che in totale, un milione di centroamericani siano fuggiti negli Stati uniti. Le battaglie dei movimenti dei diritti di questi immigrati cercano da anni di ottenere il riconoscimento di rifugiati.
Negli anni ''80 l'America di Reagan era impegnata a finanziare e sostenere militarmente le forze paramilitari che seminavano il terrore nell'America Centrale. Conseguenza diretta di queste infami collaborazioni, fu il massacro di El Mozote in Salvador nel 1981. Gli squadroni della morte che si scontravano con l'FMLN invasero il villaggio circondando le abitazioni, separando gli abitanti in gruppi di uomini donne e bambini. Furono tutti massacrati tra torture e stupri. Riguardo l'uccisione di queste 1200 persone il Dipartimento di Stato americano affermò che non era successo nulla.
Coloro che in quegli anni cercarono scampo cercando di entrare negli States trovavano al confine guardie di frontiera che li trattavano come tutti gli altri immigrati: col rimpatrio iniziava in il viaggio di ritorno che per molti di loro voleva dire la morte.

Oggi il flusso di immigrazione è costante ed in aumento. A spingere nuove generazioni di salvadoregni ad attraversare il Rio Grande per arrivare negli States non sono più gli scontri militari ma la violenza delle gang legate al narcotraffico. In costante aumento è il numero dei minori: nel 2011 ne sono entrati 6560, 24.600 nel 2013, quest'anno 46.500.
L'amministrazione Obama ha ampliato i centri di detenzione per le famiglie clandestine in modo da poterle deportare più velocemente.
Un rapporto del Congresso afferma che le autorità americane lo scorso anno hanno deportato 72mila immigrati che hanno figli nati negli Stati Uniti, e che quindi per la giurisdizione a stelle e strisce sono cittadini americani a prescindere dello status dei genitori, secondo un rapporto del 2013 vi sono 4,5 milioni di bambini americani che hanno almeno un genitore senza documenti. Se i genitori vengono deportati, a volte i bambini partono con loro, ma possono rimanere se uno dei genitori ha i documenti o con un altro membro della famiglia. In alcuni casi vengono dati in affidamento a famiglie americane.
Durante l'amministrazione Obama è stata oltrepassata la soglia di due milioni di espulsi, George W. Bush nei suoi otto anni di governo ne aveva realizzate 2 milioni e dodicimila, Bill Clinton 141.000 e Ronald Reagan 168 mila.

17.8.14

Perù, dìa de los ninos

 
Recalcitran los días que en aplaudo pasaron
descalzo los caminos sin ningún preocupar
cubitos en lejano mirar, sin sonrojar
que no vitorean maldades ni diferencias.

Crespos rollizos están en sus tiernas miradas
que con inocentes rutinas diversifican
y pegan los pliegues al echar sueños volar
con libros, trompos, muñecas o jícaras arcillas.
Papel, trapo, plástico, soga, madera o metal
y el divertido ¡Ampay…! corriendo en adrenalina
tácito, el alegre pregonar con llanto al revés
¡Niños que en curso, alegrías habrán de mutar...!
Quaker, sopa y verduras resisten apetitos
resfríos y malestares alarman la vida.
Culpa no tenés si el cultivador humano huyo
dejándote a las derivas, manando niño hombre…
Hoy la tecnología juega en dedos y mente
y visión ataca, poniéndote futuros sueños
porque los siglos no dejan las guerras ni las hambres
olvidándose de lo niño, que se lleva dentro.

                                                                G. Salomón García C.

Crisi irachena: quando lo zoppo dà dello sciancato allo storpio

 
Gli Usa stanno bombardando in Iraq il “diavolo” di turno, l’ISIS, per difendere i cristiani cacciati dalle loro case e gli Yazidi che muoiono sulle montagne. Nessuno si era mosso per i 500 mila iracheni, in maggioranza curdi e turkmeni che in giugno erano fuggiti da Mosul, conquistata sempre dall’ISIS.
Un anno fa parecchi repubblicani Usa intimavano “Obama armi gli islamici (di Siria) contro il diavolo Assad”, precisando “qualsiasi tipo di movimento islamico”, e Hollande e Cameron facevano eco. Oggi Londra e Parigi fanno eco al guru conservatore Krauthammer che tuona “Obama per amor di Dio armi i Curdi” (National Review 8 agosto), e infatti gli Usa stanno armando i Curdi, con l’approvazione di Hollande, di Cameron, della Mogherini. La Francia secondo un copione di collaborazione con gli Usa ormai collaudato armerà anch’essa i Curdi, mentre per la Germania il vicecancelliere Gabriel ha affermato che potrebbe essere il primo caso in cui anche il suo paese invierà armi.
Le milizie dell’ISIS sono ormai a una mezz’ora di macchina dai pozzi di Erbil, pozzi in cui hanno investito Afren, Genel Energy, Shell, BP, Chevron, Exxon Mobil. Le compagnie straniere hanno parzialmente evacuato il loro personale e fanno pressione sui governi perché i loro investimenti siano messi in sicurezza (Financial Times 9 agosto). Erbil va difesa, non solo perché è la porta dei pozzi petroliferi, ma anche perché è la base di tutte le organizzazioni internazionali, dalle ONG alle delegazioni diplomatiche o commerciali, alle filiali delle multinazionali petrolifere. Quindi non è solo la capitale dei curdi iracheni, ma anche l’avamposto dell’imperialismo internazionale, ora travolto dalla fiumana di profughi cristiani.
Oggi l’ISIS è demonizzata a piene mani, se fosse vero anche solo un decimo di quello che gli si attribuisce, sarebbe già un racconti dell’orrore: il Jerusalem Post (1 agosto) ci informa anche che l’ISIS possiede e usa armi chimiche (saranno come le “armi di distruzione di massa” di Saddam?).
L’avanzata dell’ISIS non è un fulmine a ciel sereno. Il 10 giugno ha marciato su Mossul, seconda città dell’Iraq, e disarmato l’esercito iracheno. L’11 giugno ha attaccato Baiji, circondando la più importante raffineria irachena, e conquistato Tikrit, patria dell’ex presidente Saddam Hussein. A sud controlla parzialmente Ramadi e Falluja. A giugno 500 mila civili iracheni (non cristiani) sono stati costretti ad abbandonare le loro case, 1700 massacrati. Ma il conflitto a Gaza che occupava le prime pagine dei giornali ha “oscurato” gli avvenimenti iracheni. Il 1 luglio i militanti ISIS conquistano Raqqa e poi si garantiscono il controllo della diga sul Tigri, 50 KM a nord di Mossul, che fornisce l’acqua per le centrali elettriche di tutta la regione e permette l’irrigazione di vaste aree. Nell’ultima settimana hanno conquistato Qaraqos, la più grande città cristiana irachena e posto la popolazione locale davanti al dilemma: convertirsi, pagare la dhimma, cioè la tassa dei miscredenti, fissata a 450 $ al mese (cifra esorbitante per loro), o essere uccisi. Ai circa 100 mila Cristiani caldei (200 mila secondo altri) non è rimasto che fuggire verso il Kurdistan o verso il confine turco. Sorte anche peggiore hanno subito gli Yazidi.
Per la prima volta dal conflitto Jugoslavo, il Vaticano ha avallato con forza l’azione americana, così come Rabban al-Qas, vescovo d’Amadiyah (Kurdistan iracheno). I cristiani sono diventati la bandiera dell’occidente.
Non sono solo gli Usa a bombardare i reparti dell’ISIS, notizie non confermate dai rispettivi governi parlano di bombardamenti da parte dell’aviazione turca, iraniana e persino siriana. Da mesi reparti della guardia rivoluzionaria iraniana sono schierati a difesa di Bagdad e Samara, in territorio iracheno. La Russia contro cui gli Usa hanno appena varato sanzioni, ha inviato in luglio 25 cacciabombardieri Sukhoi in soccorso alla aeronautica irachena (ma sono pilotati da piloti iraniani perché non vi sono piloti militari addestrati in Iraq – da Jamestown Foundation Monitor 10 luglio)
Gli Usa quindi si trovano a combattere dalla stessa parte dei “diavoli” di ieri e dell’altro ieri, cioè Iran e Siria e a fianco del riottoso alleato turco. Inoltre, paradosso nel paradosso, gli Usa si affrettano ad armare i Curdi, unico baluardo sul terreno contro l’ISIS (dopo l’ignominiosa ritirata dell’esercito iracheno), perché i peshmerga curdi sono sì armati, ma con vecchie obsolete armi russe, mentre l’ISIS sfoggia armi americane ultimo modello, fornite direttamente o indirettamente dagli Usa stessi o da loro alleati.
Le armi sono arrivate direttamente dagli Usa (che hanno addestrato in Giordania gruppi islamici di ogni tipo, molti dei quali si sono uniti all’ISIS), o sono state conquistate sottraendole all’esercito iracheno in fuga (armato e addestrato dagli Usa al costo di 14 miliardi di $ nell’ultimo decennio), o passate sottobanco dai migliori alleati Usa: Qatar, Turchia, Arabia saudita, o dai due alleati europei attualmente più fidati: Francia e Gran Bretagna.
Tutti oggi cercano di scaricare l’onere di aver “creato il mostro” su altri.
Il New York Times (24 giugno14) lancia una precisa accusa alla Turchia per gli avvenimenti iracheni “Dopo aver spianato la strada ai ribelli, la Turchia paga un pesante prezzo per il caos che ha contribuito a creare.”. E spiega che quello che sta avvenendo è il risultato delle manovre turche per fomentare i ribelli anti Assad in Siria, che adesso hanno sferrato un attacco all’Iraq. Ribatte inferocito l’ Hürriyet Daily News del 7 agosto “Niente affatto!”, l’ISIS è un “sottoprodotto dell’invasione Usa in Iraq” e “della politica estera Usa in Siria”. La polemica infuria anche in Turchia dove, pur senza speranza, alle elezioni ha corso un candidato, Demirtas, che si presenta come portavoce dei curdi. Viene sottolineata la censura operata da Turkish Telecom che controlla il 92% del traffico internet sull’avanzata dell’ISIS accampando il pretesto di un guasto tecnico, per evitare domande imbarazzanti a Erdogan. Erdogan si è rifiutato finora di chiamare terrorista l’ISIS. Ma avere una mina vagante come l’ISIS a due passi dalla sua frontiera non concilia sicuramente il sonno del governo turco, soprattutto perché dopo che il governo turco ha facilitato il passaggio di guerriglieri e armi da Libia e Cecenia in Siria per rimpolpare la “resistenza” anti Assad, l’ISIS ha attaccato direttamente il Free Syrian Army allevato nelle retrovie turche e per maggior sfregio ha catturato 100 cittadini turchi e l’ambasciatore nel consolato turco di Mossul. Ma il rischio maggiore è il contagio di una ondata sunnita anti sciita e anti curda in Turchia, alimentata ad es. anche dal malcontento dei militari.
Negli Usa molti repubblicani accusano Obama per il ritiro dall’Iraq nel 2011, che ha creato “un vuoto di sicurezza” in cui si è inserito l’ISIS, per altri la colpa è della politica di “surge” del 2007 durante la quale in Iraq i Sunniti sono stati armati contro gli sciiti. Ma anche aver alimentato la ribellione contro Assad di Siria ha creato un vuoto di sicurezza perché l’esercito siriano ha perso il controllo del suo territorio e delle frontiere, fra cui quella con l’Iraq.
Fonti inglesi e statunitensi danno per certo il ruolo di finanziatori e di fornitori di armi all’ISIS in funzione anti-iraniana e anti-sciita di Qatar, Kuwait e Arabia Saudita, in particolare quest’ultima nel periodo in cui i servizi di Sicurezza sono stati sotto la guida del principe Bandar bin Sultan, dimessosi lo scorso aprile. Quindi l’ISIS come una pistola puntata contro l’Iran, contro il suo fantoccio Al Maliki in Iraq e il suo alleato Assad in Siria. I Sauditi hanno finanziato in Siria anche al-Nusra, il cui leader Abu Mohammed al-Joulani è stato giustiziato a Raqqa dall’ISIS e quindi è ormai in grave crisi, da cui l’ISIS spera di trarre vantaggio reclutando uomini per tappare le perdite (2 mila dei 10 mila guerriglieri stimati sono morti nei combattimenti). Il comandante in capo militare dell’ISIS è un saudita, Shaker Wahib; sono sauditi anche molti guerriglieri.
Anche in Iran infuria la polemica: c’è chi contesta la politica estera tutta centrata sulla creazione della mezzaluna sciita, ispirata da Khameini; si chiede di lasciare il mondo arabo ai suoi pasticci e rivolgere l’attenzione all’area che più conta per gli interessi nazionali dell’Iran, cioè il Golfo Persico, essere quindi “meno sciiti e più persiani”.
Secondo fuorusciti dell’ISIS il piano dell’organizzazione è ritirarsi dal fronte siriano per concentrarsi sulle aree petrolifere, diventare uno dei tanti gruppi armati che monopolizza un importante risorsa e la vende la migliore offerente. Per questo cellule più o meno dormienti dell’ISIS sarebbero già presenti sul suolo saudita. (al Monitor 8 agosto).
L’aver favorito col proprio intervento militare lo sfascio di tre stati arabi e mezzo (Libia, Iraq, Siria, e in parte destabilizzazione del Libano) pone oggi alle monarchie del Golfo e alle cancellerie occidentali problemi inediti nelle scelte di politica estera, ma soprattutto sta aumentando i costi umani a livelli intollerabili.
E tuttavia l’intervento apparentemente da tutti benedetto, in primis dal papa, degli Usa, cui ha teso la mano anche l’Iran, sta preparando ulteriori disastri.
Obama ha chiarito che l’intervento ha il solo scopo di “difendere vite americane” (cioè diplomatici del consolato di Erbil e dell’ambasciata di Bagdad) e di prestare aiuto umanitario agli Yazidi (il “popolo del pavone”) e alle altre minoranze irachene con lanci di viveri e acqua.
Non ci sarà un nuovo intervento militare Usa via terra in Iraq (un primo intervento fugace non c’è stato?), la guerra terrestre è affidata ai combattenti curdi attestati a Khazer, presso Mossul (BBC 10 agosto) e alle forze militari irachene, che per essere “motivate” devono però essere guidate da un governo di unità nazionale.
Ipotesi non prive di preoccupazioni per l’imperialismo Usa e per i potenti vicini dell’Iraq.
Sempre a giugno i peshmerga Curdi hanno occupato preventivamente Kirkuk per difenderne i pozzi di petrolio, allargando a danno del debole governo al Maliki l’area di controllo del Kurdistan Regional Government.
I Curdi grazie alla no fly zone statunitense si sono creati un nucleo di stato in Iraq e un’area protetta in Siria, che apparivano fino a qualche mese fa come un’isola felice di ordine e stabilità nel caos generale. Anche se riarmati dagli Usa non è detto che riescano a battere l’ISIS, forse possono contenerla. Ma nel caso fossero invece vittoriosi, ritrovandosi più forti e rinsaldati dal comune fronte anti-sunnita (finora le rivalità fra i tronconi curdi sono sopite ma non scomparse), cosa impedirebbe loro di riproporre il sogno del grande Kurdistan che minaccia l’unità territoriale oltre che di Irq e Siria, anche di Iran e Turchia? Armarli e fornirli di servizi di intelligence significa dare braccia alle loro aspirazioni storiche. L’ipotesi di una sollevazione curda per creare un proprio stato nazionale non è così peregrina, soprattutto se si tiene conto che Israele sta finanziando e armando i Curdi da molto prima che fossero oggetto della benevolenza euro-americana?.
Quanto alla possibilità di creare un governo iracheno di unità nazionale iracheno in grado di difendere oil proprio territorio, per ora la strada è tutta in salita. L’attuale amministrazione Usa da la colpa all’attuale presidente Maliki di aver col suo settarismo alimentato lo spirito di rivincita sunnita; altra colpa aver escluso dall’esercito e dalle Forze di sicurezza gli ex militari sunniti. Sull’ISIS convergerebbero le simpatie di alcuni generali di Saddam (tra i quali Gen. Abboud Qanbar, il Gen. Ali Ghaidan e Gen. Mahdi al-Ghazzawi) che mal sopporterebbero il governo di Al Maliki. Ma con l’ISIS avrebbe collaborato l’organizzazione semiclandestina degli ex baathisti (il Naqshbandi Order) nella presa di Tikrit e della provincia di Diyala (BBC 1 luglio 14). L’ISIS ha reclutato combattenti, assorbito gruppi e stretto alleanze alimentando il desiderio di rivincita dei sunniti frustrati.
Nel nuovo clima di rinnovata collaborazione coi curdi gli Usa hanno appoggiato la scelta del presidente del Parlamento Fuad Masum (un curdo) di affidare la formazione di un nuovo governo allo sciita Haidar al Abadi, perché attualmente intervenire in Iraq a fianco di al Maliki vuole dire automaticamente alimentare la guerra settaria. Al Abadi già speaker del Parlamento, sciita, del partito Dawa, anglofilo, a lungo esiliato a Londra durante l’era Saddam, specialista delle questioni petrolifere, filo occidentale e contro il legame privilegiato con l’Iran. Al Abadi avrebbe secondo Obama le entrature giuste per creare un governo più inclusivo al fine di mettere d’accordo curdi, sciiti e sunniti. Al Abadi ha l’appoggio di buona parte del blocco sciita e anche di al Sistani e anche l’Iran non si opporrebbe al cambio della guardia.
Ma al Maliki ha gridato al colpo di stato, schierato nei punti strategici di Bagdad le Forze speciali per sostenere il suo diritto a ricevere l’incarico di formare il nuovo governo (le elezioni sono state in aprile) e la Corte federale gli ha dato ragione.
Dietro al Maliki c’è sicuramente una consorteria di potere, che ha gestito ad esempio la assegnazione dei diritti di prospezione dei ricchi pozzi di petrolio del sud nel 2009; gente che non si lascerà tanto facilmente allontanare dal potere
In Parlamento buona parte del blocco sciita ha abbandonato Maliki; non così molti funzionari di alto livello da lui nominati, ma anche sembra le Forze speciali che costituiscono la sua guardia pretoriana (The Guardian 19 giugno) e nemmeno i reparti dell’esercito, che sono sempre più integrati e puntellati da milizie sciite. Dopo le sconfitte di giugno e la diserzione di quasi 90 mila uomini (sic) dalle truppe di terra, è stato proprio al Maliki a lanciare il reclutamento di milizie paramilitari sciite di volontari (circa 40 mila solo nelle scorse settimane), che affiancano con propri reparti, proprie divise e propri arsenali, sia l’esercito che le Forze di sicurezza. Il reclutamento è reso più facile dalla crescente disoccupazione nei quartieri poveri di Bagdad, come Sadr City, ma anche nelle campagne del sud dell’Iraq. Alcune di queste milizie, a suo tempo, avevano combattuto gli americani ed erano state definite terroriste (es. Asaib Ahl al-Haq o Lega dei Giusti ) e soprattutto si sono distinte nella “caccia al sunnita” anche di recente (vedi il massacro nelle carceri di Baqubah). L’esercito quindi è percepito non come un elemento nazionale ma come una milizia tribale, se non addirittura come una forza al servizio di al Maliki (Washington Post 20 giugno 14)
I sauditi da parte loro giocano in proprio, perseguendo la loro strategia anti-iraniana; offrono 1 miliardo di $ di aiuti all’esercito libanese perché costituisca una milizia sunnita, alternativa all’ISIS, che comunque contribuisca a ridimensionare il peso di Hezbollah approfittando del logoramento militare subito in Siria. L’Arabia, da sempre a fianco di Hariri e in lotta serrata anche col Qatar per il controllo del Libano alimenta lo scontro settario anche in quel paese.(Al Arabiya 7 agosto)
In queste condizioni tutti gli scenari sono possibili: la definitiva spaccatura dell’Iraq in tronconi, il riesplodere del sanguinoso conflitto sunniti-sciiti, lo scontro fratricida fra correnti sciite a Bagdad ecc. (FP 12 giugno 2014). Quel che è certo è che l’area di instabilità aumenterà e di pari passo il massacro di civili. Il Medio Oriente di oggi è il risultato sia dell’intervento americano in Iraq del 2003, ma anche del ridimensionamento della potenza americana che lascia sempre più spazio agli appetiti degli imperialismi europei, ciascuno dei quali (il caso più evidente è quello della Francia) adottano una politica estera bellicista come controtendenza al declino. Ma sempre più pesano le potenze regionali grandi e piccole, che giocano ognuna per conto suo per la spartizione delle aree di influenza. C’è chi può mettere in campo il surplus finanziario, come Arabia e Qatar, accumulato negli anni delle vacche grasse degli alti prezzi dell’energia, chi può far contare il peso demografico, come Turchia e Iran, ma anche la tradizione militare e la capacità di esportarla; tutti hanno i loro arsenali stipati all’inverosimile di armi di ogni tipo, a cui si aggiunge il fiume di armi fuori controllo in arrivo dalla Libia, dalla Cecenia e dall’Afghanistan.
Man mano che crolla la compagine statale in ciascuno dei paesi coinvolti a prevalere è lo scontro lungo linee settarie, religiose o etniche, che schiacciano i lavoratori di questi paesi aggiogandoli allo scontro fra minoranze dirigenti per appropriarsi principalmente delle royalty petrolifere. Queste borghesie esprimono leadership politiche autoritarie e si appoggiano sempre più sulla forza militare anche nella repressione interna.
In tutto questo il governo americano si trova sempre più invischiato nel ruolo di gendarme internazionale, di guardiano del caos imperialistico: non si può dire che gli Usa “combattano per il petrolio”, quanto piuttosto per conservare il suo proprio peso internazionale. In Iraq in particolare, dopo essere stato emarginato dalle grandi concessioni di sfruttamento dei pozzi, l’imperialismo americano fa i conti se mai con il convitato di pietra che nessuno nomina ma che tutti hanno presente. Metà del petrolio iracheno oggi va in Cina; l’Iraq è il quinto fornitore di energia per la Cina. Le grandi compagnie cinesi (China National Petroleum, Sinopec e CNOOC) hanno investito più di tutte le altre majors straniere. Estromessa manu militari dalla Libia, messa in difficoltà da un andamento economico sempre meno brillante, la Cina potrebbe essere una ulteriore incognita a complicare la situazione.

Se Marx avesse voluto un esempio da proporre per dimostrare che i tempi sono maturi per superare il capitalismo, un sistema economico che produce costantemente guerre e disastri, non avrebbe potuto trovare di meglio che il Medio Oriente oggi.

8.8.14

Michele Basso - L’imperialismo di Netanyahu e il pericolo di un duplice antisemitismo, antiebraico e antiarabo

 
Qual è lo scopo dell’operazione di brigantaggio di Netanyahu a Gaza? Ottenere il pieno controllo dei giacimenti di gas prospicienti la costa di Gaza; si intima ai palestinesi: “O la borsa o la vita, o mi lasciate carta bianca sui gas, o vi faccio fuori”. Gli dà corda un rabbino impazzito: “"“La Torah spiega in che modo gli ebrei devono difendersi dai propri nemici: se è necessario, Israele deve distruggere Gaza”. Parola di Dov Lior, leader spirituale dell’insediamento illegale di Kiryay Arba alle porte di Hebron, considerato il rabbino più estremista della destra religiosa ebraica. Famoso per aver asserito che “se uno dei due genitori non è ebreo, il bambino avrà i geni negativi che caratterizzano i non-ebrei”; ma anche per essere stato arrestato e interrogato con l’accusa di incitamento alla violenza per aver promosso un libro religioso, “il Re della Torah”, che dà gli ebrei il permesso di uccidere i non-ebrei, compresi i neonati."(1) Perché uso il termine imperialismo e non sionismo? Seguo la lezione di Trotsky (Lenin, Trotsky, Bordiga, Luxemburg… appartengono alla migliore tradizione del movimento operaio, e non occorre aderire a qualche scuoletta per citarli), che nel luglio 1935 consigliava di parlare di guerra contro l’imperialismo e non contro il fascismo: “ Il problema non è chi è “meglio”, il Negus o Mussolini, è un problema della relazione tra classi e della lotta di un paese sottosviluppato per l’indipendenza contro l’imperialismo”(2) Tra l’altro il Negus abbandonò il paese mentre la guerra era ancora in corso, facilitando la vittoria di Mussolini, e, tra i suoi imitatori troverà proprio il nuovo imperatore di Etiopia, Vittorio Emanuele III, che fuggirà a Brindisi. Parlare di imperialismo significa anche mettere in evidenza la vera matura dell’aggressione, perché lo stato imperialista può essere totalitario o democratico, laico o clericale, di destra o di “sinistra”, e chi lotta contro l’aggressione non difende il regime del paese vittima dell’imperialismo, ma la sua popolazione. E anche per non dare, a quei personaggi che vogliono identificare antisionismo e antisemitismo, infiniti pretesti per confondere le idee sulla vera posta in gioco. D’altra parte, ciò che rinfocola le mai spente braci dell’antisemitismo (il socialismo degli imbecilli, si diceva nell’Ottocento!) è proprio la politica militarista di Netanyahu, che massacra con la massima indifferenza civili, donne e bambini in particolare, bombarda scuole e ospedali, e spara sulla mezzaluna rossa (la croce rossa dei paesi musulmani). Inoltra alimenta un secondo tipo di antisemitismo, che ha preso piede soprattutto con le sciagurate presidenze della dinastia Bush, di Clinton e Obama, e che gioca sull’odio antiarabo, il ramo più numeroso dei semiti. Sappiamo che le divisioni razziali non hanno alcun fondamento scientifico, ma non possiamo non tener conto che la propaganda può far credere vere le teorie o i pregiudizi più infondati. Non è un difensore delle masse palestinesi Putin. In un incontro con un gruppo di sionisti, Putin ha chiesto di portare un messaggio a Netanyahu, e cioè che la Russia è un vero amico d’Israele e del suo primo ministro: “ “Sostengo la battaglia d’Israele che intende proteggere i suoi cittadini “ ha detto sulle operazioni delle Forze di difesa israeliane per restaurare la calma nella regione e fermare il terrorismo di Hamas”(3). Non una parola sul massacro dei palestinesi. Da un lato abbiamo uno stato imperialista, che ha una grande quantità di missili, centinaia di atomiche, l’appoggio del governo di Washington e di quelli europei, la benevolenza della Russia e la pratica indifferenza della Cina; dall’altra parte, non uno stato, ma un Bantustan, al quale vengono bloccati, da Israele e dalla giunta golpista egiziana, persino i rifornimenti di medicine e di acqua. Quale che sia la sua direzione, porlo sullo stesso piano di Israele come fosse uno stato imperialista, proponendo pure per esso il disfattismo rivoluzionario, è una sciocchezza contro il marxismo e persino contro il buon senso. Chi avesse dubbi a questo proposito può leggere o rileggere “Aggressione all’Europa”, di Bordiga, dove si chiariscono i limiti del disfattismo rivoluzionario di fronte a un imperialismo strapotente. (4) Termino esprimendo ancora una volta il mio apprezzamento per quegli ebrei, che coraggiosamente denunciano la guerra di Israele. E non m’importa se sono comunisti, semplicemente antimilitaristi, laici o rabbini. Conoscono i rischi che corrono, di essere discriminati dalla loro comunità, o, soprattutto in Israele e negli Stati Uniti, di essere arrestati. Su altre questioni ci potremmo trovare forse su fronti opposti, su questa li considero eccellenti alleati. Se ho scandalizzato qualche chierichetto o qualche suorina del “marxismo accademico”, non me ne scuso affatto. 

Note 1) “Le considerazioni del rabbino estremista, espresse sotto forma di una sentenza religiosa, danno la benedizione alle autorità israeliane di sterminare gli abitanti della Striscia per difesa. Il Meretz chiede di aprire un’indagine”, NENA NEWS 26 luglio 2014 2)Leon Trotsky, The Italo-Ethiopian conflict, 17 luglio 1935. 3) “President Putin: “I Support Israel”” The Federation of Jewish Communties of the CIS. 4) “Aggressione all’Europa”, in “Battaglia Comunista” n. 13, 1949. Lo si trova negli archivi dei siti internet di Programma Comunista, Il partito comunista, N+1, e altri.

4.8.14

Il veleno della tecnologia uccide i lavoratori cinesi

 
Il 28 dicembre 2013 il ventiduenne operaio cinese Ming Kunpeng si è suicidato perché ammalato di leucemia, causata dal benzene, prodotto cancerogeno costretto a manipolare quotidianamente, senza adeguate protezioni, nella fabbrica di prodotti elettronici ASM Pacific Technology, fornitrice di Apple. Uno dei tanti operai cinesi del settore spinti al suicidio dalle disperate condizioni di lavoro e di vita. La sua storia è una delle numerose storie raccontate nel documentario “Chi paga il prezzo? Il costo umano dell’elettronica” dei registi Heather White e Lynn Zhang, che hanno condotto un’indagine sull’utilizzo dei prodotti chimici tossici a cui sono esposti milioni di operai cinesi durante la produzione di iPhone, iPad e di altri prodotti venduti nel mercato globale.
Un problema di enorme portata dato che tre quarti della popolazione mondiale ha accesso ai cellulari, e che circa la metà di essi è prodotta in Cina, dove è consentito l’utilizzo, spesso senza adeguata protezione, del benzene, un solvente industriale vietato in molti paesi.
L’aumento della domanda di elettronica a basso costo è pagato a caro prezzo dai lavoratori cinesi, con la perdita della salute e della vita. Secondo le statistiche ufficiali del governo cinese ogni 5 ore un lavoratore è avvelenato da prodotti chimici tossici, per la maggior parte benzene, secondo gli esperti molti di più.
Le fabbriche di elettronica utilizzano oltre al benzene prodotti che sono tossine per il sistema riproduttivo come il toluene, e neurotossine come l’N-esano.
Nessuna merce prodotta nel sistema capitalistico, neppure un semplice cellulare, è inoffensiva in quanto frutto dello sfruttamento della forza lavoro, e dell’assoggettamento della vita umana al cieco profitto.
Per proteggere la salute dei salariati dell’elettronica esistono in realtà prodotti alternativi a quelli tossici, 626 secondo la lista stilata dall’organizzazione no-profit “Segretariato Internazionale per la Chimica”. Il costo dei loro sostituti si aggirerebbe su un misero dollaro per cellulare, a fronte di profitti miliardari intascati dal padronato. Ad es., nel 2013 Apple ha registrato profitti per $37MD!!!
La denuncia di questi omicidi bianchi comparsa originalmente sul sito della ong. Other Words è poi stata ripresa da grandi testate come Foreign Policy in Focus e da Asia Times, certo non per motivi umanitari ma per combattere la competizione “sleale” della Cina.
La Cina – capofila dei BRICS, i 5 maggiori paesi “emergenti” – è in realtà una grande potenza che già quest’anno si prevede superi il PIL Usa calcolato a parità di potere di acquisto. In competizione con l’India la Cina si è aggiudicata la sede della Banca di Sviluppo dei Brics istituita in occasione del sesto e più importante vertice riunito a metà luglio in Brasile. Banca di Sviluppo che rappresenta in prospettiva un’alternativa alla Banca Mondiale e all’FMI.
Le posizioni che il capitalismo cinese va conquistandosi a livello globale sono il frutto del plusvalore che estrae anzitutto dai salariati cinesi, dal loro supersfruttamento in condizioni di lavoro precarie subite per la mancanza o debolezza di un’organizzazione autonoma di classe. Il numero delle vittime di malattie professionali è aumentato negli ultimi anni in modo esponenziale, nel 2010 un nuovo caso diagnosticato ogni dieci minuti. Al di là del sindacato di Stato, ACFTU, esistono in Cina organizzazioni ong, come ad esempio Labour Action China (LAC) attiva soprattutto nel Sud, che forniscono ai lavoratori che vi si rivolgono strumenti culturali e organizzativi e para-legali a difesa dei loro diritti, anche nei confronti delle istituzioni governative. La rapida e violenta crescita del capitalismo cinese porta in ogni caso con se anche forti contraddizioni, che si riflettono nell’aumento delle proteste. LAC informa che dal 1996 al 2003 il numero annuale degli scioperi operai e delle proteste dei contadini è aumentato da 8700 a oltre 90 000, secondo alcuni ricercatori nel 2010 ci sarebbero state 180 000 manifestazioni di massa. È da prevedere che dall’esperienza di questi movimenti di lotta nasceranno e si rafforzeranno anche organizzazioni politiche di classe. Il gigante capitalistico cinese può generare un avversario di classe altrettanto potente che cercherà di abbatterlo.
 Sintesi dell’inchiesta documentario

 Il filmato inizia vantando l’esperienza di Apple nella produzione di prodotti elettronici capace di migliorare la vita di tutti coloro che li utilizzano, bambini cinesi che studiano o giocano, giovani occidentali, neri, orientali ripresi in varie attività di svago e di lavoro. La tecnologia che aiuta…
E poi la domanda: Chi ne paga il prezzo? seguono interviste a lavoratori dell’elettronica. Un ragazzo a circa 13 anni ha interrotto gli studi e abbandonato il villaggio per andare a lavorare, per integrare il salario guadagnato in miniera dal padre, e la madre sparita nella grande città alla ricerca di un lavoro. Le luci e i grattacieli di una grande metropoli, una ragazza di 14 anni entra in fabbrica, perché i genitori devono lavorare sodo un intero anno per pagarle gli studi.
In Cina ogni anno oltre 12 milioni di adolescenti se ne vanno da casa per trovare un lavoro, fanno parte dei 260 milioni di cinesi costretti a migrare dalle campagne per guadagnarsi da vivere. Poi la catena di montaggio di una fabbrica di cellulari, dalle 8 alle 23 … condizioni di lavoro insostenibili, polveri … ventilazione assente.
Un giovane operaio di 26 anni, dovrebbe essere il miglior periodo della sua vita, invece si ammala di una forma aggressiva di leucemia, causata dal benzene, un carcinogeno di prima categoria … un padre di famiglia in ospedale, stessa diagnosi … 28 trattamenti di chemioterapia, dolore alle ossa, come se migliaia di formiche lo stessero divorando… Un altro operaio ammalato, da sei anni in ospedale: mi sento prigioniero, sento che la vita è finita, non so proprio cosa fare. Ci sono voluti 19 mesi per dimostrare che la malattia era causata dal lavoro … ho mandato petizioni al governo, sono sempre state respinte. Il mio compagno di lavoro è stato chiamato dal capo, gli ha intimato di non dire agli altri operai perché ero ammalato.
Il primo ragazzo intervistato è ora in ospedale, gli è stata negato il riconoscimento di malattia professionale e di conseguenza il risarcimento. I suoi compagni di lavoro lo hanno accompagnato in ospedale, e gli pagano le cure. Ha lavorato tanto, troppo, per aiutare la madre, tutto però adesso è finito.
In Cina circa 200 milioni di salariati lavorano in condizioni pericolose.

1.8.14

Palestina libera


Fuori i massacratori israeliani da Gaza e dalla Cisgiordania

Fuori i massacratori israeliani da Gaza e dalla Cisgiordania

Fronte proletario europeo e mediterraneo contro nazionalismo, imperialismo e guerra.


L’8 luglio 2014 Israele - prendendo a pretesto il rapimento di tre giovani coloni insediati vicino a Hebron, di cui aveva incolpato Hamas - ha scatenato il fuoco assassino di aviazione, marina ed esercito contro la popolazione palestinese rinchiusa nella Striscia di Gaza, vera e propria prigione a cielo aperto per 1.800.000 persone, amministrata dal 2007 da Hamas, il movimento nazionalista islamico concorrente dell’OLP, che invece amministra le città palestinesi della Cisgiordania, collaborando con gli occupanti israeliani.
Il governo Netanyahu ha battezzato Margine di Difesa l’operazione in corso, che in meno di 20 giorni ha già fatto più di 800 morti e 5000 feriti e raso al suolo interi quartieri, malgrado l’accanita resistenza dei miliziani palestinesi.

Ricordiamo che dal 2002 ad oggi si tratta della quinta aggressione militare prolungata contro il popolo palestinese: nel marzo-aprile 2002 c’era stato il Muro di Difesa in Cisgiordania e a Gaza; nel giugno 2006, Pioggia d’Estate, a Gaza, contemporaneamente all’aggressione al Libano; tra dicembre 2008 e gennaio 2009, Piombo Fuso, e nel novembre 2012, Pilastro di Difesa, sempre contro Gaza.

A parte le innumerevoli spedizioni punitive dall’aria e da terra effettuate in questi anni contro qualsiasi reazione palestinese, queste grandi operazioni di terrore hanno costituito cinque momenti della guerra permanente condotta dagli occupanti israeliani contro tutto il popolo palestinese: una guerra che ha fatto più di 10.000 morti e decine di migliaia di feriti; che ha distrutto migliaia di case e interi quartieri; che ha aggiunto miseria alla miseria in cui è costretta a vivere la gran massa del popolo palestinese, da quasi 50 anni sotto occupazione.
Lo scopo strategico di questa guerra senza fine è quello di togliere sempre più territori alla popolazione palestinese, per insediarvi colonie e città israeliane, come è avvenuto e sta avvenendo implacabilmente; di preparare le condizioni per l’ulteriore espulsione dei palestinesi dalla loro terra, rendendone impossibile la vita e la sopravvivenza economica; di umiliarli e terrorizzarli, servendosi della collaborazione della cosiddetta Autorità Palestinese, diretta da Abu Mazen e dall’OLP, e castrando i movimenti nazionalisti islamici, quali Hamas e Jihad.
Il governo israeliano ha ritenuto di lanciare ora la sua ultima operazione di terrore antipalestinese, per motivi interni e internazionali.
Sul piano interno, il governo Netanyahu, che rappresenta gli interessi del feroce blocco finanziario-industriale-militare che domina questo piccolo Stato imperialistico in cui aumenta senza cessa la povertà, ha interesse a mettere la sordina ai conflitti sociali, con il richiamo al più becero nazionalismo sionista e razzismo anti-arabo.

Sul piano internazionale, esso vuole profittare dell’aggravamento della situazione sociale e politica in tutto il Medio Oriente, in un momento in cui ogni Stato arabo deve far fronte allo sviluppo di lotte sociali e guerre civili e si disintegrano le strutture dello Stato siriano, iracheno, libanese, per i conflitti interni e sotto la pressione delle potenze locali e di quelle imperialiste.
In questo quadro regionale, Israele non vuole colpire solamente il popolo palestinese, ma dimostrare di poter raggiungere ovunque allo stesso modo chiunque ostacoli i suoi interessi. Va poi detto che il popolo palestinese è sempre più isolato, se non apertamente attaccato dalle marce borghesie e cricche dominanti arabe, che sono di fatto o ufficialmente schierate con i massacratori israeliani. Infatti, non
bisogna mai dimenticare che il popolo palestinese non è costretto a combattere solamente contro il colonialismo israeliano, ma si è sempre dovuto guardare dalle cricche dominanti arabe, che lo hanno utilizzato come carne da macello per i loro interessi interni e internazionali.
Quale prospettiva può avere la lotta del popolo palestinese contro i massacratori israeliani?
Nel quadro nazionalistico non c’è sbocco: non solo per il fallimento del nazionalismo arabo dell’OLP, ormai morto dopo essere approdato al collaborazionismo con l’occupante israeliano, ma anche per la natura reazionaria del nazionalismo islamico di Hamas e Jihad, che rappresenta gli interessi proprietari, commerciali e di rendita, apertamente antiproletari, delle varie cricche borghesi palestinesi, a loro volta dipendenti da Stati arabi e cosche petrolifere, da sempre alleate delle potenze imperialiste.

In Palestina/Israele e nel Medio Oriente, da anni sconvolto dai conflitti sociali, dalle guerre civili, dalle guerre tra Stati locali e dalle guerre imperialistiche, l’unico sbocco per le masse lavoratrici e per i giovani radicali e combattenti è quello di superare il nazionalismo e il fondamentalismo religioso, per armarsi della prospettiva proletaria; di organizzarsi nel partito comunista per attaccare l’oppressione e lo sfruttamento sotto qualsiasi forma si presentino, battendosi contro i capitalisti e finanzieri israeliani ammantati di sionismo ed ebraismo, e contro i padroni, proprietari e rentiers arabi
ammantati di islamismo.

In particolare i lavoratori, i giovani e le giovani palestinesi israeliani e di tutti i paesi arabi devono battersi per costituire una Federazione socialista arabo-israeliana fondata sul potere dei lavoratori, in cui – finalmente – il popolo palestinese non sarà oggetto di oppressione e massacro ed il proletariato palestinese potrà uscire dalla sua condizione di sfruttamento.
Qui in Italia, prima potenza imperialista del Mediterraneo, con il suo corpo di spedizione da anni stabilito in Libano e basi militari nazionali e americane proiettate per il controllo e l’aggressione su tutto il Medio Oriente, nostro compito è quello di combattere l’imperialismo di casa nostra, di denunciare ed attaccare i suoi programmi di dominio economico ed i suoi piani di ulteriori interventi militari a Gaza e in Cisgiordania, sviluppando il fronte unitario dei proletari europei e mediterranei e la guerra sociale contro la guerra statale.


Milano, 25 luglio 2014
L’Esecutivo della Sezione di Milano
fonte: Rivoluzione Comunista