25.10.14

Ebola: le mani sporche del capitale

Negli ultimi mesi abbiamo assistito all’ennesima emergenza sanitaria che colpisce il continente africano, il più povero (per i proletari che lo popolano) ma anche il più ricco del nostro pianeta grazie alle immense risorse naturali, la diffusione dell’epidemia nota come Ebola.
La malattia da virus Ebola (Evd), in passato nota come febbre emorragica da virus Ebola, è una malattia grave e spesso fatale per l’uomo, nota alla medicina fin dal 1976, quando si sono riscontrati i primi casi in un villaggio africano presso il fiume da cui prende il nome.
La comprensibile preoccupazione per la salute, che dovrebbe generare allarme nel mondo quando qualunque membro del genere umano viene colpito da una malattia contagiosa, è diventata oggetto di attenzione da parte dei media soprattutto quando si è verificato lo sconfinamento del male fuori dai confini del continente nero, per approdare in Europa e in America. È dal 1976 che il virus è stato individuato e sono noti i sintomi della malattia, mentre dalla metà degli anni ’90 si sono verificati almeno una volta l’anno dei focolai epidemici, con percentuali di mortalità che vanno dal 100% dell’ex Gabon nel 1996 a un 51% del Sudan nel 2012, per i due ceppi più pericolosi del virus, mentre altri ceppi hanno percentuali dal 25% a un massimo del 51%. I più frequentemente colpiti sono stati finora Uganda, Congo, Gabon e Costa D’Avorio, oltre al Sudan dove il male ha iniziato a manifestarsi nel 1976. Oggi anche Sierra Leone e Liberia. Basta scorrere le cronache degli ultimi venti anni per ritrovare i nomi di tutti i paesi citati nelle crisi geopolitiche e nelle lotte feroci e mercenarie per il possesso di fonti energetiche, minerarie e tutte le ricchezze che fanno gola agli investitori di tutto il mondo, da Oriente a Occidente, mentre alcuni sono ancora nell’elenco dei paesi coinvolti in conflitti bellici, sia internazionali che interni, come la Nigeria che, solo pochi giorni fa, è stata dichiarata ufficialmente “Ebola-Free”. I paesi più colpiti sono perciò i più devastati da guerre civili, crisi economiche, corruzione, condizioni di vita sotto il livello di povertà nella maggioranza della popolazione, con diffusi problemi di malnutrizione, assenza di prevenzione sanitaria, analfabetismo. Sono anche i paesi dove l’economia dipende dai mercati internazionali, la produzione agricola è fortemente condizionata dalle nervose oscillazioni in Borsa delle “commodities”, le materie prime contrattate nei mercati sono soggette, perciò ai disordini economici del capitalismo.
Cosa ha fatto il mondo “sviluppato” per salvaguardare la salute e la sopravvivenza del genere umano, in queste aree? La diagnosi della malattia è difficile, dal momento che all’inizio i sintomi sono simili a quelli di altre malattie diffuse e connesse con la povertà, come febbre tifoide, dissenteria e varie febbri tropicali. Nelle comunità africane le precauzioni igieniche sono scarsissime e spesso le necessità quotidiane si scontrano con la mancanza di risorse: ad esempio la scarsa disponibilità di acqua corrente costringe le persone a lavarsi le mani in un unico recipiente, mentre d’altro canto le multinazionali dell’acqua si accaparrano le fonti idriche per poter venderle a caro prezzo. Attualmente circa il 70% degli infetti in Africa muore, e come riportato dall’O.M.S. siamo ormai a quota 8.033 casi tra sospetti e confermati (anche se fino a 6 casi su dieci potrebbero passare inosservati alle autorità sanitarie) e già 3.865 morti. Secondo il Center for Disease Control and Prevention (C.D.C), bisogna assicurare che il 70% dei pazienti contagiati riceva cure adeguate e venga messo in quarantena. Il tutto entro i prossimi 60 giorni. Altrimenti, più tempo passerà più gli sforzi, e il costo in vite umane, saranno ingenti. Mentre in Europa e in America si seguono trepidando le cure e il decorso dei malati locali, importatori involontari del virus oppure contagiati sul posto, dei loro familiari e colleghi, persino dei loro animali domestici, in Africa migliaia di pazienti, e anche di medici e personale sanitario, infettati, attendono l’esito fatale o una altrettanto fatalistica guarigione, con terapie approntate frettolosamente, nella speranza che funzionino efficacemente. 
Dov’è stato il sistema farmaceutico mondiale in questi 30 anni? Non solo le giustamente vituperate multinazionali dei farmaci, che si sono macchiate di veri e propri crimini contro l’umanità, sperimentando nuove molecole sulla pelle di pazienti inconsapevoli e negando loro le cure più efficaci – come nel caso della Pfizer nell’epidemia di meningite del 1996 a Kano, in Nigeria – ma anche i capitalismi emergenti che dall’India e da altri paesi insidiano le ampie fette di mercato delle prime, coi loro prodotti a basso costo. Se un’epidemia (come ad esempio l’A.I.D.S.) colpisce in prima fila le economie dove ci sono soldi da spendere per le cure, oppure o le minaccia da vicino (come nel caso dell’influenza aviaria), ingigantendone la pericolosità, il capitale che investe nei farmaci non si tira indietro, finanzia la ricerca, si fa concorrenza spietata su chi per primo brevetta la molecola “giusta” e fa la guerra a chi ne copia il contenuto. Ma se un’epidemia virulenta, oppure una malattia endemica in aree depresse del pianeta, colpisce i più poveri, quelli che non hanno denaro da spendere neppure per salvarsi la vita, allora che interesse c’è a finanziare ricerche, impegnare scienziati e costosi laboratori, perseguire serie ed efficaci sperimentazioni condotte senza mettere a rischio la sopravvivenza dei malati? Che cosa fa il mondo capitalistico contro la bilarziosi o l’ameba, malattie endemiche in Africa? O la febbre gialla (200.000 casi l’anno)?
Le vecchie malattie come la peste bubbonica o la malaria sono ormai un lontano ricordo, in Europa, ma sono tuttora diffuse in Bangladesh la prima e in Oriente e sul continente africano la seconda, ma non sono di interesse per il capitale, perché i proletari di quelle aree non hanno assistenza sanitaria, neppure la minima parvenza di welfare, quello così costoso che le politiche restrittive dei nostri governi vogliono progressivamente sgretolarlo. Ricordiamoci che il mondo non è poi così grande, non solo per i virus che viaggiano, e che quel “privilegio” che viene tolto oggi a qualcuno è tolto, indirettamente, a tutti, anche a chi ora non ce l’ha e può giustamente rivendicarlo.

12.10.14

Nasta - Que ardan

Urne e diamanti

Mancano due settimane alle elezioni e molte nubi si addensano sul processo democratico in Botswana. Accuse di spionaggio e il nuovo rapporto di Survival International che stigmatizza la violazione dei diritti umani dei boscimani sono solo gli ultimi colpi contro il presidente Ian Khama, favorito per un secondo mandato, ma anche spregiudicato nel mantenere il potere.
«Il partito di governo, il Botswana democratic party (Bdp) avrebbe ingaggiato consulenti ed esperti di intelligence con denaro della compagnia diamantifera De Beers, per intercettare e contrastare la campagna elettorale dei partiti d’opposizione in vista delle elezioni generali del prossimo 24 ottobre». L’accusa è stata lanciata dalle colonne del quotidiano Botswana Guardian. Il Bdp è al governo fin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna (1966) e questo un sintomo di debolezza della democrazia. Ma governare significa gestire il business dei diamanti e dunque il Bdp sta facendo ogni sforzo per mantenere saldo il timone.
La De Beers e il governo sono attualmente soci al 50% nella compagnia Debswana, che secondo il sito della multinazionale è la più grande produttrice mondiale di diamanti. Debswana contribuisce per circa il 30% del Pil del paese e al 50% delle entrate statali. La compagnia mineraria respinge al mittente le accuse e smentisce ogni suo coinvolgimento nel processo elettorale. Ma non è la prima volta che la multinazionale finisce nel mirino della stampa locale. Quattro anni fa fu il settimanale d'inchiesta Sunday Standard a pubblicare articoli su un finanziamento della De Beers al partito di governo, per complessivi 500 milioni di dollari. Cifre enormi, ma congrue per chi deve garantirsi affari miliardari.
Ieri, infine, è arrivato l’ultimo rapporto di Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, che punta il dito contro gli abusi, i pestaggi, gli arresti e le uccisioni dei boscimani del Kalahari per mano delle guardie forestali e della polizia. Il governo accusa i boscimani di bracconaggio, ma la ragione vera sono ancora i diamanti. La Central Kalahari Game Reserve è stata creata nel 1961 per permettere ai boscimani di mantenere il loro stile di vita di cacciatori-raccoglitori. Ma quando negli anni Ottanta sono stati scoperti giacimenti di diamanti all’interno della riserva, la presenza dei boscimani non è più gradita.
Nel 2006 una sentenza della Corte Suprema del Botswana ha riconosciuto il diritto dei boscimani a vivere e cacciare all’interno della riserva. Il governo, tuttavia, ha emesso un divieto nazionale di caccia che, di fatto, riduce alla fame i boscimani per costringerli ad abbandonare la loro terra. E allora che le accuse di bracconaggio diventano il pretesto per cacciare inquilini non graditi alle multinazionali dei diamanti ma legittimi custodi di quella terra.


fonte: Nigrizia

Lo scivolamento dell'Ucraina verso la barbarie militare

L'attuale crisi in Ucraina è la più grave dallo scoppio della Jugoslavia 25 anni fa. La Russia cerca di difendere i suoi interessi nella regione contro i tentativi delle forze occidentali di aumentare la loro influenza, minacciando di scatenare una guerra civile e la destabilizzazione della regione.

Il paese ha un nuovo presidente, Petro Porochenko, eletto a maggioranza nel primo turno delle elezioni sulla base della promessa di schiacciare senza esitazioni « i terroristi separatisti » nell'est del paese. Certamente egli non rappresenta niente di nuovo. La sua carriera politica è cominciata nel Partito unificato socialdemocratico dell'Ucraina, poi è passato nel Partito delle regioni, leale verso Kutchma, un alleato della Russia, prima di scegliere il Blocco Nostra Ucraina di Iuchtchenko nel 2001. E' stato ministro nei governi di Iuchtchenko e Ianukovitch. Miliardario del cioccolato, è stato accusato di corruzione nel 2005 e si è battuto alle elezioni presidenziali con il sostegno dell'ex pugile Vitaly Klitschko – che nello stesso momento è stato eletto sindaco di Kiev – e dei suoi corrotti partigiani Levochkin e Firtash. L'Ucraina attualmente è diretta da un nuovo oligarca corrotto, che offre la sola prospettiva che il sistema capitalista putrefatto riserva all'umanità : il militarismo e l'austerità.

Non essendo stato capace di sconfiggere rapidamente i separatisti filo-russi, il conflitto continua con alterne vicende, ma con i separatisti che continuano a mantenere le loro posizioni.

Lungi dall'aprire un nuovo perido di stabilità e di crescita, le elezioni presidenziali del 25 maggio hanno segnato una nuova tappa nello scivolamento verso una sanguinosa guerra civile, nonostante i referendum sull'autonomia tenuti dai separatisti in Crimea a marzo e quelli di Donetsk e Luhansk a maggio. Quello che sta accadendo è un allargamento delle divisioni interne di questo paese artificiale in fallimento, amplificate dalle manovre imperialiste esterne. Il rischio è che esso venga dilaniato dalla guerra civile, dalla pulizia etnica, i pogrom, i massacri e l'estensione dei conflitti imperialisti.

L'instabilità d'origine dell'Ucraina

L'Ucraina è il secondo paese d'Europa come estensione, una costruzione artificiale con il 78% di ucraini e il 17% di russofoni, maggioritari nella regione del Donbass, più diverse etnie inclusi i Tartari della Crimea. Le divisioni sulle ricchezze economiche seguono le stesse linee di frattura, con il carbone e la siderurgia nell'est russofono, che esporta massicciamente verso la Russia rappresentando il 25% delle esportazioni. Per quanto riguarda la parte occidentale, teatro della « rivoluzione arancione » del 2004 e delle manifestazioni a Maidan, la piazza dell'indipendenza a Kiev, lo scorso inverno, guarda all'Occidente in cerca del suo sostegno.

L'economia è in fallimento. Nel 1999 la produzione era calata del 40% rispetto ai valori del 1991, data dell'arrivo all'indipendenza dell'Ucraina. Dopo una piccola ripresa, essa ha di nuovo perso il 15% nel 2009. L'apparato industriale dell'est è obsoleto, molto pericoloso e inquinante. L'esaurimento delle miniere ha comportato un aumento dei rischi di incidenti sul lavoro per l'aumento della profondità degli scavi fino a 1200 metri con la minaccia di esplosione di metano e di polvere di carbone nonchè dello sfaldamento delle rocce (le stesse condizioni di pericolo che hanno causato più di trecento morti recentemente a Soma, in Turchia). L'inquinamento causato dalle miniere compromette l'approvvigionamento d'acqua, mentre i mulini che trattano i residui di carbone e di ferro causano un inquinamento dell'aria visibile a occhio nudo e l'accumularsi delle scorie e del metallo arrugginito può causare frane nel terreno fangoso. A tutto questo bisogna aggiungere la radioattività causata dallo sfruttamento di miniere dell'epoca nucleare sovietica. Queste industrie non sono competitive sul medio termine, o anche a breve termine, se si devono confrontare con quelle dell'Unione Europea, ed è difficile intravedere chi avrà il coraggio di fare gli investimenti che ci vorrebbero. Certamente non gli oligarchi al potere, il cui unico obiettivo è riempirsi le tasche a spese dell'economia. Nè tantomeno la Russia che deve a sua volta fare i conti con la sua industria obsoleta ereditata dall'epoca sovietica. Nè ancora il capitale dell'Europa occidentale che ha deciso la chiusura della maggior parte delle proprie industrie minerarie e metallurgiche tra il 1970 e il 1980. L'idea che la Russia possa proporre una soluzione al disastro economico, all'impoverimento e alla disoccupazione che non ha smesso di aggravarsi man mano che gli oligarchi si arricchivano – una specie di nostalgia per lo stalinismo e la sua disoccupazione mascherata – è una illusione pericolosa che può solo indebolire la capacità della classe operaia di difendersi da se stessa.

Altrettanto pericolose sono le illusioni sulla moneta europea. Il Fondo Monetario Internazionale ha concesso un fido di 14/18 miliardi di dollari a marzo, in sostituzione dei 15 miliardi di dollari ritirati dalla Russia al momento della caduta di Ianukovitch. Questo fido è condizionato alla attuazione di una stretta austerità che ha provocato un aumento del prezzo del carburante del 40% e un taglio del 10% nel settore pubblico, corrispondente a 24.000 posti di lavoro. E le stesse cifre sulla disoccupazione non sono attendibili, dal momento che molte persone non sono registrate o sono sotto-impiegate.

Quando l'Ucraina faceva parte dell'URSS e confinava con paesi satelliti della Russia, le divisioni non minacciavano l'integrità del paese – il che non vuol dire che queste divisioni non esistevano. 70 anni fa, per esempio, i Tartari della Crimea furono espulsi ed alcuni sono tornati solo di recente. Le divisioni vengono utilizzate in maniera nauseante assetando di sangue tutte le parti in gioco. Il partito Svoboda, di estrema destra, non è solo in questa opera : il governo provvisorio di conciliazione di Stefan Bandera, la guerrafondaia nazista ucraina Iulia Timochenko, tutti fanno appello all'uccisione e al bombardamento dei dirigenti e della popolazione russa, e Porochenko lo mette in pratica. Il campo russo è altrettanto immondo e sanguinario. Entrambe le parti hanno costituito delle milizie paramilitari, e il governo stesso di Kiev non ricorre solo al suo esercito regolare. Queste forze irregolari riuniscono i fanatici più pericolosi, mercenari, terroristi, assassini, che spargono il terrore sulle popolazioni civili e si ammazzano reciprocamente. Una volta messe in marcia, queste forze tendono a diventare autonome, incontrollabili, portando alla stessa situazione di morte che si vive oggi in Iraq, Afganistan, Libia o Siria.

La Russia difende i suoi interessi strategici in Crimea

L'imperialismo russo ha bisogno della Crimea per la sua base navale sul Mar Nero, un mare caldo con accesso al Mediterraneo. Senza questa base la Russia non potrebbe effettuare operazioni nel Mare Mediterraneo o nell'Oceano Indiano. La sua posizione strategica dipende dalla Crimea. Ma essa ha bisogno anche dell'Ucraina per la difesa del gasdotto South Stream in corso di costruzione. E' una preoccupazione costante dall'indipendenza dell'Ucraina. La Russia non può assolutamente tollerare l'esistenza di un governo filo-occidentale in Crimea, motivo per cui si è opposta a qualsiasi accordo con l'Unione Europea. Nel 2010 essa ha concesso uno sconto sul prezzo del gas in cambio di un prolungamento della concessione per la sua base navale. Quando il governo Ianukovitch ha rinviato l'accordo di associazione all'U.E. lo scorso novembre, la Russia ha risposto con un'offerta di aiuto di 15 miliardi di dollari, ritirato quando Ianukovitch è stato deposto ed è scappato dall'Ucraina. Poco tempo dopo la Russia si è impadronita della Crimea e ha organizzato un referendum per la sua adesione, utilizzandolo poi nella sua propaganda di guerra in favore dell'annessione.

E così da marzo La Russia possiede la Crimea, di fatto, senza riconoscimento internazionale. Ma questa non è comunque sicura, dal momento che è circondata dall'Ucraina, un paese che è in procinto di firmare un accordo di associazione con l'U.E. alleandosi quindi con i nemici della Russia e liberarsi così del ricatto russo trovando nuovi donatori nell'Europa occidentale. Per poter avere un accesso via terra in Crimea la Russia ha bisogno di controllare la parte orientale dell'Ucraina. Questa tuttavia è differente dalla Crimea, nonostante il peso della popolazione russofona che ha fornito il pretesto per l'invasione. Non essendoci basi militari russe nell'Est dell'Ucraina i referendum separatisti di Donetsk e Luhansk non possono mettere al sicuro questa regione ma solo destabilizzarla, provocando altri scontri. L'Ucraina dell'est non è nemmeno sicura di controllare le gang separatiste locali.

La Russia ha comunque un'altra carta da giocare in caso di destabilizzazione di questa regione : la Transnistria, che si è separata dalla Moldavia, alla frontiera Sud-ovest dell'Ucraina dove vive ugualmente un'importante etnia russofona.

Non siamo di fronte a una nuova guerra fredda, quanto piuttosto a un nuovo passo nella barbarie militare


Questi fatti non significano assolutamente un ritorno alla guerra fredda. La guerra fredda costituisce un periodo di parecchie decine di anni di tensioni militari tra i due blocchi imperialisti che si dividevano l'Europa. Nel 1989 la Russia si è indebolita al punto da non poter più controllare i suoi satelliti, nemmeno la vecchia Unione Sovietica, come si è visto al momento della guerra in Cecenia. Ora molti paesi dell'Est Europa fanno parte della NATO che così si è impiantata fino alle frontiere della Russia. Tuttavia quest'ultima ha sempre un arsenale nucleare e conserva gli stessi interessi strategici. La minaccia di perdita di ogni influenza in Ucraina costituisce un pericolo di indebolimento che essa non può permettersi. Perciò è costretta a reagire.

Gli Stati Uniti sono la sola superpotenza restante, ma essi non hanno più l'autorità di un dirigente di blocco sui suoi « alleati » e concorrenti in Europa ; questo è stato attestato dal fatto che essi non hanno potuto mobilitare queste potenze per spalleggiarli nella seconda guerra in Iraq, come gli era riuscito nella prima. Gli Stati Uniti sono stati un po' indeboliti da più di vent'anni di usuramento nelle guerre in Iraq e in Afganistan. In più essi devono far fronte all'emergere di un nuovo rivale, la Cina, che è in grado di destabilizzare il Sud-Est asiatico e l'Estremo Oriente. Perciò, nonostante la loro intenzione di diminuire il budget militare, gli Stati Uniti sono obbligati a focalizzare la loro attenzione su questa regione del mondo. Obama ha dichiarato : « Alcuni dei nostri più grandi errori passati non vengono dal nostro disimpegno, ma dal nostro accanimento a precipitarci in avventure militari senza pensare alle conseguenze.» Questo non significa che gli Stati Uniti non cercheranno di avere la loro parte di torta in Ucraina, attraverso la via diplomatica, la propaganda e le azioni segrete, ma non c'è la prospettiva di un intervento immediato.

La Russia non si confronta con un Occidente unificato, ma con una moltitudine di paesi che difendono ognuno i loro propri interessi imperialisti, anche se a parole condannano l'intervento della Russia in Ucraina. La Gran Bretagna non vuole che le sanzioni compromettano gli investimenti russi nella City ; la Germania pensa alla sua attuale dipendenza dal gas russo, anche se cerca altre risorse energetiche.I paesi Baltici sono favorevoli a una condanna e ad azioni molto severe visto che una buona proporzione delle loro popolazioni sono russofone, e quindi si sentono anch'essi minacciati. E' così che il conflitto ucraino ha scatenato una nuova spirale di tensioni militari nell'est europeo dimostrando che non c'è rimedio contro di esse.

In questo momento la Russia affronta delle sanzioni che sono potenzialmente molto dannose, dato che riguardano le esportazioni di petrolio e di gas. La recente firma di un contratto per vendere gas alla Cina le è venuta in aiuto. La Cina non ha seguito l'ONU nella condanna dell'annessione della Crimea da parte della Russia. A livello di propaganda essa rivendica Taiwan sulle stesse basi delle pretese russe in Crimea : l'unità dei popoli che parlano cinese, mentre non vuole ammettere il principio di autodeterminazione per le sue numerose minoranze etniche.

Tutte le fazioni borghesi, sia all'interno dell'Ucraina che quelle che manovrano dall'esterno, sono confrontate a una situazione in cui ogni movimento non fa che peggiorare le cose. E' un po' come al gioco degli scacchi, gioco amato sia dai russi che dagli ucraini, quando ogni movimento fatto da un giocatore non può che aggravare la sua situazione, cosicchè egli non può fare altro che muovere o abbandonare. Per esempio, Kiev e l'U.E. auspicano un avvicinamento, il che non può che condurre a un conflitto e al separatismo nell'est ; la Russia vuole affermare il suo controllo sulla Crimea, ma siccome non può prendere il controllo dell'Ucraina o della sua parte orientale, tutto quello che può fare è provocare discordia e instabilità. Più ogni parte cerca di difendere i propri interessi, più la situazione diventa caotica e più il paese scivola verso la guerra civivle aperta – come nella Jugoslavia degli anni 1990. Questa è una caratteristica della decomposizione del capitalismo, in cui la classe dominante non può proporre una prospettiva razionale alla società e la classe operaia non è ancora capace di avanzare la sua prospettiva.

Il pericolo per la classe operaia


In questa situazione il rischio per la classe operaia è di essere irreggimentata dietro l’una o l’altra delle differenti fazioni nazionaliste. Questo pericolo è accresciuto dalla ostilità storica basata sulla vera e propria barbarie che ogni fazione ha esercitato durante tutto il 20° secolo: la borghesia ucraina può ricordare alla popolazione e in particolare alla classe operaia la carestia che ha ucciso milioni di persone come conseguenza della collettivizzazione forzata sotto la Russia stalinista; i Russi possono ricordare alla loro popolazione il sostegno degli ucraini alla Germania durante la seconda guerra mondiale mentre i Tartari non hanno dimenticato la loro espulsione dalla Crimea e la morte di circa la metà delle 200.000 persone coinvolte. C’è anche il pericolo, per la classe operaia, di rimproverare a questa o quella frazione di essere responsabile dell’aggravamento della miseria e di essere attirata nella trappola della difesa di un campo contro un altro. Nessuna di esse ha niente da offrire alla classe operaia, se non l’accentuazione dell’austerità e un conflitto sanguinario.

E’ quasi inevitabile che qualche operaio sia attirato nel sostegno a una fazione filo e anti-Russi, anche se non siamo sicuri di ciò che stia effettivamente avvenendo. Ma il fatto che il Donbass sia diventato un campo di battaglia per le forze nazionaliste evidenzia la debolezza della classe operaia in questa zona. Confrontati alla disoccupazione e alla povertà, gli operai non hanno la forza di sviluppare lotte sul proprio terreno insieme ai loro fratelli di classe dell’Ucraina dell’Ovest e corrono il rischio di essere sollevati gli uni contro gli altri.

C’è però una speranza, tenue ma significativa: una minoranza internazionalista in Ucraina e in Russia, il KRAS e altri, hanno espresso una presa di posizione coraggiosa: «Guerra alla guerra. Non versiamo una sola goccia di sangue per la ‘nazione’»; questi internazionalisti difendono la posizione della classe operaia. La classe operaia, sebbene non possa ancora mettere avanti la sua prospettiva rivoluzionaria, non è battuta a livello internazionale. E’ questa la sola speranza per un’alternativa di fronte alla corsa del capitalismo verso la barbarie e l’autodistruzione.

Alex, 8 giugno
 

Una combattente curda delle YPJ a Kobanê scrive a sua madre

 
Mi sono ricordata di te e ho pianto.Azad ha una bella voce.Anche lui ha pianto quando stava cantando.Anche a lui manca sua madre che non vede da un anno.

Ieri abbiamo aiutato un amico ferito.É stato ferito da due proiettili.Non sapeva molto della seconda ferita quando stava indicando la prima pallottola nel petto.Stava sanguinando troppo dai suoi fianchi.Abbiamo fasciato la ferita e gli ho dato il mio sangue.Siamo nel lato est di Kobani,madre…A sole poche miglia ci troviamo tra noi e loro.Vediamo le loro bandiere nere,sentiamo le loro radio,qualche volta non capiamo cosa dicono quando parlano lingue straniere,ma possiamo dire che sono spaventati.

Noi siamo un gruppo di nove combattenti.Il più giovane Resho è di Afrin.Ha combattuto a Tal Abyad è si unito a noi.Alan è di Qamishlo,la zona migliore,ha combattuto a Sere Kaniye e poi si è unito a noi.Ha qualche cicatrice sul suo corpo.Ci ha detto che sono per Avin.Il più vecchio è Dersim, viene dalle montagne di Kandil e sua moglie ha subito il martirio a Diyarbekir e lo ha lasciato con 2 bambini.

Siamo in una casa alla periferia di Kobani.Non sappiamo molto dei suoi proprietari.Ci sono foto di un uomo anziano e una di un giovane uomo con un nastro nero, un martire …C’è una foto di Qazi Mohamad, Mulla Mustafa Barzani, Apo,e una vecchia mappa ottomana che cita il nome Kurdistan.

Non abbiamo avuto il caffè per un po ‘, abbiamo scoperto che la vita è bella anche senza caffè.Onestamente non ho mai avuto un caffè buono come il vostro mamma.Siamo qui per difendere una città pacifica.Non abbiamo mai preso parte nell’uccisione di nessuno,invece abbiamo ospitato molti feriti e rifugiati dei nostri fratelli siriani.Stiamo difendendo una città musulmana che ha decine di moschee.Le stiamo difendendo da forze barbare.

Mamma, io vi verrò a trovare una volta che questi sporca guerra ,che è stata costretta su di noi, è finita.Io sarò lì con il mio amico Dersim che andrà a Diyarbekir per incontrare i suoi figli.A noi tutti manca casa e vogliamo tornare,ma questa guerra non sa cosa significa mancare.

Forse non tornerò madre.Allora sii certa che ho sognato di vederti per così tanto tempo ma io non sono stata fortunata.

So che visiterete Kobani un giorno e cercherete la casa che ha visto i miei ultimi giorni …è sul lato est di Kobani. parte di essa è danneggiata,ha una porta verde che ha molti buchi da colpi da cecchino e vedrete 3 finestre,uno sul lato est, vedrete il mio nome scritto in inchiostro rosso …

Dietro quella finestra madre, ho aspettato contando i miei ultimi momenti, guardando la luce del sole mentre penetrava nella mia stanza dai fori di proiettile in quella finestra ..

Dietro quella finestra, Azad ha cantato la sua ultima canzone su sua madre, aveva una bella voce quando diceva “mamma mi manchi”.

MAMMA MI MANCHI Tua figlia, Narin 

Genova: disastri artificiali

 
Ancora un alluvione a Genova. Un morto, danni stimati per 200 milioni di euro.
La causa scatenante è una pioggia scrosciante che i meteorologi dicono di non avere previsto. Un forte maltempo che ha fatto danni anche in molte altre località del nord Italia. Ma che soprattutto ha colpito una città congestionata da viuzze e palazzi, dove periodicamente le piogge intense danno il via ad esondazioni ed allagamenti.
Quello ligure è un territorio a rischio: i versanti scoscesi, sulla costa battuti da un mare che tende ad eroderne la base ed esposti alle intemperie gonfiate dall’umidità marina, sono particolarmente soggetti a frane e smottamenti; nelle zone più interne, la pioggia i suoi torrenti che da asciutti si gonfiano velocemente fino ad esondare.
Ma le peggiori catastrofi non avvengono tanto in terreni poco antropizzati quanto nelle città, dove l’azione umana avrebbe meglio potuto contenere e domare la furia degli agenti atmosferici mettendo in sicurezza un territorio fragile.
Ma invece che costruire canali scolmatori, dighe e bacini per frenare l’impeto delle acque, invece che mantenere spazi di sfogo per le piene, si è preferito restringere l’alveo dei torrenti per costruire palazzi che ostruiscono il flusso dell’acqua e strade che la pioggia trasforma in fiumi. Scelte compiute ai tempi dell’edilizia selvaggia e della sua speculazione degli anni ’60 e ’70 che vedevano ampliare di mese in mese tutti i quartieri (ad eccezione del centro storico) genovesi per venire incontro alle richieste abitative di una città in espansione.
E’ questo il motivo per cui una città ad alta densità abitativa è tanto vulnerabile alle alluvioni: quella del 4 novembre 2011 ha causato 6 morti, quella del 4 ottobre 2010, prima ancora nel 1993, nel 1992… la più pesante nel 1970 con 44 morti.
Ad ogni disastro “naturale” (che nasce da cause naturali ma diventa tragedia per l’azione artificiale dell’uomo sull’ambiente) seguono le accuse, in gran parte sottoscrivibili: perché l’urbanizzazione non ha tenuto conto dei limiti ambientali? Perché vi sono state delle deroghe alle norme di salvaguardia? Perché i geologi sono rimasti inascoltati?
Perché, rispondiamo noi, chi amministra un territorio è tenuto ad ascoltare innanzitutto chi lo ha fatto eleggere: chi gli ha fornito i soldi per la campagna elettorale (e non parliamo certo di operai o impiegati), chi ha garantito che i mass media lo mettessero in buona luce di fronte agli elettori, chi ha interessi economici che devono prevalere sulla salvaguardia ambientale. Perché la borghesia per esistere deve produrre profitto oggi, anche se questo significa devastare il territorio e mettere a repentaglio lo stesso apparato produttivo domani.
Il capitalismo ha fornito all’uomo la capacità di migliorare la propria esistenza controllando la natura, ma usa il pianeta come mero strumento di produzione da sfruttare fino a mettere a repentaglio la stessa esistenza della specie umana.
Solo un sistema basato sui bisogni dell’umanità e non sul profitto può mettere fine al saccheggio ambientale oltre che a sfruttamento e a guerre.

11.10.14

Se cade Kobane… L’attesa della Turchia tra Curdi “buoni” e “cattivi”

 
Mentre Kobani (nome curdo per la città di Ayn al-Arab) continua in queste ore a resistere all’assedio delle forze dell’ISIS il 3 ottobre il parlamento turco ha votato a larga maggioranza la mozione che autorizza il dispiegamento delle truppe turche oltre il confine siriano. Il tira e molla che da mesi vede impegnate le diplomazie statunitensi ed europee nel tentativo di coinvolgere la Turchia nelle operazioni militari contro l’ISIS sembrerebbe infine essersi concluso. Per spiegare la riluttanza di Ankara a a confrontarsi direttamente con il cosiddetto stato islamico basta ricordare che la Turchia è stato il principale finanziatore dei gruppi gihadisti e delle altre milizie di opposizione al governo di Assad. Una volta soppiantati i gruppi come al-Nusra, di fatto inglobati nell’ISIS, i campi profughi in territorio turco sono diventati uno dei principali bacini di reclutamento e di addestramento da parte dei gruppi armati. Il rapimento del personale diplomatico turco da parte dei gihadisti il 12 giugno quando Mossul viene conquistata dai gihadisti, e il loro rilascio il 20 settembre scorso senza che Ankara abbia ammesso il pagamento di un riscatto fa capire come i rapporti tra l’ISIS e la Turchia siano tutt’altro che chiariti o privi di ambiguità. I militanti legati allo stato islamico godono ancora di notevole libertà di movimento così come sono presenti cellule operative all’interno del paese. Non a caso poco all’inizio di settembre la sezione giovanile del PKK ha rivendicato l’uccisione di un presunto agente dell’ISIS a Istanbul. Secondo il deputato del partito di opposizione kemalista CHP Atilla Kart il 7% dei combattenti dell’ISIS sarebbe di cittadinanza turca così come in questi giorni si sono registrate sia ad Ankara che a Istanbul manifestazioni di solidarietà con i gihadisti.
Il dato che ha agito nel mese scorso da freno rispetto al coinvolgimento turco nella coalizione di “volenterosi” è la paura che l’aiuto finanziario e bellico accordato dalle potenze occidentali alle milizie curde irachene del KDP (Partito Democratico del Kurdistan) di Massud Barzani finisca indirettamente col rafforzare il PKK che ha il suo quartier generale sui monti Kandil nel nord dell’Irak e che rispetto alle rappresentanze politiche curde in Siria o in Iraq è il gruppo meglio organizzato sul piano militare. Non a caso il nuovo ministro degli esteri turco Mevlut Cavuşoğlu ha più volte ribadito che le armi inviate in Iraq non debbano finire in alcun modo nelle mani del PKK considerato organizzazione terroristica da USA e UE.
Tenuti presenti questi elementi come già era emerso durante la conferenza di settembre che ha segnato la nascita della coalizione anti-isis sponsorizzata dagli USA risulta chiaro come l’obiettivo principale della Turchia sia la creazione di una zona cuscinetto oltre il confine siriano preferibilmente sotto mandato dell’ONU che permetta di fermare il costante afflusso di profughi a cui adesso si aggiungono i rifugiati curdi di Rojava la regione proclamatasi autonoma finora sotto il controllo del PYD (Partito dell’Unione Democratica) che dall’inizio del conflitto siriano ha impedito l’accesso tanto alle truppe di Damasco quanto ai ribelli “moderati” del defunto Esercito Libero Siriano e di al-Nusra.
La mozione di guerra recentemente approvata dal parlamento turco su decisiva pressione di Recep Tayyip Erdoğan il 2 ottobre, utilizza come pretesto formale l’attacco da parte dell’ISIS al l‘enclave turca situata a trenta chilometri a sud di Kobani considerato come un’aggressione alla Turchia. Dal canto loro i rappresentanti del governo siriano hanno fatto sapere di considerare qualsiasi sconfinamento delle truppe turche come un atto di guerra, mandando in frantumi il tentativo del neo primo ministro Davutoglu di ricucire almeno in parte i rapporti con il governo di Assad.
Ma contro chi è realmente indirizzato l’intervento di Ankara nel caos siriano e iracheno?
Alla luce dei rapporti ambivalenti con l’ISIS è plausibile che il vero obiettivo delle truppe turche sia il PKK e il partito siriano ad esso vicino, il PYD. Se infatti da un lato Erdoğan è stato accusato dall’opposizione nazionalista e kemalista di intervenire a favore del PKK, a seguito di una dichiarazione di Abdullah Öcalan – che dal carcere di Imrali, dopo aver giudicato positivamente la mozione interventista, aveva avvertito che la caduta di Kobani nelle mani dell’ISIS avrebbe messo fine al processo di pace tutt’ora in corso tra il governo dell’AKP e il PKK – la condotta negli ultimi giorni e nelle ultime ore fanno tuttavia pensare a ben altro.
Come denunciato dai media nell’orbita della sinistra di classe che hanno contestato la mozione d’intervento come un’ulteriore atto di guerra nei confronti del PKK organizzando diverse manifestazioni in tutto il paese in solidarietà con Rojava, le truppe turche sono state dispiegate appostandosi nella cittadine di Suruç sul versante turco a pochi chilometri da Kobani dove ancora infuriano i combattimenti, senza tuttavia prendervi parte nonostante colpi di mortaio abbiano colpito la cittadina ormai militarizzata. In breve non è da escludersi che con un semplice rallentamento delle operazioni la Turchia riesca a prendere due piccioni con una fava seguendo il detto cinese “Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”. Tutto ciò nell’attesa che “i ribelli siriani moderati” ricevano sufficiente addestramento e forniture belliche da Ankara, da Berlino, da Washington e dagli altri membri della coalizione.
Nel frattempo di pari passo con l’avanzata dell’ISIS nei quartieri periferici di Kobani è cresciuta l’indignazione delle comunità curde all’estero che hanno organizzato diverse manifestazioni di protesta in diversi paesi europei. Il 7 ottobre un centinaio di manifestanti curdi hanno fatto irruzione nell’aeroporto di Roma-Fiumicino . Manifestazioni anche a Berlino dove nella notte tra l’8 e il 9 ottobre si sono registrati scontri tra manifestanti curdi e islamisti. Ad Amsterdam centinaia di manifestanti hanno occupato il parlamento olandese. In Turchia si sono verificate le proteste di più vaste proporzioni che sono costate finora 18 morti negli scontri tra i manifestanti curdi e solidali della sinistra turca da un lato, e gli islamisti e le forze di sicurezza turche dall’altro nonostante il coprifuoco dichiarato a Van, Mardin, Diyarbakir e Batman. Nel frattempo militanti anarchici e comunisti hanno attraversato il confine siriano per sostenere direttamente la resistenza di Kobani.
Quello che ancora una volta emerge chiaramente è il cinismo degli imperialismi e delle potenze regionali dell’area, pronte tanto a finanziare i Curdi “buoni” di Massud Barzani quanto a distogliere lo sguardo quando si tratta di Curdi “cattivi” del PYD e del PKK.

9.10.14

Contro ogni campanilismo, ogni particolarismo, ogni nazionalismo: Internazionalismo proletario e comunista

 
Il capitalismo, pur sviluppando la propria economia a livello mondiale, e ponendo così le basi per una società senza separazioni e confini e senza classi, sviluppa nello stesso tempo i fattori che impediscono al suo progredire di sfociare in una società senza contrasti, senza contraddizioni. I fattori che determinano l'impossibilità per la società borghese di superare le proprie contraddizioni affondano le proprie radici nel modo di produzione capitalistico che, per svilupparsi, ha dovuto sì distruggere gli ordini e i vincoli dell'economia chiusa della società feudale per allargare al massimo la produzione sociale e il mercato in cui vendere le merci, ma sostituendoli con un sistema sociale in cui predominano la proprietà privata borghese e l'appropriazione privata della produzione sociale. L'antagonismo fra le classi esistente nella società feudale è stato sostituito dall'antagonismo fra le classi nella moderna società borghese: la civiltà capitalistica ha così creato una nuova classe sociale, il proletariato moderno, la classe dei lavoratori salariati, la classe dei senza riserve, degli espropriati di tutto salvo della propria forza lavoro che, per sopravvivere, sono però costretti a vendere ai capitalisti, ai possessori di tutti i mezzi di produzione, di distribuzione e della produzione sociale, nelle condizioni della schiavitù salariale.

L'economia capitalistica non produce solo merci, ma trasforma in merce qualsiasi risorsa naturale e l'uomo stesso; il regno mercantile domina sul regno vegetale e animale, sulla terra, sull'acqua, sull'aria: tutto, per la borghesia, ha un valore solo se è un articolo di commercio, se può essere scambiato contro denaro e se in questo scambio la quantità del capitale iniziale aumenta.

Così i grandi principi della civiltà borghese, sbandierati ai quattro venti come il raggiungimento di vette ideali mai toccate prima, si riducono in realtà ad una misera categoria commerciale.

Libertà?, sì libertà di commercio, libertà di sfruttare le risorse naturali, libertà di sfruttare la forza lavoro salariata, libertà di appropriarsi la produzione sociale, libertà di difendere la proprietà privata borghese con le leggi, la polizia, le carceri, gli eserciti.

Diritto?, sì diritto di opprimere i lavoratori salariati nello sfruttamento della loro forza lavoro, diritto di commerciare in patria e negli altri paesi, diritto di costringere le masse proletarie ad essere irreggimentate negli eserciti borghesi per difendere la proprietà privata delle aziende e dei capitali, diritto di sottomettere le popolazioni economicamente arretrate al dominio dei capitalisti più forti, diritto di intervento militare per salvaguardare gli interessi del capitalismo nazionale, diritto di fare la guerra a tutti coloro che possono mettere in pericolo gli interessi "nazionali".

Progresso?
, sì, progresso dell'industria, della scienza, della tecnica al fine di aumentare e velocizzare la produzione e la circolazione delle merci e dei capitali, al fine di aumentare la produzione di profitto capitalistico e di ridurre i costi di produzione, al fine di aumentare il tasso di sfruttamento della forza lavoro dal quale soltanto i capitalisti traggono il loro profitto.

Sovranità popolare?, sì, nel senso demagogico di rappresentare gli interessi "nazionali" - di "tutto il popolo" - attraverso istituzioni statali e governative che non sono altro che espressione diretta del potere politico della classe dominante borghese.

Democrazia?, sì, come principio ideologico e metodo di governo utili solo a mimetizzare con un falso coinvolgimento del popolo elettore alle decisioni che riguardano la sua vita, la dittatura del capitale.

Patria?, sì, come territorio definito da confini entro i quali la classe dominante borghese esercita il suo dominio diretto sulla popolazione nazionale, e sul proletariato innanzitutto, garantendosi la libertà e il diritto di sfruttare la forza lavoro salariata a suo piacimento e secondo le esigenze della sua economia e dei suoi profitti; la patria borghese è innanzitutto un territorio economico che la borghesia difende contro le borghesie straniere come sua proprietà privata e nel quale territorio gestire la forza lavoro salariata, autoctona o immigrata, con le sue leggi e alle sue condizioni.

Indipendenza nazionale?
, sì, certo, come unità di lingua e di territorio, ma indipendenza rispetto alle altre borghesie nazionali per poter trarre il maggior profitto possibile dallo sfruttamento del proprio proletariato nazionale; cosa che non impedisce alle borghesie economicamente e militarmente più forti di soggiogare popolazioni, nazionalità e territori economici altrui per allargare il proprio bacino di sfruttamento, alla faccia del rispetto delle "indipendenze" e delle "sovranità popolari" di altri paesi.

Legalità?, sì, come principio di difesa dei rapporti di proprietà e di produzione borghesi, dunque a difesa esclusiva del sistema economico e politico borghese con cui si ribadisce, per l'appunto, il dominio borghese sulla società intera.

Pace?, sì, la pace che i rapporti di concorrenza permettono e nella misura in cui i contrasti economici, politici, diplomatici, militari - che sono congeniti alla società capitalistica - non giungano al punto di rottura e si trasformino in contrasti armati.

Per il proletariato che cosa significano, nella società capitalistica, Libertà, Diritto, Progresso, Sovranità popolare, Democrazia, Patria, Legalità, Pace ecc.?

Libertà di vivere nella sola condizione di essere sfruttati dai capitalisti sia quando si viene impiegati come schiavi salariati sia quando si viene espulsi dalla produzione e precipitati nella miseria e nella fame. Libertà di organizzare le proprie forze, e di "lottare" in difesa dei propri interessi, solo alla condizione di sottomettersi alle esigenze dell'economia capitalistica e di osservare le leggi imposte dalla classe dominante borghese.

Diritto di vendere la propria forza lavoro al "miglior offerente" in una società in cui il "datore di lavoro" è sempre e comunque il capitalista - privato o pubblico che sia - alle condizioni di chi ha il potere di dare o meno un lavoro (quindi un salario), dunque il potere di vita e di morte su ogni proletario. Diritto di soddisfare le proprie esigenze di vita, di conoscenza, di ozio, di divertimento e di seguire le proprie attitudini pratiche? Sì, alla condizione di non essere un proletario, ma un borghese in posesso delle risorse economiche necessarie per perseguirle.

Progresso nella conduzione sociale e quotidiana di vita, singola o familiare, alla sola condizione di potersi recare al mercato ed acquistare i prodotti utili non solo alla pura sopravvivenza, ma ad una vita confortevole, sana, libera dai tormenti dei lavori nocivi, stressanti, insicuri, precari, saltuari, clandestini o dai tormenti di lavori non trovati: ai borghesi la vita confortevole, sana, libera dai tormenti del lavoro salariato e della disoccupazione, ai proletari la nocività, l'insicurezza, la precarietà del lavoro e della vita.

Sovranità popolare e democrazia vanno a braccetto: principi che hanno avuto una valenza positiva nella fase rivoluzionaria della storia della classe borghese, quando distrusse il potere feudale e nobiliare, rendendo protagoniste le classi sociali all'epoca sottomesse all'aristocrazia e radunate nel "popolo" (borghesi, artigiani, contadini, proletari), in nome del quale la classe borghese prese il potere e impose le leggi atte a liberare le forze produttive dagli stretti vincoli dell'economia feudale per lanciarle nello sviluppo dell'industria e del mercato. Principi che, sviluppatasi la società borghese, e sviluppatasi la lotta di classe fra le due classi fondamentali della società moderna, borghesia e proletariato,si sono dimostrati sempre più logori e non corrispondenti alla realtà materiale dei rapporti di proprietà e di produzione borghesi dominanti. La sovranità, cioè il potere reale, non è del popolo - massa informe di individui appartenenti ad ogni classe sociale - ma della classe dominante, dunque della borghesia. Democrazia, che, secondo l'origine greca della parola, significa "governo del popolo", non è che un metodo di governo "in nome del popolo" utilizzato dalla classe dominante borghese nelle forme delle rappresentanze elettive riunite nei parlamenti (democrazia repubblicana o monarchia costituzionale, poco importa), metodo attraverso il quale la classe dominante borghese dà l'impressione di coinvolgere tutte le classi e gli strati sociali nel decidere quali leggi, quali misure, quali decisioni prendere o meno nell'interesse "comune". Ideologicamente, col termine popolo, la borghesia intende superare la divisione della società in classi antagoniste, trasformando tutti gli abitanti di una nazione in "cittadini", individui uguali di fronte alla legge e il cui voto ha lo stesso peso aldilà della posizione sociale di ciascuno. Ma la realtà smentisce questi principi ideologici in ogni istante: sovranità popolare, democrazia, uguaglianza, nella società capitalistica sono solo principi ingannevoli perché la divisione della società in classi contrapposte non è il risultato di un atto di volontà o di un voto parlamentare, ma la base materiale dell'organizzazione sociale che ha per nome capitalismo.

Patria, nazione, sono termini anch'essi che, nella fase storica della rivoluzione borghese, hanno avuto una valenza positiva perché rappresentavano la lotta politica per l'unità nazionale contro lo spezzettamento in tanti staterelli ad economia chiusa, lotta nella quale tutte le classi sociali sottoposte al dominio dell'aristocrazia nobiliare - il famoso "popolo" - venivano violentamente coinvolte nella lotta armata per abbattere i vecchi poteri e per aprire la via alla nuova società borghese, allo sviluppo delle forze produttive, al libero commercio, al mercato nazionale, alla violenta proletarizzazione delle masse contadine, insomma al capitalismo. Ma il progresso dell'industria, lo sviluppo del capitalismo in alcuni paesi prima che nel resto del mondo e la creazione del mercato mondiale - dunque lo sviluppo ineguale del capitalismo - ha ingigantito le differenze tra i diversi paesi, trasformando alcuni paesi, a cominciare dall'Inghilterra e la Francia, gli Stati Uniti, la Germania, l'Italia ecc. in paesi imperialisti nel senso leninista del termine, ossia paesi che avevano formato nel tempo, sullo sviluppo industriale e commerciale, una potenza economica in grado di conquistare, e dominare, i mercati esteri trasformando progressivamente il vecchio colonialismo con massiccia presenza militare nel nuovo colonialismo finanziario.

Ma per la borghesia inglese o tedesca, americana, russa o francese, italiana o spagnola, la propria patria imperialista ha lo stesso valore ideologico, morale, di principio di patria come l'India per la borghesia indiana, il Vietnam per la borghesia vietnamita, il Sudafrica per la borghesia sudafricana, la Cina per la borghesia cinese, l'Ucraìna per la borghesia ucraina e così per tutti i paesi del mondo. Ciò che cambia tra i paesi imperialisti, le grandi potenze che dominano il mercato mondiale e tutti gli altri paesi, non è nel concetto ideologico di patria, di nazione, che ad ogni borghesia nazionale serve come catalizzatore per attirare a sé le grandi masse proletarie e contadine, ma nella forza economica che li distingue: forza economica che fa da base alla forza politica e che si esprime nella forza militare.

Che la borghesia di ogni paese abbia cercato e cerchi sempre di attirare a sé il proletariato per poterlo mobilitare in tempo di pace, per combattere la concorrenza, a sostenete con i propri sacrifici lo sforzo economico nella crescita o nella recessione e nella crisi e, in tempo di guerra, a sostenere con i propri sacrifici lo scontro con le forze armate dei paesi nemici, è un fatto incontrovertibile. La classe borghese non riuscirebbe a sacrificare per i propri interessi di classe e di potere le masse proletarie contando soltanto sul ricatto economico; deve influenzarle ideologicamente, deve dare alle masse delle finalità ideali per le quali esse siano disposte a sacrificarsi molto ma molto di più che sotto il semplice e crudo scudiscio che il padrone usa sulla schiena dello schiavo. La borghesia, per raggiungere i propri fini politici deve mettere in movimento tutto il proletariato, come afferma il Manifesto di Marx ed Engels, perciò il proletariato acquisisce non solo forza perché diventa sempre più numeroso e concentrato nelle fabbriche, ma anche perché acquisisce esperienza politica. Dunque, la borghesia deve affinare l'arte dell'influenza ideologica e politica sulle masse proletarie per mantenere la possibilità di mobilitarle per i propri fini politici, dunque anche economici e militari, nelle diverse situazioni di concorrenza che si presentano. E il metodo democratico si è dimostrato, a questo scopo, il più efficace, tanto che a distanza di oltre centocinquant'anni dalle prime rivoluzioni, in cui il proletariato dimostrò di avere sue proprie finalità storiche, funziona ancora.

Nazione e democrazia, formidabile abbinata ideologica e, nello stesso tempo, demagogica, ancora carica, però, di forza, nonostante la successione tremenda di crisi economiche e di guerre che hanno punteggiato, e punteggiano ancora, il progresso del capitalismo. Due guerre mondiali con decine di milioni di morti, guerre locali nelle diverse zone di contrasti interimperialistici con altrettanti milioni di morti, crisi economiche micidiali con centinaia di migliaia di morti e profughi dalla miseria, dalla carestia, dalla fame: il capitalismo, dal folgorante sviluppo dell'Ottocento è passato ad immiserire in modo devastante miliardi di esseri umani dal Novecento in poi. Quale futuro aveva propugnato la classe borghese quando alzò le bandiere della Libertà, dell'Eguaglianza, della Fraternità? Quali Diritti, quale Progresso? In quale Patria le masse proletarie dovrebbero trovare pace, libertà, eguaglianza?

La borghesia, dalla rivoluzione francese in poi, ha al suo attivo 225 anni di sviluppo capitalistico. Il progresso industriale in molti paesi c'è stato e le masse proletarie soffrono per troppo capitalismo; in moltissimi altri paesi le masse proletarie e contadine soffrono, invece, per mancanza di sviluppo capitalistico perché le economie precedenti distrutte dal dominio capitalistico nel mondo non sono state sostituite con un adeguato sviluppo industriale. La divisione internazionale del lavoro creata dal capitalismo produce sempre più diseguaglianze e sviluppo ineguale che, a causa delle crisi economiche capitalistiche, si acuiscono perchè il capitalismo supera le sue crisi solo alla condizione di creare ulteriori fattori di crisi ancor più acuti e devastanti dei precedenti, fino alle crisi di guerra.

Dunque, nella società borghese, più progresso industriale, più sviluppo, più mercato, insomma più capitalismo significa più contrasti interborghesi, più contraddizioni sociali, rapporti più antagonisti tra le classi.

In questa curva di sviluppo delle contraddizioni, curva che tende ad innalzarsi verso apici sempre più insostenibili, aumenta inevitabilmente la contraddizione fra la produzione per aziende - tipica del capitalismo anche il più sviluppato - e il necessario passaggio nel mercato per poter valorizzare i capitali investiti: si urtano in modo sempre più acuto la perfetta organizzazione della produzione nelle singole aziende e lo sbocco della produzione nel mercato dove vige la concorrenza più selvaggia. Tra i due fattori economici, è l'anarchia del mercato che la vince, decretando in pratica l'impossibilità da parte borghese di dominare un modo di produzione che in realtà sfugge completamente al suo controllo. E sfugge al suo controllo a tal punto che, in corrispondenza del massimo sviluppo industriale e nonostante le innovazioni tecniche applicate ad ogni sorta di produzione, sono le stesse crisi di mercato che spingono frazioni della stessa borghesia "nazionale" a scontrarsi fra di loro rivendicando il "diritto" a difendere localmente, settorialmente, in territori circoscritti, i propri interessi parziali contro gli interessi generali e "nazionali". I particolarismi, i campanilismi, cari all'epoca pre-capitalistica, che si davano per sconfitti per sempre una volta raggiunta la sistemazione nazionale, rinascono e si ripropongono pur nelle moderne forme borghesi. Il nazionalismo classico, unitario, indipendentista e repubblicano, che la borghesia rivoluzionaria contrapponeva ai regimi autocratici e monarchici, non solo si è trasformato nello sciovinismo, infettando in modo sensibile anche le grandi masse proletarie, ma ha fatto da base ideologica anche ai più meschini particolarismi. Per l'Italia basti pensare alla vecchia rivendicazione della popolazione dell'Alto Adige che si considera Sud Tirolo, perciò più austriaco che italiano, o alla più recente rivendicazione indipendentista del Veneto, se non quella più confusa e vuota della Padania.

Ogni rivendicazione di questo tipo si richiama alla democrazia, ad una "sovranità popolare", alla libertà di "decidere autonomamente" quale sistemazione accettare o cambiare; si richiama, quindi, allo stesso "diritto" al quale si richiamano coloro che rivendicano invece l'unità nazionale, la lingua nazionale, le stesse origini, la stessa razza, la stessa moneta, la comunanza di valori, la comunità di cittadini, il sangue versato nelle guerre per l'indipendenza nazionale ecc. ecc. In definitiva, i valori che la classe borghese propaganda come valori comuni,. valori, generali, valori che starebbero al di sopra di ogni differenza di classe e sociale, sono concezioni e idealità finalizzate esclusivamente a nobilitare la cruda e cinica realtà capitalistica fatta di antagonismi sociali, di miseria accumulatasi nella stragrande maggioranza della popolazione, e in particolare nel proletariato e di ricchezza posseduta, e difesa strenuamente, dalla minoranza borghese della popolazione.

Il proletariato, i senza riserve, i senza patria, i senza futuro nella società attaule se non quello di una perenne schiavitù sociale, nel suo movimento storico di lotta per emanciparsi da questa schiavitù, rappresenta già nella società borghese l'unica alternativa alla soluzione di tutte le sue contraddizioni e i suoi contrasti. E' proprio per la sua condizione materiale di senza riserve, di senza patria e di senza futuro nella società borghese, e di unico fattore della produzione che, grazie allo sfruttamento capitalistico della sua forza lavoro, valorizza il capitale investito producendo il profitto capitalistico che i borghesi intascano per il solo fatto di essere i proprietari dei mezzi di produzione, dei capitali investiti e della produzione sociale; è proprio per questa sua condizione materiale che il proletariato, immerso in rapporti sociali e di produzione che scavalcano sistematicamente i confini delle aziende e delle nazioni, è oggettivamente classe internazionale.

Il proletariatio è, perciò, l'unica classe che può assumersi il compito di indirizzare lo sviluppo delle forze produttive in una direzione completamente opposta a quella borghese, la direzione della soddisfazione dei bisogni di vita e di sviluppo della specie umana contro la direzione del capitalismo teso a soddisfare i bisogni del mercato e della valorizzazione del capitale!

La classe borghese dominante vive e sviluppa la sua forza e il suo potere negli antagonismi sociali: non cessa mai di lottare contro la borghesia concorrente o contro la classe contrapposta. Essa diventa più forte nei confronti delle borghesie straniere nella misura in cui riesce a farsi sostenere dalla classe del proletariato. Perciò investe risorse ed energie sociali nelle forze che possono influenzare il proletariato a proprio favore. L'opportunismo, infatti, gode dell'influenza sul proletariato non perché abbia trovato il modo di aprire le coscienze proletarie ai valori borghesi della libertà, della democrazia, della pace, della patria, ma perché, in genere, ottiene determinati risultati economici a favore del proletariato o di sue frazioni costituendo su di essi la base materiale della sua influenza. Gli ammortizzatori sociali, ossia quel sistema di protezioni e di "garanzie" - come la pensione, la cassa integrazione, la maternità, la previdenza sugli infortuni e sulle malattie, le ferie ecc. - su cui i proletari dei paesi industrializzati possono ancora contare, costituiscono certamente una base materiale che in qualche modo li lega all'andamento economico delle aziende e dell'economia nazionale; difendendo il buon andamento dell'economia aziendale e dell'economia nazionale, l'opportunismo fa credere ai proletari che essi difendono la propria vita solo col salario e il sistema di ammortizzatori sociali che intervengono nelle situazioni critiche. L'opportunismo opera quindi per la conservazione del sistema salariale, quindi del capitalismo a tutto beneficio degli interessi borghesi e dell'economia nazionale. In pratica, questa "lotta" viene opposta alla lotta operaia che deve invece difendere gli interessi proletari immediati, con metodi che non tengano in alcun conto gli interessi delle aziende semplicemente perché sono gli interessi dei capitalisti, perciò con metodi che non dipendono dalla conciliazione delle esigenze padronali e proletarie.

Con la stessa impostazione della conciliazione degli interessi padronali e proletari, l'opportunismo raccoglie le indicazioni borghesi a difesa dei valori più generali come appunto la patria, l'indipendenza nazionale, la legalità, la democrazia ecc., mantenendo o riportando il proletariato sotto la tutela dello Stato e della classe dominante borghese, attuando in questo modo la sua opera di asservimento del proletariato alle forze della conservazione capitalistica.

Il proletariato, in realtà, seguendo la spinta materiale che riceve dalle sue stesse condizioni di esistenza, dalle sue condizioni di schiavitù salariale, ha trovato nel passato la forza non solo di lottare per difendersi dagli attacchi sistematici della classe borghese, ma anche la forza di portarsi sul terreno dello scontro di classe a livello politico, e perciò sul terreno della lotta per l'emancipazione dal giogo capitalistico.

La forza del proletariato è nell'essere una classe sociale internazionale, perché sotto ogni cielo è nelle stesse condizioni di senza riserve, senza patria, senza futuro nella società borghese. La storia stessa delle sue lotte dimostra che, giunta la situazione ad un certo livello di tensione e di crisi sociale, il proletariato rompe il "patto di solidarietà" con la borghesia che le forze opportuniste e collaborazioniste hanno sottoscritto in suo nome, costringendolo con il ricatto economico e sociale a rispettarlo, e agisce come classe indipendente dalla borghesia e dalle forze di conservazione, come classe per sé che lotta per la propria emancipazione dal capitalismo contro tutte le altre classi e gli altri strati sociali che invece hanno interesse al mantenimento del regime borghese e del lavoro salariato perché vivono esclusivamente sullo sfruttamento del lavoro salariato.

Allora, gli antagonismi nazionali su cui giocano sistematicamente le borghesie di ogni paese, sia quelle che colonizzano sia quelle che vengono colonizzate, possono trovare una soluzione alla quale solo il proletariato può portare: l'unione dei proletari di ogni nazione, di ogni nazionalità, di ogni razza, nell'unica lotta che ha per obiettivo il superamento di ogni antagonismo sociale, la lotta di classe che apre la via alla rivoluzione proletaria, all'abbattimento del potere politico borghese con il quale il capitalismo si mantiene in vita, e alla dittatura del proletariato che serve sia per combattere e vincere i tentativi della borghesia di riprendersi il potere sia per iniziare a distruggere i rapporti di proprietà e di produzione borghesi pur continuando la lotta rivoluzionaria a livello internazionale.

La rottura della "solidarietà nazionale", tanto cara ai borghesi e agli opportunisti, è un passo decisivo nella direzione dell'indipendenza di classe proletaria. Il proletariato giungerà a questa rottura attraverso una lunga serie di esperienze negative e di sconfitte parziali; dovrà superare ostacoli notevoli di ordine sociale e politico perché deve scardinare l'opera pluridecennale delle forze opportuniste e le abitudini a genuflettersi sistematicamente alle esigenze dei capitalisti prima di avanzare anche una semplice ed elementare rivendicazione per sé. Dovrà lottare anche nelle proprie file, contro gli strati arretrati ma anche contro gli strati più privilegiati dell'aristocrazia operaia che sono i più legati alla borghesia e i più interessati al mantenimento della "solidarietà nazionale" da cui essi traggono, a spese del resto del proletariato, i loro piccoli privilegi.

La lotta di classe, per il proletariato, si svolgerà contro molti nemici, dichiarati e ben mimetizzati, ma chiarirà inevitabilmente il ruolo di tutti gli strati sociali e delle classi che sono le vere protagoniste: la classe borghese, la classe dei capitalisti e dei proprietari fondiari e la classe del proletariato. Classe contro classe, non nazione contro nazione, non guerra tra Stati.

Nella lotta di classe, il proletariato di un paese riconosce qualsiasi proletariato di ogni altro paese come proprio alleato, come proprio fratello di classe, perché ciascuno di loro combatte la stessa classe nemica, la classe borghese, partendo dalle stesse condizioni materiali di vita. Il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels afferma che la lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. Lotta nazionale non per l'indipendenza nazionale, non per portare al potere la borghesia o per conservarle il potere; lotta, in un primo tempo, nei confini nazionali, lotta contro la propria borghesia nazionale, contro gli sfruttatori diretti, che hanno immediato potere di vita e di morte sui lavoratori salariati che sfruttano, che mettono uno contro l'altro, che puniscono e sanzionano se vanno contro gli interessi padronali, che licenziano, che reprimono nelle aziende in cui li sfruttano o che li fanno reprimere dalle forze del loro ordine quando lottano e manifestano con vigore a propria difesa, che mettono in carcere se non rispettano le leggi borghesi, che irreggimentano negli eserciti mandandoli a morire nelle guerre di rapina che le borghesie si fanno per la supremazia nel mercato mondiale. E' naturale, continua il Manifesto, che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia.

Infatti la lotta di classe del proletariato ha le sue basi nella lotta in difesa delle sue condizioni di esistenza immediate, partendo quindi dalla lotta nella singola azienda o nel singolo settore per poi ampliarla, dalla lotta per il salario, per la diminuzione della giornata lavorativa, contro gli infortuni, contro la nocività, contro i licenziamenti ecc., fino alla lotta insieme ai proletari di tutte le categorie, occupati e disoccupati, autoctoni e immigrati; dunque in un crescendo, lottando contro la reazione dei padroni e contro la repressione poliziesca; la lotta proletaria, basata su organizzazioni classiste e portata avanti con metodi e mezzi classisti per obiettivi proletari di classe, si scontra inevitabilmente con lo Stato borghese, diventa lotta politica. La lotta di classe è lotta politica, e trova la sua rotta nell'indirizzo programmatico dato dal partito politico di classe del proletariato, il partito comunista, quel partito per il quale Marx ed Engels hanno scritto il Manifesto nel 1848.

Il proletariato, come classe per il capitale, difende con la lotta le sue condizioni di lavoratore salariato per migliorarle all'interno della società borghese. Ma è proprio questa lotta, se condotta con mezzi e metodi di classe, quindi a difesa esclusiva dei suoi interessi immediati di classe, che incontra la resistenza e la reazione violenta della classe borghese che non intende perdere il controllo, l'influenza e il dominio sul proletariato, alzando il livello dello scontro e accettandolo come scontro tra classi contrapposte, portandolo inesorabilmente sul terreno politico.

Il proletariato impara dalla sua lotta, si educa alla lotta lottando, sbagliando, subendo sconfitte, riorganizzandosi per lottare con più efficacia e con più forza. La sua lotta per la sopravvivenza diventa più dura nella misura in cui le condizioni di sopravvivenza si fanno più dure e pesanti; non è automatico che la durezza della lotta faccia fare dei passi avanti al proletariato, ma lo mette nelle condizioni di cercare una guida,un indirizzo politico più generale, in grado di chiarirgli la strada da imboccare per utilizzare al meglio la sua forza sociale. Il partito comunista rivoluzionario è la guida che il proletariato cerca per dare alla sua lotta di emancipazione un obiettivo visibile, una certezza politica sui passaggi da attraversare, una risposta anticipata ai problemi che incontrerà nella guerra di classe scatenata contro la borghesia.

Il proletariato, lottando per la propria esistenza contro la borghesia si accorge facilmente che le sue condizioni di schiavo salariato sono le stesse in ogni paese, in America come in Russia, in Germania come in Sudafrica, in Brasile come in Francia o in Gran Bretagna, in Algeria come in Spagna, in Iran come in Cina o in India, in Giappone come nelle Filippine o in Argentina e così in ogni paese. Ma, in ogni paese, oltre a subire lo stesso tipo di violenza economica e di dispotismo sociale, subisce l'opera opportunista di partiti e sindacati che lo legano alle caratteristiche e agli interessi nazionali della propria borghesia, e di questo legame si fanno forti per costringerlo a sacrificarsi a favore dell'economia e dello Stato nazionale. E' proprio lo sviluppo dell'industria e, quindi, del capitalismo che annulla del tutto ogni carattere nazionale al lavoro salariato; l'unica differenza tra paese e paese che ci può essere è nel prezzo della forza lavoro, non nel rapporto di produzione tra capitale e lavoro salariato. Perciò il proletariato, spogliato del carattere nazionale grazie al rapporto tra capitale e lavoro salariato, è di fatto classe internazionale. Per la prima volta nelle società divise in classi si è creata una classe la cui caratteristica principale è di essere internazionale, opposta alla classe borghese che, pur avendo diffuso il modo di produzione capitalistico dall'Europa in tutto il mondo, resta però una classe nazionale, i cui rapporti di proprietà e di produzione la legano soprattutto al territorio nazionale e allo Stato nazionale che ne difende gli interessi con le leggi e con le armi, sia contro le borghesia straniere, sia contro le frazioni borghesi nazionali più deboli e contro gli strati della piccola e media borghesia, sia contro il proletariato.

L'ideologia borghese è fondamentalmente un'ideologia nazionale e si serve del concetto di patria, di difesa della patria, sia in periodi di pace sia in periodi di guerra al fine di influenzare e mobilitare le masse proletarie a sostenere le lotta di concorrenza della borghesia nazionale contro le borghesie straniere, lotta di concorrenza che sfociano, ad un certo punto di tensione e quando i mezzi politici, diplomatici ed economici non sono sufficienti a difendere gli interessi borghesi nazionali, inevitabil mente in guerre guerreggiate. L'epoca moderna, superato il periodo storico delle guerre borghesi contro le forze feudali e volte a dare il massimo sviluppo alle forze produttive, e delle guerre di sistemazione nazionale dei paesi più importanti, è l'epoca delle guerre imperialiste, l'epoca delle guerre di rapina, delle guerre, come affermava Lenin, di padroni di schiavi per il mantenimento della schiavitù, della schiavitù salariale.

Con la guerra franco-prussiana del 1870, nella quale la borghesia francese, per salvare il proprio privilegio di classe, manovrava di noscosto con il nemico prussiano per schiacciare "la canaglia rivoluzionaria di Parigi", e l'insurrezione del proletariato parigino con la Comune di Parigi, dirà Marx: il predominio di classe non è più in condizione di nascondersi sotto un'uniforme nazionale. I governi nazionali sotto tutti confederati contro il proletariato. Con la guerra mondiale del 1914-18, ogni guerra imperialista, sia essa regionale o mondiale, non è che una guerra di rapina, una guerra con la quale le borghesie cercano di risolvere le crisi del loro sistema sociale a spese del proletariato e dei popoli oppressi.

Il mondo, nell'epoca dell'imperialismo borghese, è un mondo in cui la lotta di concorrenza, e i contrasti per la conquista e il mantenimento dei mercati di sbocco delle merci e dei capitali nazionali, invece di diminuire e appianarsi sono aumentati a tal punto che, dalla fine della seconda guerra mondiale, è diventato normale che in qualche parte del pianeta scoppiasse una guerra, tanto da non far passare mai un anno intero di pace generale in tutto il mondo. Vi sono state guerre di "liberazione nazionale" volte a liberarsi dei vecchi colonialismi e per l'agognata indipendenza nazionale, dall'Egitto all'Algeria, dal Congo al Vietnam; guerre che hanno aperto economie naturali, di tipo asiatico e precapitalistiche all'incedere del capitalismo moderno il quale, pur nel suo sviluppo parziale e frenato, ha comunque trasformato enormi masse di contadini e di artigiani in enormi masse di proletari.

Il cammino inesorabile del capitalismo non può non produrre i moderni schiavi, i lavoratori salariati, i senza riserve, i senza patria, i senza futuro nella società borghese. Se il proletariato era classe internazionale già a metà dell'Ottocento, lo è ancor più oggi che lo sviluppo industriale, del commercio, dei trasporti, delle comunicazioni e del capitale finanziario ha ridotto moltissimo le distanze fra i paesi e le loro popolazioni. E queste distanze vengono ancor più ridotte a causa delle crisi economiche che il capitalismo non può risolvere e che, anzi, acutizza e allarga sempre più; se nella borsa di Chicago le azioni dei grandi trust dei cereali perdono alcuni punti, ne risente il mondo intero e soprattutto i paesi produttori di cereali, così come se nella borsa di New York le azioni dei grandi trust industriali o delle grandi banche cedono anche solo di mezzo punto ne risente l'economia mondiale. Che vuol dire questo se non che la classe borghese di ogni nazione, anche delle nazioni più potenti, è succube delle leggi del mercato, di quel mercato nazionale e, soprattutto, mondiale, al quale affida la sorte della sua economia?

La borghesia, da un lato, è costretta dal movimento storico delle forze produttive a svilupparle sempre più, dall'altro, a causa dei suoi rapporti di proprietà e di produzione, per mantenere il potere politico e sociale sulla società intera, e in particolare sulla classe proletaria, è costretta a frenare, chiudere, inaridire questo sviluppo. Ma ogni tentativo che la borghesia mette in opera per rimediare alle contraddizioni del suo sistema economico e sociale, se tampona nell'immediato la situazione di crisi non riesce però ad evitare che si costituiscano fattori di crisi più potenti che la faranno scoppiare successivamente.

Il proletariato non ha coscienza di questa situazione, non è nemmeno consapevole della forza sociale che possiede intossicato com'è di democrazia, solidarietà nazionale, collaborazione di classe. Ma è una forza che esiste e che, nonostante l'opera sistematica di frammentazione e divisione condotta dalle classi borghesi e dalle forze di conservazione tra cui primeggiano le forze opportuniste, tende ad unirsi per difendersi più efficacemente dalla pressione e dalla repressione delle forze borghesi.

La coscienza del movimento storico delle classi, della loro lotta e dello sbocco storico della lotta fra le classi, non ce l'ha il proletariato in quanto classe per il capitale, e non ce l'ha nemmeno la borghesia in quanto classe dominante; ce l'ha soltanto il partito politico del proletariato, il partito comunista che basa la sua azione e la sua esistenza sulla teoria marxista, sulla teoria della rivoluzione e della dittatura proletarie portate fino in fondo, fino alla completa distruzione del capitalismo come modo di produzione e delle forme di potere della borghesia a partire dallo Stato centrale.

Se la classe proletaria ha perso il suo carattere nazionale diventando materialmente classe internazionale, il suo partito politico di classe non può rispondere ad una identità nazionale, non è caratterizzato da un programma nazionale. Come il proletariato, il partito si organizza e lotta, in un primo momento e solo formalmente, nell'ambito nazionale in cui si è formato, ma è il programma politico che lo definisce e la teoria del comunismo rivoluzionario da cui questo programma discende che lo pone sul piano internazionale.

Non a caso il Manifesto del partito comunista è stato scritto per la Prima Internazionale degli operai, non a caso il Manifesto si chiude con l'appello Proletari di tutti paesi, unitevi!, in realtà più un grido di guerra, della guerra di classe contro le classi borghesi di tutto il mondo, che un appello organizzativo. I governi nazionali, gli Stati nazionali, le classi borghesi nazionali hanno dimostrato con i fatti - come insegna la Comune di Parigi - che il nazionalismo di cui impregnano la loro propaganda e l'opera di influenza delle masse proletarie, è un inganno usato al solo scopo di soggiogare il proletariato ai propri interessi e di deviarlo dalla linea politica comunista, e internazionalista, che risponde invece agli interessi storici della classe del proletariato perché dal rovesciamento violento dell'attuale ordinamento sociale, dunque della società borghese, esso ha da perdervi solo le sue catene e ha un mondo da guadagnare.


La borghesia sa che le crisi economiche capitalistiche la porteranno inevitabilmente alla guerra, e alla guerra ogni borghesia nazionale ha interesse ad arrivarci preparata per uscirne vincente o, comunque, per poterne trarre il maggior profitto possibile. Perciò essa, debilitandolo politicamente e sindacalmente, cerca di ottenere dal proletariato l'accettazione più o meno convinta, più o meno forzata, della difesa della patria che oggi la si attua difendendo le aziende e l'economia nazionale, domani sui campi di battaglia continuando a sacrificare la propria vita dopo averla sacrificata nelle fabbriche e nei campi.

Contro il nazionalismo, il particolarismo, il campanilismo, i proletari non hanno bisogno di una ideologia diversa: devono semplicemente riconoscere le proprie condizioni di schiavi salariati, condizioni uguali per ogni proletario di qualsiasi paese, e lottare contro i borghesi, a partire dal paese in cui vengono sfruttati, per strappare loro il potere con cui li schiacciano opprimendoli. Organizzarsi per questa lotta significa organizzarsi con mezzi e metodi di classe, dandosi obiettivi di classe e, quindi, mettersi nelle condizioni di incontrare il partito politico di classe.

L'internazionalismo proletario affonda le sue radici nella lotta di classe che il proletariato conduce contro la borghesia, fin dalla fabbrica in cui viene sfruttato, ma nella prospettiva dell'emancipazione dal capitalismo.

Partito comunista internazionale

fonte: pcint.org
 

Continua il supersfruttamento dei lavoratori nel gruppo Jabil fornitore di Apple

Inchiesta di China Labor Watch sulle fabbriche cinesi del gruppo americano Jabil a Wuxi, in Cina, che producono i coperchi di iPhone 6. L’inchiesta è stata condotta tramite investigatori che sono entrati come operai nella fabbrica Jabil Green Point.

Orario di lavoro settimanale che arriva fino a 77 ore, straordinari accumulati fino a 158 ore (quattro volte le 36 ore previste dalla legge cinese) con un salario ancora inferiore alla media locale; insicurezza delle condizioni di lavoro.
Diverse le violazioni rilevate, discriminazione nelle assunzioni contro donne incinta, minoranze etniche, bustarelle per le assunzioni, mancanza di preparazione per la sicurezza con falsificazione della certificazione a riguardo, ambiente di lavoro insalubre, e mancanza di sicurezza sul lavoro, obbligo di straordinari eccessivi, pause abbreviate, condizioni di vita miserevoli, e dipendenza da un alto numero di straordinari per guadagnare un salario vitale.
Le condizioni risultanti dall’inchiesta del 2014 non sono diverse, anzi forse peggiori, di quelle rilevate nel 2013: gli straordinari obbligatori richiesti arrivano fino a 158 ore. Da una parte Apple continua a migliorare i propri prodotti, le condizioni di lavoro di chi li produce non migliorano.
Il gruppo
Jabil Green Point dello Wuxi è stato fondato nel 2005, e si trova nella Zona di Nuova Tecnologia Nazionale e di Sviluppo Industriale di Wuxi, nella provincia di Jingsu. È una filiale di proprietà del gruppo americano Jabil, che produce prodotti di servizi elettronici commissionati da grandi gruppi dell’elettronica. Il gruppo comprende 3 distretti di produzione, Green Point, Green Xin e Green Mei.
Gli investimenti complessivi sono finora pari a $407 mn.; quando i siti di produzione saranno terminati occuperanno circa 30 000 salariati.
Reclutamento e assunzioni
L’agenzia per l’impiego locale che fornisce lavoratori a Jabil, riceve una commissione più alta di quella fornita da altre società, pari a circa $244, che oscilla dai $130 ai $407, a seconda del della domanda di lavoro nel corso dell’anno. I lavoratori assunti pensano che la commissione richiesta all’azienda rifletta buone condizioni di lavoro nella fabbrica, in realtà è una quota dell’alta quota di plusvalore che verrà da loro estratto.
Per essere assunti i lavoratori devono sottoporsi ad un colloquio di lavoro e a una visita fisica, pagare all’agenzia una parcella seguire un corso di orientamento di una giornata, rispondere ad un questionario; al secondo giorno di lavoro ricevono il contratto di lavoro.
L’agenzia non fa assumere donne incinta o operai di minoranze etniche, come uiguri o tibetani.
Ambiente di lavoro e sicurezza
Aria impregnata di vapori di benzina usata per la produzione dei coperchi in metallo dei cellulari. La benzina impegna anche vestiti,e capelli e pelle dei lavoratori; benzina che ricopre il pavimento e che gocciola anche da sopra le teste; forti rumori dei macchinari.
Data la forte domanda, viene utilizzato per la produzione anche un edificio ancora in costruzione, con impalcature e gru e vari macchinari edili e rifiuti ancora sul posto, che rendono insicuro l’ambiente; osservati anche crolli di parti del soffitto.
Igiene, condizioni di lavoro
Mancanza di igiene nel self service; scorie di metallo, acqua sporca sul pavimento dei vialetti, sdrucciolosi.
Sono pochi i lavoratori a lungo termine perché la maggior parte dei lavoratori non riesce a sopportare a lungo l’intensità del lavoro e la pressione dei capi, che vietano loro di parlare con i compagni. Se viene rilevato un prodotto difettoso i lavoratori vengono multati; ai lavoratori vengono assegnate quote di produzione; se queste quote sono alte le linee di produzione sono strapiene di pezzi, che impediscono la fluidità del lavoro.
Se la produzione lo richiede non vengono rispettate le pause  di 10 minuti ogni due ore di lavoro prescritte dal contratto.
Sono previsti due pasti al self service durante un turno di 12 ore, costo $1,2 ognuno; il cibo non consumato può essere asportato; se un lavoratore ne vuole meno la parte mancante viene compensata su una tessera aziendale, che può essere usata per comperare altro nella fabbrica, ad es. latte o frutta. A fine mese però la tessera viene azzerata, e il lavoratore perde il valore azzerato.
La fabbrica fornisce gli alloggi ai lavoratori di alcuni siti, si tratta di dormitori che ospitano 8 persone e hanno un servizio igienico comune, l’acqua calda non è sufficiente; non è fornita acqua potabile, che i lavoratori devono comperarsi. Non sempre gli occupanti dell’alloggio hanno lo stesso turno di lavoro …
Salari e integrazioni
Dalla tabella salariale di un lavoratore di Jabil: con 90 ore di straordinario nel mese di agosto (dovevano essere di più ma è andato in ferie) il salario lordo è stato di $570, dedotte previdenza sociale, affitto e servizi, il salario netto è di circa $488. Metà o più del salario proviene dagli straordinari.
Il salario medio mensile di Wuxi nel 2013 era di $773, per avere un salario inferiore del 15-25% alla media locale, i lavoratori di Jabil devono fare turni di 12 ore per sei o sette giorni la settimana.
I salari mensili di Jabil consistono in una paga base ($277), un bonus di produttività (variabile…), un bonus riferito alle quote di produzione (variabile tra i $12 e i $16); un bonus di piena presenza ($16); gli straordinari (retribuiti in base alla legge), ci sono maggiorazioni per il turno notturno ($1,62 per notte), per l’anzianità di servizio ($19,5 dopo 4 anni).
I salariati di Jabil non ricevono probabilmente la previdenza sociale come previsto dalla legge (10,5% viene versato dal salario lordo, e 31,5% del salario lordo deve essere pagato dal padrone), il che significa salario non pagato che potrebbe equivalere a centinaia di migliaia di $ al mese.
Orario e permessi
Gli accordi contrattuali della fabbrica prevedono 6 giorni di lavoro e uno di riposto; ogni turno dura 12 ore: 2 ore per pause pranzo, e due ore sono straordinari obbligatori, 8 ore di lavoro ordinario.
In realtà i salariati di Jabil sono costretti a accumulare 100-158 ore di straordinari al mese, equivalenti a 2-4 volte il limite per legge di 36 ore. Dopo l’estate la direzione aziendale ha comunicato la possibilità di lavorare anche nei giorni di riposo, domenica compresa, e molti lavoratori l’hanno fatto.
Il carico di lavoro è aumentato e le pause di 1 ora per i pasti sono state tagliate a ½ ora. Risultato: ora i lavoratori lavorano per 11 ore al giorno, sei sette giorni la settimana, per rispondere alla forte domanda di iPhones.
Se un lavoratore chiede un permesso per riposare, quando, e non sempre, il permesso viene concesso, viene dedotta una quota del salario.
Per un permesso per motivi di salute il lavoratore deve presentarsi in una struttura ospedaliera e riempire un modulo; se le formalità non sono espletate in modo corretto l’assenza non è giustificata e viene dedotta dal salario.
Premi e punizioni
Sono previste 8 situazioni che meritano un premio, ma di fatto i lavoratori non ne ricevono mai.
Sono previste punizioni in caso di violazione delle regole o di revoca del contratto; i capo reparti valutano il comportamento dei lavoratori. I lavoratori possono presentare reclamo o a voce o per telefono, e i reclami vengono pubblicati nella bacheca del self service; nessuno dei lavoratori intervistati l’ha però mai fatto.
Dimissioni
Un lavoratore non ha il diritto di dimettersi se le dimissioni non vengono accettate dal capo-reparto, cosa che succede quasi sempre. Il che significa che, se se ne va ugualmente, non gli vengono riconosciute le spettanze.

Le origini storiche dell’indipendentismo curdo

 
 I curdi, che ritengono di discendere dagli antichi Medi, vivono in Medio Oriente almeno dal II millennio a.C. La parola kurd significa nomade ed era il nome dato loro dai popoli vicini. In realtà non tutti i kurdi erano nomadi, ma solo gli allevatori delle aree montane, perché esistevano anche curdi dediti all’agricoltura e sedentari. Per un lungo periodo conservarono una struttura sociale legata al clan gentilizio, tenuto insieme da legami tribali e dominato da principi guerrieri e razziatori (il furto era tenuto in alto pregio, come presso i greci antichi la pirateria).
Parlano una lingua indoeuropea, del gruppo iranico, simile all’armeno; esiste una tradizione poetica antichissima (tramandata oralmente e distinta tribù per tribù).
Solo intorno al 1500 d.C. si cominciò a scrivere il curdo e vennero utilizzati gli alfabeti esistenti dove le singole tribù vivevano: alfabeto latino, alfabeto arabo in Iraq e Siria, alfabeto persiano in Iran; oggi alfabeto cirillico nelle aree ex sovietiche. È la lingua oltre che le tradizioni a identificare il popolo curdo.
Nel settimo secolo d.C. si convertirono all’Islam, ma restarono comunità cristiane. Inoltre l’Islam curdo è stato spesso considerato eretico per le influenze dello zoroastrismo.
Fino alla prima guerra mondiale vissero parte in Persia, nell’area dei monti Zagros e parte a cavallo fra l’Anatolia e il Caucaso. Dopo il 1000 esistette una nazione curda indipendente (che espresse a quanto pare anche il famoso Saladino) e che fu poi assorbita dall’impero ottomano intorno al 1500. In quest’epoca escono dall’anonimato storico e vengono identificati come popolo a sé in un libro del 1596, scritto in lingua persiana, intitolato “Fasti della nazione curda” in cui i curdi vengono definiti in contrapposizione ai turchi e ai persiani. Pur conservando una certa autonomia i curdi erano tenuti a fornire all’impero ottomano contingenti militari. La struttura sociale tribale nel tempo si “feudalizzò”, aumentando il potere dei principi curdi che erano contemporaneamente autorità politica e religiosa (sceicchi) e che accumularono estese proprietà terriere.
Nel corso dell’800, con la decadenza economica dell’Impero, il governo centrale fu costretto a imporre anche ai curdi tasse pesanti, che i principi non volevano pagare perché ledevano la loro autorità. Non fu per loro difficile organizzare la rivolta dei contadini, doppiamente irritati per il servizio militare obbligatorio per tutti e più lungo (fu abolito il corpo militare dei giannizzeri) e le nuove tasse. A metà dell’800 il sultano abolì i principati curdi, nel tentativo di centralizzare il potere; per ritorsione nel 1853 gli sceicchi curdi boicottarono la partecipazione alla guerra di Crimea; sia nel 1853 che durante la guerra russo turca del 1877 si ribellarono.
Nel 1880 la Gran Bretagna e in misura minore la Russia, fomentarono le rivolte curde sia dentro l’Impero ottomano che in Persia prospettando l’indipendenza del popolo turco; allettato da questa prospettiva lo sceicco Obeydullah attaccò la Persia e arrivò a conquistare Tabriz in Azerbaijan, sicuro della protezione russa, ma fu abbandonato al suo destino e catturato dagli ottomani.
Ai primi del ’900 il governo di Istanbul ritenne più utile cercare di assorbire gli strati dirigenti curdi nell’amministrazione assicurando loro carriere remunerative e privilegi in cambio di collaborazione nell’esercito e negli alti gradi della polizia. Sul modello dei Cosacchi, fu istituito il corpo degli “Hamidiyye“, forze irregolari curde, formate sulla base dell’organizzazione tribale. Queste truppe giuravano fedeltà al sultano e si “distinsero” nella repressione del movimento armeno (1896-1898), durante la quale furono massacrate decine di migliaia di persone. Erano soprattutto i proprietari terrieri a fare questa scelta anche perché il tema della obbedienza in nome della Umma islamica garantiva il potere del sultano ma anche il loro potere rispetto ai contadini.
Nelle città invece, negli ambienti del commercio e dell’artigianato si forma in Kurdistan una intellighenzia moderna, che ha studiato per la maggior parte in Europa o a Istanbul, fautrice delle idee “progressiste” e patriottica. Altri intellettuali curdi ripongono le loro speranze nel movimento dei “Giovani Turchi”, che nel 1908 rovescia il sultano. Il clima di riforma degli anni successivi incentiva la formazione di circoli culturali e politici curdi che fanno propaganda per l’indipendenza. Ma la cosa resta limitata alle élites urbane e soprattutto non si traduce in organizzazione.
Ben presto il nazionalismo turco prende il sopravvento e tutte le iniziative curde represse.
Ma all’inizio della I guerra mondiale molti turchi rispondono al richiamo del sultano e si arruolano, tranne le tribù meridionali (area di Dersim). Nel 1912 il petrolio era stato scoperto dalla Turkish Petroleum Company a Kirkuk e Mosul, un’area che nel corso del conflitto fu occupata e rioccupata da turchi, russi e inglesi.
Il governo turco, d’altro canto, deportò per “ragioni di sicurezza” 700 mila curdi.
Le potenze dell’Intesa firmano segretamente nel 1916 l’accordo Sykes Picot che prevedeva una suddivisione del Kurdistan in tre zone d’influenza: 1) il Kurdistan occidentale assegnato alla Francia; 2) il Kurdistan settentrionale alla Russia; 3) il Kurdistan meridionale all’Inghilterra. Anche i capotribù curdi si riunirono nel luglio 1917 in Persia con emissari inglesi russi e francesi e molti garantirono di abbandonare al suo destino il governo turco morente in cambio della promessa dell’indipendenza. Scoppiata la Rivoluzione d’Ottobre furono gli inglesi a gestire i rapporti coi capotribù. I quali si spaccarono fra gli indipendentisti (guidati dalla famiglia Bedir Khan) e coloro che rimasero fedeli alle sorti della Turchia trasferendo la loro fedeltà dal sultano a Kemal Ataturk, pur aspirando all’autonomia dentro la Turchia (leader Saudi Kadir).
Si delinea un elemento fisso della protesta curda: i movimenti di protesta sono sempre saldamente dominati da sceicchi, che spesso e volentieri si contrappongono fra loro e in ogni caso si appoggiano o alla Turchia o a una potenza occidentale,
Dopo la prima guerra mondiale nel trattato di Sèvres del 1920, agli art.62-64 si riconosceva uno stato curdo autonomo i cui confini sarebbero stati poi definiti dalla Società delle Nazioni; non se ne fece nulla perché la guerra di indipendenza turca guidata da Kemal Ataturk costringe le potenze europee a un nuovo Trattato firmato a Losanna nel 1923, in cui i curdi vengono riassorbiti in quattro stati: Turchia, Iraq, Iran e Siria; minoranze restano in Afghanistan, Armenia e Azerbaijan… In Turchia i curdi vengono “cancellati”: proibita la lingua, cancellata ogni autonomia amministrativa dei villaggi, sottoposti a legge marziale. Buona parte della borghesia e dell’intellighenzia curda espatria in Europa. Il centro dove si concentrano gli attivisti del movimento separatista è Parigi.
Si calcola che fra il 1923 e il 1927 i due terzi del bilancio statale turco fu utilizzato per pagare i soldati che reprimevano i curdi.
Un Comitato d’indipendenza curda, che aveva assunto il nome Azadi (Libertà), promosse un incontro a Diyarbakir con le autorità turche per ottenere un margine di autonomia, ma Ataturk rifiutò qualsiasi mediazione perché riteneva che la soluzione definitiva per la questione curda fosse la turchizzazione forzata. Azadi fu ben presto controllato dagli “Hamidiyye”, che si distinguevano per il pesante sfruttamento dei contadini curdi e degli aleviti con cui i curdi convivevano.
 Nel 1925 scoppiò, forse su istigazione di infiltrati turchi, una rivolta a Piran guidata dallo sceicco Said, che sognava di far rivivere il Califfato e aveva il sostegno dell’intera tribù Zaza, ma non riuscì a coinvolgere le altre minoranze oppresse. I turchi impiegarono l’arma dei bombardamenti aerei contro i ribelli, che furono sconfitti e Said impiccato. Il governo turco ritenne Said responsabile di averlo indebolito nel momento in cui trattava per annettersi i pozzi petroliferi di Mosul e Kirkuk, che furono invece assegnati alla Mesopotamia britannica.
La rivolta non era stata preparata e non ebbe una grande eco nemmeno fra i curdi. Fu invece la legge marziale proclamata dal governo turco a risuscitare lo spirito di rivolta in tutta l’area curda diventando un elemento di coesione. Si tenne un congresso nella città libanese di Bihamdun per creare un’unica organizzazione curda. Il governo turco allarmato pose fine alle deportazioni e scarcerò parte dei detenuti politici; poi a sorpresa inviò 60 mila uomini contro quella che fu definita la “rivolta dell’Ararat”, che nel momento di massima estensione coinvolse almeno 20 mila combattenti curdi. L’esercito turco fu sconfitto e accettò di trattare: nel 1927 amnistiò 2 mila deportati e allentò la stretta militare sui villaggi curdi.
Nel 1929 i curdi persiani si uniscono alla rivolta. Questo porta i due governi di Persia e Turchia a stringere un accordo di collaborazione; in più la Turchia ottiene nel 1930 armi e copertura aerea dalla Russia sovietica, irritata per una rivolta curda in Azerbaijan. Il fronte di attacco turco nell’estate del 1930 è lungo 130 km. La politica del governo è di distruzione sistematica dei villaggi col massacro dell’intera popolazione. Il governo persiano consentì all’esercito turco di sconfinare nel suo territorio e colpire i curdi alle spalle. Nell’agosto 1930 la rivolta si estese ai curdi iracheni subito repressa dagli inglesi, che dal 1925 avevano ottenuto di aggregare all’Iraq Mosul e i suoi pozzi di petrolio. I turchi riuscirono a sconfiggere i curdi solo a fine ottobre.
Si trattò del punto più alto di unità fra tribù curde di diverse aree e stati, ma anche un raro esempio di ampio appoggio popolare, cui, in contrasto col tradizionale conservatorismo curdo, parteciparono come combattenti anche molte donne. Le nuove frontiere volute dagli imperialismi occidentali ostacolavano gli spostamenti dei pastori in cerca di pascoli, ma anche i commerci. Molti piccoli contadini indebitati dopo lunghi anni di servizio militare, perdono la terra e si riducono a sottoproletariato urbano. D’altro canto la capacità del governo turco di presentarsi in Europa come un movimento progressista e moderno e l’interesse dei paesi occidentali, in particolare Francia e Gran Bretagna, a conservare lo status quo (i mandati) lasciarono nel totale isolamento il movimento curdo, che comunque scontava la mancanza di un comando militare centralizzato e con obiettivi chiari; la leadership era frammentata fra i clan, ognuno dei quali difendeva il proprio territorio. Nel 1932 la Società delle Nazioni rifiuta di riconoscere l’etnia curda.
Alla rivolta del 1927-30 seguì una repressione di violenza inaudita. Una legge del 1932 stabiliva che i curdi fossero dispersi e controbilanciati dall’insediamento di nuclei turchi.
Da quel momento ad ogni primavera scoppiarono piccole rivolte subito sedate (se ne contano 15 in tutto); ma la politica delle deportazioni esasperò a tal punto i curdi che nel 1937 una nuova rivolta scoppiò a Dersim, quando contro i curdi vennero usate armi chimiche, artiglieria pesante e bombardamenti aerei, molti villaggi vennero distrutti e fu dichiarato lo stato d’assedio fino al 1950.
Nel Kurdistan iracheno, appena gli inglesi concessero la libertà formale al regno, i curdi subirono analoghe restrizioni. Questo fu alla base della rivolta del 1931 e 1932, guidata dai due fratelli Barzani (il maggiore era lo sceicco Ahmad, ma più famoso diventerà Mustafa, vengono da una famiglia di proprietari terrieri) e terminata per l’intervento della Raf inglese che bombarda i villaggi. Deportati nel Kurdistan persiano, i due tornarono all’attacco nel 1942 con una rivolta presto sconfitta. A questo punto Mustafa Barzani e mille uomini si rifugiarono in Persia per sostenere la Repubblica curda di Mahabad, proclamata nel dicembre 1945, sotto la protezione dei sovietici. Ma nel maggio 1946 i sovietici si ritirarono sulla base degli accordi di Yalta; i curdi vennero massacrati dopo essersi arresi all’esercito dello shah. Barzani, alla guida di 500 curdi iraniani, iracheni e turchi con un viaggio rocambolesco riparò in Azerbaijan. Catturato dai sovietici torna in libertà solo nel 1958.
Nel secondo dopoguerra le organizzazioni curde operano dentro i confini del paese che li ospita, ma sono spesso finanziate dai governi dei paesi vicini. I finanziamenti contrapposti li condizionano, tanto che si arriva a scontri fratricidi. Costretti a cambiare spesso sponsor conducono quindi una guerriglia ondivaga, durante la quale in certi periodi la dirigenza curda svolge il ruolo di mercenario al servizio delle mire egemoniche delle singole potenze regionali mediorientali. Sono costretti a credere a promesse di indipendenza, sempre disattese. Mentre i governi di Turchia, Iraq, Iran e Siria sviluppano la loro economia, la struttura tribale dei curdi viene lentamente erosa. In Turchia la volontà del governo di sradicarli dalle loro aree e di disperderli nel territorio li trasforma nella manodopera di riserva della manifattura e dei servizi, spesso ridotti a sottoproletariato urbano.
IRAQ – IRAN
Nel 1958 Barzani è invitato a tornare in patria dal generale Kassem che ha appena abbattuto la monarchia hascemita, ma i due non raggiungono un accordo e nel 1961 riprende la repressione contro i villaggi curdi. Barzani, finanziato da Usa e Persia, riprende la guerriglia e infligge forti perdite all’esercito iracheno e soprattutto blocca il passaggio del greggio e del gas verso i porti del Golfo Persico, facendo saltare le condotte presso la città di Erbil e minacciando l’incendio dei pozzi. Gli iracheni usano per la prima volta il napalm contro i villaggi curdi nel 1963; in certi casi i villaggi curdi sono isolati con la posa di mine. Nel 1964 il suo ex braccio destro, Jalal Talabani, fonda un gruppo indipendente. Nel ’68 Saddam Hussein e Barzani firmano una tregua e in Iraq viene riconosciuta l’uso della lingua curda nelle scuole e nei giornali.
La famiglia Barzani viene foraggiata dal governo iracheno perché guidi i curdi in Iran in una guerriglia contro lo shah. Dalle memorie di Kissinger sappiamo che nel ’73 emissari Usa ricontattano Barzani e lo rifinanziano (16 ml di $ in armi). Gli Usa erano interessati ai pozzi di petrolio che si trovavano nel territorio del Kurdistan iracheno. Questo incontro è probabilmente all’origine dello scoppio della rivolta per l’indipendenza in Iraq nel 1974. Durante la rivolta del 1974-75 i due tronconi curdi si riuniscono per fare fronte comune contro Saddam Hussein. Ma nel’75 i governi di Iran e Iraq firmano ad Algeri un patto che consente la divisione pacifica fra i due paesi dello Shatt-el-Arab (fiume formato dalla confluenza fra il Tigri e l’Eufrate); l’Iran interrompe quindi il sostegno finanziario e militare ai curdi, che vengono sconfitti. Barzani fugge negli Usa, dove muore nel ’79. La sconfitta mette in crisi il movimento curdo. Talabani fonda l’Unione Patriottica del Kurdistan e nel 1976 riprende l’azione armata in Iraq.
Allo scoppio della guerra Iraq-Iran (nel 1979 Khomeini ha sostituito lo shah di Persia e Saddam Hussein attacca l’Iran pensando di piegarlo facilmente) i curdi di Barzani fanno azioni di disturbo in Iraq e ottengono finanziamenti dall’Iran; Talabani invece tiene un atteggiamento lealista verso l’Iraq. Il risultato è che sono considerati entrambi infidi e i civili vengono repressi nell’uno e nell’altro paese (in Iraq gira un proverbio: “ci sono tre calamità al mondo: le locuste, i topi e i curdi”). Temendo che i curdi funzionino da “quinta colonna”, Saddam ammassa la popolazione seminomade delle montagne in veri lager (mezzo milione di deportati, 3 mila villaggi rasi al suolo). I deportati erano in maggioranza donne, vecchi e bambini. I maschi venivano arrestati e imprigionati senza alcuna accusa: 8.000 curdi “sparirono” nel 1983 da Erbil e tutt’oggi di loro non si sa più nulla; nel 1985 altri 3.000 ragazzi curdi furono stati arrestati e torturati dalle forze di sicurezza irachene per obbligare i loro parenti “a consegnarsi alle autorità”. Nel 1988 furono uccisi 5.000 civili curdi in soli due giorni a seguito di un attacco chimico nella città di Halabja; dieci giorni dopo nel Qaradash venne lanciato un altro attacco chimico e i 400 sopravvissuti vennnero arrestati e poi giustiziati mentre cercavano di raggiungere un luogo di cura. Nel 1988 le autorità turche confermarono di aver dato rifugio a 57.000 curdi iracheni; quelli che vennero convinti a rientrare in Iraq con la promessa di amnistia furono uccisi sommariamente.
Il governo di Teheran da parte sua trattò i curdi con estrema durezza: esecuzioni sommarie, torture e processi iniqui (l’episodio più famoso avviene nel settembre 1981 quando 18 operai curdi furono uccisi in una fabbrica di mattoni nel villaggio di Sarougliamish).
Una statistica del WSJ del 1985 calcolava che i curdi fossero 20 milioni (9 in Turchia, 3 in Iraq, 6 in Iran, 1 in Siria, il resto nei in vari paesi del Caucaso).
TURCHIA
Mentre infuria la guerra Iraq-Iran, Iraq e Turchia nel 1983 firmano un trattato, tuttora in vigore, di reciproco sfondamento delle frontiere per dare la caccia ai curdi, i quali si mantengono taglieggiando imprenditori e ponendo sovrattasse sui convogli di benzina.
I curdi di Turchia, che fino agli anni ’80 sono rimasti relativamente sottomessi, cominciano ad agitarsi. Nel 1979 in Turchia è stato fondato il PKK (Partito del Lavoro del Kurdistan), guidato da Abdullah Ocalan (“Apo”). Il PKK è ospitato dal regime siriano e si esercita nella valle della Bekaa, in Libano, con la consulenza dell’esercito siriano che occupa parte del Libano, ma ha santuari anche nel nord dell’Iraq. Ottiene armi e soldi anche dall’Urss. Per tutti gli anni ’80 i turchi sconfinano più volte in Iraq e massacrano gli aderenti del PKK anche con raid aerei.
Nel 1991 l’atteggiamento siriano verso il PKK cambia: Hafez Assad spera di ottenere dagli Usa una mediazione per recuperare le alture del Golan, quindi appoggia gli Usa contro Saddam Hussein e abbandona il PKK al suo destino. Il PKK cerca di reagire (1991-92) usando l’arma degli attentati (in particolare contro i luoghi di turismo a Istanbul) e tenta di suscitare una rivolta armata. Il governo turco prende a pretesto gli attentati per una repressione a largo raggio nell’Anatolia sud-orientale. In gioco in realtà c’è “la guerra delle dighe”, il famoso progetto GAP, che prevede di sfruttare l’acqua dell’Eufrate per produrre energia elettrica; il piano, varato nel 1985 prevede la costruzione di d ventuno dighe, diciassette centrali elettriche e centinaia di chilometri di canali e condotte. Il piano sottrarrà acqua a Siria e Iraq, ma è ben visto dai paesi europei e dagli Usa, coinvolti negli appalti e nello sfruttamento della manodopera. I curdi, che difendono i loro campo e il loro ambiente di vita, sono un oggettivo ostacolo sulla strada del “trionfante sviluppo” turco. La regione curda viene militarizzata, vi vengono ammassate truppe e mezzi pesanti, interi villaggi vengono svuotati. Il risultato sarà una urbanizzazione forzata a Istanbul e Izmir, con effetti permanenti sulla geografia sociale e di classe del paese.
IRAQ
Talabani si accorda col figlio di Mustafa Barzani, Massud, e con gli Usa per appoggiare la coalizione militare che attacca l’Iraq nel 1991. Nel dopoguerra Talabani chiede agli Usa di appoggiare le richieste di indipendenza curde. WSJ ed Economist conducono una campagna contro, sostenendo che un Kurdistan libero verrebbe immediatamente assorbito dalla Turchia. Nel marzo ’91 comunque i curdi di Talabani occupano Kirkuk, sconfiggendo 5 divisioni di Saddam, e minacciano di far saltare le dighe di Dokan e Darbandikhan con conseguente inondazione in Iraq. Le truppe di Saddam rispondono con piogge al napalm, acido solforico e fosforo sulle popolazioni e cinicamente gli Usa lasciano loro via libera, almeno fino alla sanguinosa riconquista di Kirkuk nell’aprile ’91. Iniziano massacri indiscriminati di civili, circa 800 mila curdi si rifugiano in Iran, 160 mila in Turchia e altri 700 mila fuggono sulle montagne (le scene sono identiche a quelle che oggi riguardano i cristiani e gli yazidi; al posto di Saddam c’è l’ISIS).
La spinta emotiva davanti alle scene raccapriccianti mostrate dai media autorizza il governo Usa a imporre prima una no-fly zone. Saddam negozia con Massud Barzani (PDK) la concessione di un territorio autonomo (e in cambio ottiene che Barzani permetta il passaggio di armi e finanziamenti ai curdi in Turchia). Subito la Turchia, sotto la presidenza Ozal, propone a Jalal Talabani la protezione turca per lo stato autonomo curdo (e ovviamente sui pozzi petroliferi), purché non accolga i peshmerga nel proprio territorio e adotti la lira turca come moneta. Saddam dichiara subito fuori corso la moneta del Kurdistan, azzerando i depositi dei curdi nelle proprie banche.
Dal ’02 inizia un braccio di ferro per la supremazia fra i Barzani e i Talabani; i due gruppi si spartiscono le entrate da contrabbando (benzina, ma anche cereali e manufatti).
I peshmerga si procurano i galloni di petrolio a 5 cent a Sud e lo rivendono a 2 $ in Kurdistan, dove la vita dei civili è molto difficile. Nello scontro fra le due correnti Saddam protegge Barzani, che viene amnistiato coi suoi in Iraq. Barzani si arricchisce coi balzelli imposti ai camion turchi che trasportano petrolio di contrabbando fra Iran e Turchia (un introito calcolato dal NYT in 50 mila $ al giorno).
In questo processo la struttura sociale curda si evolve. In precedenza accanto a una massa di curdi che vivevano solo di una modesta agricoltura di sussistenza, esistevano i grandi proprietari che esportavano prodotti agricoli. Nel Kurdistan degli anni ’90 si sviluppano strati che vivono di traffici, oltre che di mazzette e tangenti; i legami tribali si allentano o sono sostituiti dalle complicità tipiche delle società capitalistiche. E nelle periferie di Erbil, Mosul e Kirkuk si sviluppa un proletariato moderno che lavora nella piccola manifattura, nelle officine e nel settore petrolifero. Le grandi famiglie come i Barzani e i Talebani mandano i figli a studiare all’estero e occasionalmente si vendono come mercenari di lusso a prezzi non proprio di liquidazione.
Un altro aspetto degli anni ’90 è che fra i “pupari” è scomparsa l’Urss e la Russia non è ancora in grado di esprimere ambizioni imperiali. Ogni media potenza medio-orientale vede nei curdi propri una minoranza da reprimere, ma anche un’arma da usare verso il vicino scomodo. L’Europa è troppo interessata agli affari con la Turchia per entusiasmarsi per i curdi come nazione oppressa. C’è però l’imbarazzante arrivo dei profughi: i turchi sostengono che questo “mercato degli schiavi” è organizzato dal PKK, l’Italia, primo partner commerciale di Ankara, cerca di dirottarli verso la Germania e i paesi del Nord.
La guerra del 2003 per rovesciare Saddam e far entrare stabilmente l’Iraq nella sfera di influenza americana, rovesciando il dominio sunnita, diventa un’occasione imperdibile per le aspirazioni di indipendenza dei curdi. Uno stato centralizzato era indispensabile ai sunniti per appropriarsi della rendita petrolifera (i pozzi sono collocati a Nord, area curda, e a Sud, area sciita). Se i curdi si garantissero il controllo di Kirkuk avrebbero risolto il problema della autosufficienza economica. Nel 2005 la scelta come premier di Al Maliki porta a una situazione di scontro con i curdi per la spartizione della rendita petrolifera.
Di fronte comunque all’ondata di scontri settari e di massacri che caratterizzano il resto dell’Iraq, il Kurdistan si presenta come un’oasi di pace e di prosperità, ma vi dominano la corruzione dei funzionari e l’economia sommersa. In particolare la famiglia Barzani tratta lo stato curdo come un suo feudo (la ricchezza personale del premier è valutata 2 miliardi di $). Il figlio del premier, Masur Barzani, dirige i servizi segreti, che nel 2001 si sono resi responsabili di eccidi verso l’opposizione politica. I Barzani hanno collegato propri uomini in tutte le cariche importanti. Sono i Barzani ad avere il monopolio delle concessioni edilizie e il Kurdistan iracheno si sta riempiendo di ricchi centri commerciali, edifici pubblici, e abitazioni di lusso recintate per le élite. Non mancano le mostruosità architettoniche tipo la costruzione di un “villaggio inglese”, un “villaggio italiano”, un villaggio americano” ecc., fuori da ogni legame col contesto.
Il divario fra ricchi e poveri sta diventando sempre più ampio e con questo è erosa la solidarietà tribale, che si trasforma in legame mafioso per l’élite al potere.
Privo di raffinerie, nel 2012 il Kurdistan esporta oltre 150mila b/g di petrolio, ma importa contemporaneamente oltre l’80% del combustibile da Iraq, Iran e Turchia.
Anche il clan Talabani partecipa al banchetto che implica la spartizione del controllo ad es. della telefonia mobile e dei centri commerciali (Asia Times 17 giu. 2013)
La nuova costituzione irachena del 2005 stabilisce che il Kurdistan iracheno è un’entità federale riconosciuta dall’Iraq, e riconosce ai curdi una propria lingua un Parlamento nazionale con 111 parlamentari. Diventa Presidente Massoud Barzani, figlio di Mustafa, che sarà rieletto nel 2009. Le tre provincie di Dohuk, Erbil e Sulaymaniah si estendono su di un territorio di circa 40.000 km quadrati con circa 5 milioni di abitanti.
Il governo di Erbil, capoluogo della regione, rivendica il diritto ad estrarre il petrolio dei suoi giacimenti tenendo per sé i proventi della vendita; Baghdad, invece, ha sempre sostenuto che il ricavato di quel petrolio debba andare al governo centrale, che poi ne devolverebbe una quota al Kurdistan. Il governo curdo nel 2006 aggiudica tre concessioni petrolifere a tre compagnie petrolifere minori, rispettivamente canadese, norvegese e turca, sfidando il governo centrale. Ė l’interpretazione curda della nuova Costituzione, prima ancora che entri ufficialmente in vigore. Ognuno è padrone del petrolio che controlla. Lo scontro centralismo/federalismo è innanzitutto scontro sul controllo della rendita petrolifera. I sabotaggi agli oleodotti hanno praticamente chiuso l’oleodotto del Nord verso Ceyhan (Turchia), limitano la capacità di esportazione al Sud, favoriscono quindi il fiorente contrabbando, fonte di finanziamento per le milizie curde.
Nel 2008 il governo curdo propone un referendum per decidere il destino di Kirkuk, l’ONU lo convince a rimandare temendo una reazione militare della Turchia. Kirkuk, rivendicata dai curdi come la loro Gerusalemme, ha forti minoranze arabe e turcomanne.
La Turchia si è posta come “difensore ufficiale dei turcomanni”; inoltre sostiene che le percentuali relative alle varie popolazioni fornita da Barzani è falsa e quindi pretende un censimento e accusa i curdi di un tentativo di pulizia etnica.
Tuttavia a un certo punto Erdogan si rende conto che il Kurdistan è ormai un’entità consolidata e ritiene più vantaggioso trarre profitto dal petrolio curdo che attardarsi a cercare di impedire ai curdi di sfruttarlo. Un numero crescente di multinazionali del petrolio hanno deciso di investire in Kurdistan (considerato più sicuro del Sud dell’Iraq e della regione occidentale irachena, pericolosamente vicina alla Siria). Tra il 2012 e il 2013 viene costruito un nuovo oleodotto «strategico» che ha reso Erbil indipendente da Baghdad: l’oleodotto (che si dipana solo su territorio curdo) unisce la città di Kurmala al confine turco. Qui si connette a un preesistente oleodotto turco che arriva fino alla città di Ceyhan, sulle sponde del Mediterraneo. In questo modo Erbil, contro il parere di Baghdad ma pericolosamente sostenuta dal governo turco, ha iniziato ad esportare il suo petrolio. Nei primi mesi, il greggio curdo veniva pompato fino al porto di Ceyhan dove veniva stipato senza essere messo in vendita. Il 22 maggio 2014, però, il Kurdistan ha rotto gli indugi mettendosi apertamente contro Baghdad: l’oleodotto ha iniziato a lavorare a pieno regime e la prima petroliera, la United Leadership, è salpata verso un porto mediterraneo non meglio identificato, colma di «oro nero». Le autorità di Baghdad hanno reagito chiedendo ai Paesi occidentali, possibili acquirenti, di non comprare quello che considerano «petrolio illegale». Il 10 giugno, anche una seconda petroliera, la United Emblem, viene caricata di greggio curdo e prende il largo. Fra l’altro l’unica società petrolifera che risponde positivamente all’appello di Al Maliki è l’Eni. Manco a dirlo però subito dopo Al Maliki viene defenestrato perché l’ISIS minaccia Baghdad…
In un primo momento, dopo l’occupazione Americana dell’Iraq, i curdi chiedono l’integrazione delle proprie milizie, valutate in 160 mila uomini, nell’esercito iracheno; la proposta è lasciata cadere dal governo centrale, ma i curdi non disarmano le milizie che diventano un vero e proprio esercito nazionale, la vera garanzia di una indipendenza di fatto che dura dall’imposizione delle no-fly zone dopo la guerra del 1991. A sorvegliare il confine settentrionale con l’Iran non è l’esercito “iracheno” ma quello curdo.
L’avanzata dell’ISIS verso Baghdad e la conquista di Mosul, che non trova resistenza alcuna da parte dell’esercito iracheno, nel giugno 2014 offre ai Peshmerga curdi della regione autonoma dell’Iraq del nord (KRG) la piena giustificazione per occupare preventivamente Kirkuk (viceversa i pozzi di petrolio cadrebbero in mano all’ISIS). Massud Barzani chiarisce che i curdi non restituiranno il controllo della città ad al-Maliki, dal momento che il suo esercito ha abbandonato le popolazioni civili al loro destino e che a protezione dei civili restano solo la forza di polizia curda e turkmena. I Peshmerga si sono dislocati anche a nord-est di Mosul e nella provincia di Diyala a nord-est di Baghdad. Nel vertice Nato di Newport si decide di armare i curdi perché ostacolino sul terreno l’avanzata dell’ISIS.
SIRIA
Dal 2012 le tre province del Nord in Siria sono sotto il consolidato controllo dei curdi del Partito dell’Unione Democratica curda (PYD con la loro milizia YPG); Assad ha abbandonato questa area che non poteva difendere al confine di Turchia e Iraq. Ormai completamente autonomi, ben organizzati sotto il profilo militare, ma anche sul piano amministrativo, i leader curdi, a fronte del disfacimento dello stato siriano, parlano apertamente di diritto all’autodeterminazione dei popoli e della creazione di un Kurdistan siriano che instauri rapporti di buon vicinato col Kurdistan iracheno. È noto che i curdi siriani hanno forti legami con il PKK dei curdi di Turchia.
L’ipotesi di un Kurdistan allargato che varchi le antiche frontiere allarma la Turchia, ma trova un sostegno consistente nei circa 100 mila curdi che vivono in Israele (immigrati negli anni ’40 e ’50). Le autorità israeliane sanno e approvano. Anche politici americani, soprattutto repubblicani, cominciano a puntare su questa ipotesi, vedendo nei curdi un interlocutore valido per gli interessi statunitensi in alternativa al caos “arabo”. Israele ha iniziato ad avere già negli anni ’90 intensi rapporti d’affari con l’autonoma nazione curda irachena (KRG). Dal 2011 intensifica i rapporti con i curdi siriani, con fornitura di armi e assistenza di intelligence perché i gruppi come al Nusra e in genere l’opposizione islamica siriana è considerata pericolosa dagli israeliani, che preferiscono di gran lunga il regime di Assad. Gli aiuti israeliani al KRG sono sempre stati forniti in assoluta discrezione, perché Israele non voleva urtare i turchi con cui vigeva un accordo diplomatico molto stretto. Oggi i rapporti fra Israele e Turchia si sono raffreddati, gli stessi turchi intessono rapporti diplomatici e di affari con il KRG, ma sono i curdi, che vogliono mantenere rapporti di affari con le comunità arabe locali e con i paesi del Golfo Persico, a non voler rendere troppo evidente il rapporto con Israele. Ancora più coperti sono gli aiuti israeliani ai curdi iraniani, che sono i più deboli in termini di opposizione al proprio governo.