27.4.13

Bangladesh, alta moda color sangue

 
Alle 9 circa del mattino di mercoledì 24 aprile nel sobborgo di Savar, alla periferia di Dacca, è avvenuta l’ennesima strage dello sviluppo: il Rana Plaza, un palazzo di otto piani che ospitava ben cinque fabbriche tessili, è crollato accartocciandosi su sé stesso. Il bilancio, ancora provvisorio, è di oltre 300 morti, mille feriti e ancora ora (a tre giorni di distanza) centinaia di persone sotto le macerie (300 o 400).
Che il Rana Plaza fosse pericolante era cosa ben nota, soprattutto ai lavoratori che vi si recavano ogni giorno, timorosi per la propria vita, ma ancora più spaventati dalla prospettiva di perdere il posto di lavoro. Erano migliaia le operaie e gli operai che lavoravano nell’edificio (5000 secondo Asia Times); solo il giorno prima il palazzo era stato evacuato per pericolo di crollo, ma Sohel Rana, proprietario del palazzo e di molti altri edifici, ha costretto i dipendenti a proseguire il lavoro.
Tragedie simili non sono purtroppo una novità: secondo il Bangladesh Institute of Labour Studies dal 1990 in 33 incidenti simili sono morte un totale di 630 persone. Solo cinque mesi fa, sempre a Dacca, l’incendio della Tazreen Fashion aveva fatto 120 morti. Secondo il Wall Street Journal del 26 aprile le lavoratrici e i lavoratori vittime di incendi negli ultimi anni sono state ben 7000, decine per i crolli.
L’industria tessile del Bangladesh impiega circa 3 milioni di persone – prevalentemente donne – e rappresenta l’80% dell’export, un export da 24 miliardi di dollari, secondo solo a quello cinese nel reparto abbigliamento. Il salario mensile di un operaio tessile è circa 28 euro. Ma ancora nel 2011 le multinazionali del settore respingevano un piano di sindacati e governo per ispezioni, controlli tecnici e chiusura di impianti non a norma: troppo costoso, troppo vincolante.
Queste multinazionali sono ben conosciute a casa nostra: fra i committenti che facevano produrre i propri vestiti al Rana Plaza vi sono marchi come Primark, Wal Mart, C&A, Kik, ma anche le italiane Yes-Zee, Pellegrini e Benetton (che si è affrettata a negare ogni coinvolgimento).
L’industria della moda, vanto della borghesia italiana, veste il mondo con la pelle dei lavoratori asiatici.
Le responsabilità della classe dirigente vanno ben oltre le multinazionali: i proprietari delle fabbriche tessili sono spesso politici locali o nazionali, e sono ben attivi nel frenare ogni aumento delle misure di sicurezza. Almeno il 10% dei parlamentari possiede fabbriche. La loro posizione garantisce l’impunità per gli incidenti: nessuno è mai stato processato dopo una strage. Lo stesso Sohel Rana è un uomo politico locale.
Le poche leggi esistenti non vengono comunque rispettate: le autorità municipali concedono permessi di costruzione anche senza la necessaria autorizzazione delle agenzie di controllo della sicurezza. Il Rana Plaza era notoriamente stato costruito su terreno instabile col solo permesso dell’autorità municipale.
La classe lavoratrice è ovunque esposta alle morti da profitto: dai 7 operai morti nella ThyssenKrupp di Torino il 6 dicembre 2007 ai 14 morti nell’esplosione della West Fertiliser Plant di Waco (Texas) il 18 aprile scorso, dagli 83 minatori morti il 29 marzo nella miniera d’oro della China National Gold presso Lahsa (Tibet) alle centinaia di morti bianche in Italia, in tutto il mondo il capitale non si accontenta del sudore dei lavoratori: spesso vuole anche il loro sangue.
Troppo spesso gli stessi sindacati trascurano le misure di sicurezza e diventano complici pur di preservare la continuità della produzione ed evitare che venga spostata altrove lasciando a casa tutti i dipendenti. La difesa del posto di lavoro, se non è unita alla difesa della sicurezza, diventa la difesa del proprio carnefice.
Contro i ricatti delle delocalizzazioni e contro l’imposizione della scelta fra la salute (e la vita) o il lavoro, non c’è che una soluzione: l’unione fra tutti gli sfruttati per difendere la propria esistenza.
Oggi sono gli stessi lavoratori di Dacca a rivoltarsi: sono scesi nelle strade bloccando le strade e scontrandosi con la polizia. Vogliono l’esecuzione dei proprietari del Rana Plaza, ma vogliono soprattutto liberarsi da condizioni di lavoro schiavistiche. Molte fabbriche del grande distretto tessile sono rimaste chiuse per lo sciopero.
Noi comunisti sappiamo che non basta la punizione di uno o due sfruttatori criminali: serve l’unione che sappia imporre a tutti i capitalisti almeno il rispetto delle vite umane; serve una lotta che elimini tutto il sistema di sfruttamento per creare una società dove la vita umana non sia una materia prima da consumare ma un bene da preservare.

Comunisti per l’Organizzazione di Classe

Per un primo Maggio di lotta dei lavoratori

 
Il Primo Maggio non è nato come festa.
Il Primo Maggio è nato come giornata di lotta dei lavoratori per le otto ore di lavoro, prima negli Stati Uniti, poi in tutto il mondo.
Il Primo Maggio è stato battezzato nel sangue a Chicago nel 1886, dove quasi 100 mila operai scioperarono per le 8 ore, la polizia sparò sugli operai e sette anarchici furono fatti impiccare dalla magistratura per una bomba lanciata da un agente provocatore.
Per decenni gli operai in tutto il mondo hanno scioperato insieme il Primo Maggio per ricordare il sacrificio, le lotte dei lavoratori e non per santificare questa giornata come festa senza nessun significato di classe.
Questa giornata era stata proclamata come giornata  simbolo dell'unità di interessi dei lavoratori salariati di tutti i paesi contro i padroni, la borghesia e il loro Stato.
In Italia come in molti altri paesi il Primo Maggio è stato dichiarato giornata di festa nazionale per fare dimenticare la lotta.
Noi siamo per un Primo Maggio di lotta perché non c'è niente da festeggiare e molto per cui lottare.
Le otto ore sono state conquistate con la lotta di generazioni operaie, al prezzo di licenziamenti e del loro sangue versato. Ma ogni conquista si riduce a un pezzo di carta, se manca la capacità di difenderla. Nella realtà molti lavoratori oggi sono costretti a lavorare 10 e 12 ore, spesso anche il sabato e la domenica, per avere un salario decente. Più la crisi si acuisce essa rende evidente come in questa società capitalista non resta più il tempo per vivere una vita umana, la vita diventa una galera. E le condizioni di lavoro sono sempre più insopportabili. Lo sfruttamento è più spietato e cinico. Con la crisi milioni di proletari sono senza lavoro, o con poche ore di lavoro e un salario insufficiente per vivere. Non possono pagare l'affitto o il mutuo e sono sfrattati dalla loro casa.
Il Primo Maggio ci ricorda che come lavoratori dobbiamo unirci e lottare, se non vogliamo cadere sempre più in basso. Oggi in Italia come negli altri paesi  i lavoratori non sono in grado di esprimere una resistenza sufficiente all'offensiva del capitale. Cassa integrazione, licenziamenti, aumento dello sfruttamento,  morti sul lavoro e di lavoro, razzismo, guerre e concorrenza fra lavoratori dividono la classe a tutto vantaggio dei padroni.
Con le organizzazioni politiche e sindacali - che ritengono legittimo il profitto e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo - non è possibile nessuna difesa.
Le lotte dei lavoratori licenziati restano isolate azienda per azienda. I lavoratori precari si fanno concorrenza per un lavoro senza diritti. Riprendere nelle proprie mani il 1° maggio con i suoi contenuti di classe per i proletari è diventata, oggi più che mai, una necessità.
Unificare le lotte di resistenza del proletariato italiano e straniero, senza delegare ad altri la loro rappresentanza, dimostrando nella pratica di lotta che la classe è UNA, con identici interessi ed un solo nemico, il capitale, è la sola possibilità che hanno oggi i lavoratori di dimostrare la loro indipendenza. Ricomporre la classe sui suoi interessi immediati e storici, rendere visibile anche fisicamente questi momenti, significa iniziare nuovamente a imporsi come soggetto politico, sindacale sociale,  rompendo con chi ci vuole usare,  come massa di manovra per scopi a noi contrari.
“Il nemico è in casa nostra” è la parola d’ordine, di lotta contro l’imperialismo italiano, ma anche per esprimere la necessità e la volontà di tutti i lavoratori di opporsi alla dominazione borghese, in primis quella di casa propria.
Reagire si può!
Lo dimostrano le lotte nelle cooperative della logistica, dove i lavoratori, in gran parte immigrati hanno detto basta a condizioni di schiavitù e imposto il rispetto dei contratti e della loro dignità, nonostante che il governo abbia spesso schierato polizia e carabinieri contro i lavoratori.  Con gli scioperi per il contratto di lavoro ora si oppongono al taglio del salario, all'aumento dell'orario richiesti dai padroni, alle forme schiavistiche che vigono nei magazzini e che cercano di togliere dignità alla classe sfruttata e chiedono miglioramenti che rendono inutile l'uso delle cooperative da parte dei committenti per sottopagare gli operai.
Queste lotte non devono restare isolate! Anche nelle fabbriche, nei cantieri, nei magazzini e nel terziario si può reagire.
Manifestiamo il Primo Maggio per la difesa del salario e delle otto ore, per il salario garantito ai lavoratori licenziati e senza lavoro, per organizzare nella logistica una seconda giornata di sciopero a scala nazionale.
Per una società senza padroni e senza più sfruttamento!

Sindacato Intercategoriale Cobas    Traduzione in arabo volantino 1° maggio 2013

fonte: Si-cobas.org 

25.4.13

Un nuovo settennato per un nuovo “governissimo”!

Le convulsioni della profonda crisi politica italiana riportano a… NAPOLITANO!
Alla fine, dopo il toto-presidente, dopo la giungla parlamentaristica degli “orticelli” e dei “veti incrociati”, che ha bruciato in una settimana Marini, Prodi e Rodotà…ecco spuntare dal cilindro ancora Giorgio Napolitano. Sì proprio lui: quello che ha preparato il piatto a Mario Monti, in un clima “dejà vù” di “unità nazionale contro la crisi” (ce lo siamo già scordato?); quello che ha sponsorizzato l’intervento italiano nella guerra di Libia; quello che, non sapendo quali pesci pigliare, e non avendo più i “poteri” di sciogliere subito le Camere (cosa che ora ha riacquisito) è ripiegato nel consulto dei “dieci saggi”: un “Comitato di Grand Commis” di Stato trasversale, che ha già approntato l’agenda per il nuovo governo.
D’altronde, già dal discorso di insediamento il “re Giorgio” ha disegnato il futuro che ci attende. Un discorso che ha riproposto in toto l’attuale dominio di classe. Dopo l’elogio nazionalistico alle F.F.A.A. impegnate nelle varie “missioni di pace” nel mondo, Napolitano ha elogiato il M5S per aver mantenuto “dentro il parlamento” il malcontento, auspicando che in fututo non ci debba mai essere contrapposizione tra piazza ed istituzioni. Queste parole ci consegnano un futuro di repressione del dissenso e dei movimenti reali; perchè, anche se ormai messa a tacere mass-mediaticamente, i borghesi ed i loro lacchè sanno benissimo che la Grecia non è lontana, e che le enormi contraddizioni del capitalismo sono foriere di lotte senza confine. In Italia qualche piccola scintilla già si intravede.
“Un governo subito, e che sia autorevole e duraturo!” Questo era il grido di dolore che si levava da tutte le Associazioni imprenditoriali: desiderose di far quattrini in santa pace, di ottenere i pagamenti arretrati dalle Pubbliche Amministrazioni, di rimettere mano alla flessibilità in “entrata” dei lavoratori, di snellire i costi della politica (un apparato enorme e poco produttivo per i padroni), di tagliare le Province, di tagliare i servizi “improduttivi, di ricontrattare a livello europeo la Spending Review, di tagliare le tasse sul “lavoro”.
Questo era anche il grido che proveniva dai cosiddetti “Mercati”, sempre vigili e pronti a penalizzare a colpi di spread e di declassamenti le “debolezze” politiche di questa o quella borghesia nazionale.
E questo era il grido pure dei cosiddetti “sindacati dei lavoratori”, nella fattispecie Cgil-Cisl-Uil; i quali si stanno così “preoccupando” per la sorte degli “esodati” (collocati in quella situazione grazie anche al trio Camusso-Bonanni-Angeletti), al punto di fare cortei funebri davanti a Montecitorio, chiedendo “meno tasse sul lavoro” pure loro, in cambio della totale prostituzione ai diktat del profitto…
Eccoli accontentati !!!
Ora ci sono le condizioni, con il rinnovo del mandato a Napolitano, di fare un nuovo “governissimo”, o “governo del presidente”, o “di scopo” o…di quello che si vuole. L’importante è che il “blocco” parlamentaristico non abbia impedito alla borghesia imperialista di riagganciarsi al carro europeo e di riprendere la marcia.
Se per far questo, è stato necessario introdurre dalla cantina una fattispecie di “presidenzialismo zoppo”, va bene lo stesso. Le Costituzioni borghesi -di qualsiasi specie esse siano- ad ogni latitudine, potrebbero essere popolarescamente così sintetizzate: “fatta la legge, scoperto l’inganno”!
Di questa cosa noi marxisti rivoluzionari non abbiamo mai dubitato.
Tale tendenza al rafforzamento degli Esecutivi è infatti secondo noi pienamente in atto in gran parte del mondo. Il capitalismo, vuoi per reagire alla crisi, vuoi per inseguire i mercati, vuoi per reprimere le lotte che COMUNQUE in molti paesi i proletari conducono (vedi il Nord Africa), DEVE rafforzare l’Esecutivo ai danni del Legislativo.
Soprattutto se, come da noi, il rapporto costo-produttività della politica (per la borghesia) è tra i più bassi del pianeta!!!
Certo, ora siamo alla “balcanizzazione” del PD. Quel partito che solo pochi mesi fa, tronfio del successo di Bersani alle primarie, ambiva a “smacchiare il giaguaro” ed a governare l’Italia. Esso, nel breve volgere di qualche settimana, passa dalla “quasi vittoria”, al mancato feeling coi grillini, alla rinuncia dell’incarico governativo, alla auto-distruzione del fondatore dell’”Ulivo”, alla bagarre sfrenata delle correnti interne. Si parla di congresso anticipato e di scissione; con l’emergente “Tony Blair” di Palazzo Vecchio che strizza l’occhiolino alla destra ed enuclea su “La Repubblica” un “nuovo riformismo” (!!??).
Ora, con l’incarico ad Enrico Letta, si ritorna alla carica per un nuovo “governissimo”, che accellererà la resa dei conti in casa PD. Ma non è detto che dietro l’angolo non siano in agguato nuove convulsioni parlamentaristiche, che potrebbero rimettere in scena gli inossidabili “finanzieri” di tutte le stagioni…
Comunque sia, tutta questa pantomima istituzionale serve ancora una volta a dimostrare cosa siano le elezioni: “UNA TRAPPOLA E UN INGANNO PER I PROLETARI.” (Lenin)
Gli operai, i disoccupati, i precari, i giovani che hanno creduto nell’”eversione informatica e pacifica” del M5S non hanno dovuto aspettare tanto per subire una prima, precisa e frustrante smentita, culminata nella comica della “retromarcia su Roma”! In queste poche settimane di “opposizione grillina” invece del “tutti a casa” siamo al “tutti insieme come prima e più di prima”; siamo al pressappochismo, al dilettantismo, al tentativo goffo di convogliare in una “alternativa DENTRO il sistema capitalistico”, la rabbia di settori di piccola borghesia travolti dalla crisi e pure di settori di grande borghesia “euroscettica”. Finora non gli hanno dato sponda neppure su questo.
Figuriamoci sul versante proletario! Il M5S non può esserne espressione, da nessun punto di vista, perché come abbiamo più volte detto, esso NE E’ ESTRANEO: socialmente (l’avversione di Grillo per i sindacati non è per la loro svendita degli interessi operai, ma da un punto di vista interclassista) e più ancora politicamente ( a tutti i compagni sono infatti noti i trascorsi rivoluzionari dell’ ex pidiessino …Stefano Rodotà !!!)
Ora prepariamoci a nuovi colpi che si abbatteranno sull’intera classe proletaria.
Una volta che si saranno in qualche modo riassemblati in una nuova ammucchiata tra i “nemici giurati” (il che dimostra che sono fatti della stessa pasta borghese), si darà attuazione al programma dei “saggi”, che si accanirà ancora contro gli sfruttati.
Blocco e tagli dei salari, licenziamenti, schiavitù nei luoghi di lavoro, peggioramento dei servizi, sfratti, pignoramenti per mancati pagamenti dei mutui, aumento delle tariffe, privatizzazioni selvagge, ambienti devastati dalla speculazione impunita, concorrenza tra lavoratori (occupati e non; italiani e immigrati), avventure e spese militari nella contesa mondiale imperialista.
A tutto questo c’è una sola possibile reazione. C’è una sola possibile politica: quella della lotta e dell’organizzazione indipendente di classe: nelle fabbriche, nei quartieri, nei magazzini delle logistiche, nelle vie e nelle piazze delle città devastate dal profitto e dalla sua logica distruttiva. Dai territori, e da svariate situazioni di lavoro, per adesso solo nella Logistica, emerge un bisogno forte di cambiamento radicale del presente. Oggi gli obbiettivi intermedi, riformisti e settoriali sono quantomai inadeguati.
Per questo, il nostro compito dev’essere: lotta su obbiettivi unificanti e generalizzati. Vogliamo tutti un salario per vivere. Vogliamo curarci e spostarci liberamente, usufruire degli spazi di vita, abitare e respirare decentemente, costruire una vita dignitosa e riprenderci il futuro.
La soluzione finale è nell’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E’ nel comunismo.
Ma questa lotta comincia da subito. Comincia dalla lotta organizzata contro i padroni ed il loro Stato. Per il salario e la garanzia di salario, la riduzione dell’orario di lavoro, la difesa delle condizioni di lavoro e di vita, della libertà di organizzazione dei proletari.

Comunisti per l'Organizzazione di Classe
Gruppo Comunista Rivoluzionario
Collettivo "La Sciloria"


fonte: Combat-coc.org

23.4.13

Mokobe ft. Despo Rutti- Ca passe tout seul


Un re per Miserabilandia

Nello stato di necessità interna o esterna, è nel semplice concetto di sovranità che si raccoglie l’organismo esistente nelle sue particolarità, e ad essa, col sacrificio di queste ultime, altrimenti giustificate, è affidato il salvamento dello Stato (G. W. F. Hegel).

1. L’ennesimo commissariamento della politica da parte di Re Giorgio la dice lunga sulla crisi sistemica del Bel Paese, le cui classi dirigenti, chiamate di volta in volta ad adeguare la «sovrastruttura» politico-istituzionale della nazione ai cambiamenti che si realizzano nella sua «struttura» sociale (e non mi riferisco solo alla sfera economica), sono da sempre paralizzate dalla paura del conflitto sociale. Il compromesso e la consociazione (l’«inciucio», per usare il fetido linguaggio alla moda) sono sempre stati la cifra caratteristica della loro Realpolitik, in attesa di eventi eccezionali (guerre, terremoti, terrorismo, crisi economiche devastanti) che le costringessero a sciogliere almeno i nodi più sensibili dell’ingarbugliata matassa sistemica.
Il picconatore Cossiga arrivò a invocare «un’Algeria italiana» che costringesse i partiti della cosiddetta Prima Repubblica a ridisegnare l’obsoleta struttura politico-istituzionale del Paese, la quale mostrava tutta la sua inconsistenza davanti 1) al «nuovo ordine mondiale» creato dalla fine della «guerra fredda», 2) all’accelerazione del processo di globalizzazione capitalistica (fenomeno immanente al concetto stesso di Capitale) e, last but not least, 3) all’approfondirsi del gap economico-sociale Nord-Sud, il cui prodotto politico più genuino è stato il movimento leghista. Sappiamo com’è andata a finire.
Democristiani e cosiddetti “comunisti” odiavano la Thatcher non per il programma di «riforme strutturali» che la Lady di ferro intendeva implementare nel suo Paese, giacché nessuno in alto loco ne disconosceva la necessità e l’urgenza (ovviamente dal punto di vista delle classi dominanti); la detestavano piuttosto per l’ideologia conflittuale, poco riguardosa nei confronti dell’ipocrita “vogliamoci bene” di italica concezione, che la animava, e che conferì a quel programma “riformista” la necessaria potenza d’urto. In Italia uno come Fabrizio Barca, «un Monti di sinistra» come l’ha giustamente definito Minoli, è ancora lì a teorizzare terze vie fra la Thatcher e Blair… I tempi della politica italiana sono decisamente imbarazzanti. Nulla di strano, quindi, se il Palazzo terremotato dalla crisi sistemica (crisi economica, politica, istituzionale, sociale in senso stretto) ha bisogno di puntelli eccezionali, nell’accezione schmittiana del concetto, che ne impediscano il cupio dissolvi. In streaming, è chiaro.
2. I progressisti italiani, nemici del presidenzialismo in quanto «anticamera del fascismo o comunque di regimi tendenzialmente autoritari e populisti», sono passati direttamente alla Monarchia, peraltro a una forma particolarmente forte di regime monarchico, perché fondata su una peculiare personalità politica: Re Giorgio, appunto. Quel Monarca, e non un altro. Il quale, peraltro, ha invitato “caldamente” i partiti a farla finita con la sindrome dell’inciucio, perché il Paese ha bisogno come il pane di un governo di salvezza nazionale. Quella sindrome, com’è noto, tiene sotto scacco soprattutto il PD, i cui dirigenti hanno venduto per anni ai loro elettori la merce avariata dell’antiberlusconismo politico-antropologico. Oggi è il comico di Genova che cerca di incassarne i frutti, mentre il Cavaliere Nero può legittimamente affettare pose da grande statista. D’altra parte, dinanzi a un Bersani persino un Capezzone qualunque appare alla stregua di un gigante della Scienza Politica.
3. Lo Stato di Diritto è stato dunque sospeso? La Sacra Carta Costituzionale «nata dalla resistenza» è stata odiosamente oltraggiata? Ma non scherziamo! La «sospensione» del Diritto è una idiozia concettuale che appartiene all’ideologia pattizia, la quale cela la reale natura di classe del Diritto, che è sempre e necessariamente al servizio del Dominio. Il Diritto vive innanzitutto nella – e per – la prassi, e non si fa certo intrappolare dalle Carte né da procedimenti fissati in astratto. Non a caso Kant disse con chiarezza che non c’è Diritto senza forza, e la lingua tedesca dimostra di essere all’altezza del concetto, visto che gewalt significa violenza, ma anche potere legittimo, autorità, forza pubblica.
4. Il popolo della – e nella – rete che ieri ha circondato il famigerato Palazzo romano è il degno erede del mitico popolo dei fax che all’inizio degli anni Novanta assecondò la cosiddetta “rivoluzione giudiziaria” che assestò il colpo finale ai partiti della Prima Repubblica, risparmiando solo gli eredi dell’onesto Berlinguer. Guarda il caso… In attesa della marcia su Roma dell’unto della Rete, i giornalisti hanno voluto sondare gli umori degli indignati cittadini, impegnati a sostenere la “rivoluzionaria” candidatura di Rodotà. Richiesto di un’opinione circa la nuova investitura presidenziale a Napolitano, un giovane cittadino (forse un rifondatore statalista, forse un centrosocialista, forse un “viola”, forse un ex girotondino, forse un grillino, certamente un cittadino dalle mani pulite) ha detto che «siamo all’ennesima dimostrazione che in questo Paese nulla può cambiare. Non c’è speranza. Solo una cosa può cambiare la situazione, una rivoluzione». La “rivoluzione” per portare Rodotà (o Casaleggio in persona!) alla presidenza della Repubblica! C’è gente in Italia disposta a rischiare la pelle pur di farla pagare alla “casta”. Che oggi la “rivoluzione” sia evocata, un giorno sì e l’altro pure, dal pensiero ultrareazionario ci dà la misura della crisi sistemica italiana, i cui nodi gordiani anelano l’accetta e la ghigliottina.
Il mio problema naturalmente non è il pensiero politico dei militanti anticastisti, ma la loro opera messa al servizio della conservazione sociale. Fare in modo che il disagio sociale non nutra i movimenti politici reazionari, di “destra”, di “sinistra” e di “nuova” concezione, è il compito che l’attualità assegna a chi non si rassegna all’impotenza politica e sociale delle classi subalterne e di tutti coloro che in qualche modo subiscono la cattiva esistenza nella dimensione del Dominio capitalistico. Compito arduo fino all’impossibile, chi può negarlo; ma non per questo meno attuale, fecondo e orientato in senso umano.

fonte:  http://sebastianoisaia.wordpress.com/

Recensioni: Potassa. Storie di sovversivi, migranti, erranti, sottratti alla polvere degli archivi

 
Autore: Alberto Prunetti
Editore: Stampa Alternativa, II edizione 2004
Pagine: 104 Prezzo: 7 €

 
Quando incontravamo i compagni della prima ora, quelli “dal ‘21”, ci venivano raccontati episodi, trasmesse esperienze ed emozioni che non è facile descrivere; ci convincevamo di essere dei privilegiati, per avere avuto la fortuna di poterli conoscere ed ascoltare. La memoria correva a ritroso, sino ad arrivare al 1921, anno di fondazione del Partito. Lì, inevitabilmente, irrompeva un nome come un macigno: “Roccastrada”.
In effetti, i fatti di Roccastrada, per le dimensioni e la gravità che assunsero, rappresentarono un episodio chiave dello scontro frontale tra comunisti e fascisti; dei fatti di Roccastrada si occuparono tutti i giornali del Partito, se ne discusse anche all’I.C.
Gli episodi descritti nel libro di Prunetti si svolgono in un arco temporale che parte da 11 giorni prima dei fatti di Roccastrada, proseguendo sino agli anni ‘30, e sono ambientati in località che da Roccastrada distano meno di trenta chilometri. La narrazione oscilla tra la cronaca dei fatti reali e un romanzo di fantasia.
“Il termine potassa è un lemma del dizionario ristretto della chimica e indica in origine il carbonato di potassio. Notoriamente il carbonato di potassio si ottiene dalle ceneri del legno e di altre piante, oppure facendo reagire idrossido di potassio con biossido di carbonio. Tra i vari componenti di potassio non si può non citare il clorato di potassio, detto clorato di potassa, un composto cristallino bianco, preparato con l’elettrolisi delle soluzioni di cloruro di potassio. E’ un forte agente ossidante ed è utilizzato nella fabbricazione di fiammiferi, di fuochi artificiali, e di esplosivi. Ma Potassa per me è sempre stato il nome di quelle quattro case affacciate sull’Aurelia vecchia, verso Grosseto…”
A Potassa, il 13 luglio 1921, il facchino comunista Marchettini insegue un camion di camice nere che gli hanno appena ferito il cognato, un barocciaio anch’egli comunista, che aveva tentato di sbarrare il passo ai neri.
Da qui si innesca una serie di fatti incredibilmente concatenati fra loro.
Quasi un anno dopo, il 21 maggio 1922 a Tatti, la protesta per la presenza nel borgo di fascisti di passaggio scatena una rissa in cui rimane ucciso il padre di Robusto Biancani, segretario della locale sezione comunista. Il giorno successivo vengono uccisi per vendetta un notabile del posto di simpatie fasciste e suo nipote. Del gruppo dei quattro uccisori fa parte il Marchettini, da tempo latitante. La sera 400 fascisti invadono il paese mettendolo a ferro e fuoco, incendiando la Cooperativa e le case dei sovversivi. I quattro lasciano la zona, tre di essi raggiungeranno la Francia, Biancani si stabilirà in Unione Sovietica.
Biancani, sfuggito alla caccia dei fascisti, cadrà vittima delle purghe staliniane: gli sarà fatale, nello scontro tra Trotzky e Stalin, l’essersi schierato col primo. Marchettini invece rimarrà in Francia, pare certo il suo avvicinamento a gruppi antistalinisti dell’emigrazione.
Dal racconto avvincente emerge una fotografia del sovversivismo maremmano fatto di uomini rudi, forse poco colti e poco avvezzi a giornali o pubblicazioni (come si legge anche dalle carte di polizia), ma che manifestano con forza la loro voglia di riscatto aderendo istintivamente ad ideali, comunisti o anarchici, per i quali sono disposti a battersi fino in fondo. Storie di sofferenze, di emigrazione (la vicenda dell’anarchico Lanciotti in Inghilterra e Argentina), di rifiuto dell’esistente, di voglia di vivere senza compromessi, come quella dell’anarchico Mori che, dopo aver disertato, si da alla macchia per 12 anni vagando per i boschi della Maremma...
L’autore dà una spiegazione del suo intercalare la realtà con la fantasia:
“Potassa è un garbuglio da cui si dipanano tanti fili neri intessuti di sudore e rabbia [...] per comprendere la rivolta del Marchettini non bisogna studiarsi il suo fascicolo… basta camminare e guardarsi intorno, oggi, nel presente… se mi è mancato un nome me lo sono inventato… così ho fatto per le testimonianze orali, per le interviste… non si può cercare la verità solo negli archivi, in questi postriboli della delazione… vera è l’ansia di farla finita con l’addomesticamento dei cuori…”
Nella premessa Prunetti dice di aver scelto i suoi personaggi, “non eroi romantici ma figli di cani maremmani, ribelli ma anche violenti, duri”.
Istintivamente ci siamo trovati in sintonia con questi “figli di cani”, sentendo al tempo stesso l’esigenza di andare oltre, al fine di inquadrare quelle vicende nel contesto in cui si svolsero.
In uno scritto pubblicato venticinque anni dopo su «Prometeo» 1 Amadeo Bordiga, rimarcando lo scontro frontale del ‘21 tra avanguardie proletarie e camice nere, individuava tre fattori che avevano portato alla vittoria fascista: l’organizzazione mussoliniana con le sue impressionanti manifestazioni esteriori, l’intervento della “forza organizzata dell’impalcatura statale borghese” (polizia, magistratura, regio esercito) a fianco dei neri, il gioco politico “infame e disfattista dell’opportunismo social-democratico”, che invece di appoggiare la violenza rivoluzionaria contro la violenza fascista si lanciò in una “imbelle campagna del vittimismo pecorile”.
Quel tragico capitolo di storia ci ha tramandato profondi e validi insegnamenti sulla necessità dell’autodifesa proletaria, sull’opera traditrice dei riformisti così come sul ruolo antioperaio di chiesa e massoneria.
A Potassa, a Tatti, a Roccastrada, il potenziale rivoluzionario si è espresso in episodi che sono un capitolo integrante della prima, grande ed estesa opposizione proletaria al fascismo.
Sarà la controrivoluzione staliniana a distruggere uno straordinario patrimonio umano e di classe.

Note:
1. Alfa, La classe dominante italiana e il suo Stato nazionale, «Prometeo», agosto 1946 
A.P.
da "Pagine marxiste" n°9, agosto '05

Solidarietà ai lavoratori del San Raffaele

 
I lavoratori del San Raffaele in lotta per la difesa del posto di lavoro contro i licenziamenti, voluti da Rotelli per far profitto, oggi 16 Aprile sono stati caricati dalla polizia, chiamata dalla direzione, mentre si apprestavano a svolgere l’assemblea contro i primi 40 licenziamenti.
Al pari dei lavoratori della logistica, che con la loro lotta hanno sentito le “carezze” dei manganelli di quella polizia oggi inquisita, anche con gli arresti, a Piacenza, lo stato e Rotelli,  mandano  la polizia contro i lavoratori della sanità che  si oppongono ai licenziamenti.
La lotta non può che essere unitaria e dal basso con tutti i lavoratori di tutti i settori. Alla luce di questo atto repressivo, il comunicato di CGIL-CISL-UIL a favore di Rotelli  dimostra quanto questi sindacati siano asserviti agli interessi dei padroni porgendogli sempre una sponda per “salvarli”.
La difesa dei propri diritti, primo fra tutti il posto di lavoro, non può che passare per le mani dei lavoratori stessi.
Il presidio del 19 aprile ’13 al San Raffaele assume ancora più rilievo in quanto si scontrano due interessi inconciliabili: quelli dei lavoratori contro i licenziamenti e la difesa del salario, e quelli di Rotelli e dei suoi servi sindacali che i lavoratori devono ben individuare per sconfiggerli.
Tutti uniti  con i lavoratori del San Raffaele.  

DELEGATI RSU  S.I. COBAS  A. O. SALVINI - ICP- NIGUARDA

fonte: Si-Cobas.org

20.4.13

La protesta degli indios irrompe al Parlamento di Brasilia

 
Il 16 aprile centinaia di indios brasiliani hanno fatto irruzione nel Congresso della capitale occupando per ore la Camera dei deputati per protestare contro un progetto di legge che modificherebbe le disposizioni sulle delimitazioni e lo sfruttamento delle riserve indigene presenti sul territorio.

Gli indios sono riusciti a forzare le barriere poste a protezione dell’ingresso del Parlamento e hanno fatto irruzione alla Camera cogliendo di sorpresa i deputati lì presenti per una seduta: una volta dentro, i nativi (arrivati a Brasilia da tutto il paese e appartenenti a popoli diversi) hanno dichiarato che non avrebbero abbandonato l’aula fino a quando non fosse stato bloccato l’iter dell’emendamento che modificherebbe le autorizzazioni allo sfruttamento delle riserve.

L’emendamento costituzionale in questione prende il nome di Pec 215 e fu proposto già nel 2000 ma solo dopo più di dodici anni è stato rispolverato dal Congresso ottenendo già l’approvazione di alcune commissioni.

Tale emendamento trasferirebbe al Congresso il potere (attualmente detenuto dal Funai, l’agenzia federale degli affari indigeni del paese) di demarcare i territori delle riserve e di autorizzarne lo sfruttamento: una legge che fa gola ai grandi latifondisti del paese e a molte multinazionali ma che trova una strenua resistenza da parte degli indios presenti nel paese, già decimati e vittime di continue minacce ai propri territori ma decisi a non farsi togliere quanto rimane delle proprie terre.

Di fronte all’inaspettata irruzione e alla determinazione degli indios, il presidente della Camera ha disposto che la commissione convocata per votare l’emendamento venga rimandata al prossimo semestre e che in tale data i nativi brasiliani potranno partecipare ai negoziati: una prima seppur parziale vittoria per gli indios, che non solo hanno ottenuto il rinvio della discussione della legge ma anche la possibilità di partecipare ad un procedimento che chiama in causa i loro diritti, un dato assolutamente inedito nella storia del Congresso brasiliano. 

fonte: Infoaut.org

Antichi tamburi di guerra stanno battendo nel mio cuore

Io sono, e lo sono sempre stato, una persona pacifica.
Cerco di seguire i passi dei miei nonni. Ma quando vedo il potere dell'uomo bianco mi accorgo che è difficile conservare le vecchie usanze.
L'uomo bianco cammina sulla luna. Sbarra i canyon, devia i fiumi, mutando il loro corso per ottenere ciò che vuole. Ha costruito laghi dove prima non ce n'erano. Vola più in alto degli uccelli ed è più rapido del vento. Può prendere gli occhi da un uomo morto e metterli a un cieco per farlo vedere. Può anche estrarre il cuore di un uomo e darlo a un altro.
I nativi americani sono come un albero. Durante la nostra primavera e la nostra estate eravamo forti e belli. Poi arrivarono gli europei, per noi fu l'autunno. Più tardi con l'arrivo delle riserve, giunse il nostro inverno. Di ciò che eravamo è rimasto solo un ramo secco e fragile.
Ma le nostre radici erano forti. Abbiamo cominciato a raccogliere le nostre forze per ricrescere. Qualche nuova foglia è spuntata, come ad Alcatraz, come l'occupazione del BIA e Wounded Knee. E' ancora troppo presto in questa primavera del mondo dell'uomo bianco per noi, e queste foglie, aggrappate tenacemente alla loro nuova libertà, si gelano, appasiscono e muiono.
Ma la loro breve vita ha dato alle radici una speranza più forte e profonda. Nascono altre foglie, e un giorno le foglie vivranno. Poi ne spunteranno altre, e finalmente la pianta, noi nativi americani, sarà di nuovo alta, bella e forte. Come ho detto, sono una persona pacifica. Ma antichi tamburi di guerra stanno battendo nel mio cuore.

                                                              Joseph Blue Sky, 1974 Fort Defiance, Arizona
                                              

15.4.13

Castelnuovo di Scrivia: la coraggiosa, moderna lotta dei braccianti immigrati

L’importanza della componente immigrata nei conflitti sociali che attraversano diffusamente la penisola, trova una ulteriore conferma nella lotta dei braccianti marocchini di Castelnuovo di Scrivia, in provincia di Alessandria, sviluppatasi l’estate scorsa. Una lotta per la dignità e contro condizioni di lavoro estreme che presenta aspetti rivelatori, chiamando in causa una parte significativa dell’attuale capitalismo italiano.
Ce ne restituisce alcuni tratti – non senza elementi di cronistoria – Antonio Olivieri, sindacalista che molti conoscono anche per il suo impegno in quanto presidente dell’associazione Verso il Kurdistan, da anni promotrice di iniziative per lo sviluppo dei diritti umani in Turchia. Tale realtà sostiene in particolare progetti di cooperazione nel Kurdistan turco (allo scopo di “interrompere la spirale di violenza, guerra e militarizzazione che coinvolge la regione”). Ma l’attività di Olivieri e delle tante persone con cui collabora, comprende anche corsi d’italiano per gli immigrati che vengono a lavorare nelle campagne, che si svolgono nei diversi comuni della Bassa Valle Scrivia. Nonché il sostegno a tutte le iniziative svolte dal Presidio permanente (un prodotto – come vedremo – della lotta di Castelnuovo), tra le quali spicca uno sportello legale rivolto agli immigrati stessi.
Ciò rende chiaro perché lui e altri sono diventati un autentico punto di riferimento per tutti gli immigrati della zona.

Puoi spiegare, a grandi linee, le condizioni dei lavoratori di cui stiamo parlando? Sì, credo di poterlo fare prendendo a riferimento gli eventi dell’estate scorsa, quando un gruppo di lavoratori marocchini, donne e uomini, ha fatto emergere, nel profondo Nord, una realtà che nessuno conosceva, né poteva immaginare.
Castelnuovo Scrivia è un paese di poco più di 5 mila abitanti, al centro della Bassa Valle Scrivia, in provincia di Alessandria, sul confine con la Lombardia. La campagna, molto fertile, è coltivata in gran parte ad ortaggi e rifornisce i mercati di Torino e Milano, oltre a importanti aziende della grande distribuzione commerciale. Gli agricoltori della zona, da anni, affidano l’attività della raccolta a lavoratori stagionali, provenienti soprattutto dal Nordafrica.
Verso la fine del giugno scorso, quaranta donne e uomini marocchini, impiegati come braccianti presso l’azienda agricola “Bruno Lazzaro” di Castelnuovo Scrivia, hanno detto “basta!” alle condizioni in cui venivano costretti a lavorare: hanno incrociato le braccia ed hanno incominciato a presidiare i campi in cui lavoravano.
Le condizioni di vita e di lavoro di queste persone erano tra le più disumane, una sorta di schiavismo senza catene. Orari di lavoro insostenibili: si iniziava alle 6.30, si faceva una pausa di mezz’ora alle 14.30 e poi si tornava a raccogliere verdura sotto il sole cocente fin dopo il tramonto. Erano spesso costretti a dissetarsi bevendo l’acqua dei canali di irrigazione, acqua che arrivava direttamente dal torrente Scrivia!
Alcune donne erano alloggiate nell’azienda agricola in condizioni spaventose, dormivano in quattro, una sopra l’altra, tra rifiuti ed attrezzi da lavoro. Tutto questo per un salario che è eufemistico definire “da fame”: prima prendevano 5 euro all’ora, poi 4, poi solo sporadici acconti, infine più nulla. Da ciò, dovevano togliere anche le spese per il materiale che usavano per lavorare, come ad esempio, i guanti, gli stivali, il vestiario. Un aspetto inquietante della vicenda è il sospetto di una vera tratta di donne e di uomini gestita da organizzazioni criminali, tale da legare la Bassa Valle Scrivia ad alcune zone agricole del Marocco, da dove provengono questi migranti.

Visto che già sei entrato nel tema, ci piacerebbe che ci illustrassi le prime mobilitazioni, nonché la loro evoluzione... Venerdì 22 giugno 2012, un giorno come tanti, alle ore 6.00 del mattino, inizia la rivolta. Per la prima volta nella loro vita, questi braccianti incrociano le braccia, pronunciando la parola “sciopero”. Da soli. Poi chiamano noi. E diventano immediatamente visibili a tutti. Allestiscono un presidio di tende e frasche nei pressi della cascina, istituiscono una Cassa di resistenza per tirare avanti, chiedono l’aiuto alla Cgil, ad associazioni, partiti, cooperative sociali. Serve tutto: cibo, vestiario, aiuti. Sono anche giorni di forte tensione, tra picchetti, invasione dei campi per bloccare i crumiri, blocchi stradali e delle merci, denunce. Nasce il Presidio permanente, realtà auto-organizzata, composta da lavoratori e solidali, scaturita dalla lotta dei braccianti marocchini dell’azienda agricola “Bruno Lazzaro”, che continuerà anche dopo i 74 giorni del presidio sulla strada, dando vita peraltro ad uno sportello legale.

Qual è stata la risposta della controparte?
Un primo accordo sindacale tra la Cgil e la Cia (Confederazione Italiana Agricoltori: quella di “sinistra”, che rappresentava l’azienda “Bruno Lazzaro”) viene stracciato dal padrone, quando, da Brescia, fa arrivare una cooperativa di raccoglitori indiani, la Work Service, fatta di presunti cottimisti che si alzano alle quattro del mattino per essere nelle campagne castelnovesi alle prime luci dell’alba. E alla data del 31 luglio, i primi quattordici lavoratori marocchini vengono messi alla porta. Licenziamento verbale. Motivazione ufficiale: scadenza del contratto. Ma il contratto non esiste, quello prodotto dal padrone all’Ispettorato del Lavoro reca firme false, come pure le buste paga dell’anno in corso. Crescono rabbia e tensione. In mezzo ai campi di pomodori, in quei giorni, qualcuno avrebbe voluto lo scontro tra disperati – marocchini contro indiani - senza però riuscirci. La lotta si rafforza attraverso gli scioperi, i blocchi, le manifestazioni.
Venerdì 3 agosto. Una bella e grande manifestazione sindacale, come non si vedeva da anni per entusiasmo e partecipazione, ha attraversato la città di Alessandria, con in testa i braccianti della Lazzaro, dietro lo striscione “No sfruttamento, no schiavismo”. Dopo un primo sit-in davanti alla Prefettura, il corteo ha raggiunto la sede della Cia. “Schiavi mai”, “Giustizia, giustizia”, “Lazzaro vergogna, Cia vergogna”: sono gli slogan più gridati durante il percorso e nel secondo sit-in. Parte una campagna di boicottaggio contro i supermercati Bennet, tra i principali clienti dei Lazzaro. Grande scandalo, i pennivendoli del padrone si stracciano le vesti, i più moderati sostengono che la campagna danneggia gli stessi braccianti marocchini. Niente di più sbagliato: Lazzaro ha già deciso: nei suoi campi lavorano solo gli indiani della Work Service, che da dodici erano ormai diventati una trentina.
Manifestazioni, tavoli in Prefettura, ispezioni della Direzione provinciale del Lavoro e, infine, un’inchiesta della Procura della Repubblica di Torino che, come primo atto, ha riconosciuto il permesso di soggiorno ai lavoratori marocchini irregolari a seguito della denuncia per riduzione in schiavitù, non hanno fatto desistere la proprietà. La quale ha alzato nuovamente il tiro, con l’obiettivo di disfarsi dei restanti lavoratori marocchini. A metà agosto, compare un cartello incollato con nastro adesivo su un palo della luce, sulla strada, davanti al presidio dei lavoratori: “Dal 17 agosto, i marocchini dipendenti dell’azienda agricola Lazzaro Bruno e Lazzaro Mauro cessano l’attività presso la suddetta azienda e non lavorano più”. Licenziamenti, con un tocco di discriminazione razziale: il massimo!
Come nelle piantagioni del primo Novecento, quando non c’erano diritti e rappresentanze sindacali e tutto dipendeva dalla volontà del padrone della terra, da un giorno all’altro, tutti e quaranta i braccianti della Lazzaro si sono trovati senza lavoro, ed oggi, nonostante le vertenze aperte per i salari non corrisposti e i diritti calpestati, rischiano di trovarsi davanti agli sfratti esecutivi e al “taglio” delle utenze, loro che – ironia della sorte - avevano denunciato il padrone per grave sfruttamento e riduzione in schiavitù!

Questo paragone con la realtà di un secolo fa è interessante. Però, a nostro avviso andrebbe sviluppato adeguatamente. A partire dal fatto che l'area geografica di cui stiamo parlando, conobbe la “modernità capitalistica” ben prima di altre parti d'Italia. E che quindi, le condizioni di lavoro estreme, non necessariamente rimandano al ritorno ad un passato di arretratezza. A noi sembra che, ieri come oggi, esse pongano questioni che non rimandano solo al rapporto con il singolo padrone, investendo un intero ciclo produttivo... E' vero. Queste lotte, che esplodono in punti nodali ed avanzati della produzione capitalistica, rappresentano la novità dell'attuale fase neoliberista. Non sono lotte arretrate, pur se reagiscono a condizioni di sfruttamento simili a quelle praticate ai primordi del capitalismo o nelle regioni del Terzo Mondo. Sono lotte che tendono ad investire non il semplice “padrone”, ma a far emergere l’aspetto di filiera dello sfruttamento: non a caso, si parte dalle campagne - con le condizioni lavorative sopra descritte, una situazione comune a parecchie realtà della zona – e si arriva ai trasporti, ai centri distributivi delle grandi catene commerciali, dove la popolazione lavorativa e le condizioni di sfruttamento sono simili, e dove - grazie all’utilizzo di pseudo-soci e di pseudo-cooperative, che gestiscono in appalto queste realtà - si possono ignorare diritti, contratti e leggi sul lavoro. Per arrivare, infine, ai supermercati e ai centri commerciali delle grandi catene distributive, i veri padroni della catena. Sono loro a determinare le condizioni di oppressione e di sfruttamento dei contadini, che a loro volta si rifanno sulla manovalanza bracciantile, sono loro che cedono volentieri in appalto trasporti e centri distributivi per tagliare i costi della manodopera, evadere leggi e contratti e concentrarsi così sul “core business” delle vendite dirette al consumatore, imponendo prezzi e condizioni, sfruttando attraverso mille contratti precari e part-time, i propri dipendenti diretti.

Ci piacerebbe che tu approfondissi il ruolo del sindacato. Nel tanto demonizzato secolo scorso, pur tra innegabili contraddizioni, esso animava le lotte dei braccianti, mentre oggi sembra assumere un ruolo ambivalente... Siamo lontani dall’esperienza delle lotte bracciantili del secolo scorso. Ancora recentemente, leggevo un libretto scritto da un sindacalista, sulle prime lotte delle mondine nelle risaie del pavese e sul ruolo di guida esercitato dall’ allora Federbraccianti: c’è molto da imparare oggi da quelle lotte, da quei sacrifici, che hanno permesso grandi conquiste per tutto il mondo del lavoro!
Oggi, su questo versante, c’è, prima di tutto, una carenza di analisi: questi lavoratori, i migranti, non hanno bisogno di maggiore protezione, né di stare rinchiusi all’interno di un bozzolo; al contrario, proprio perché non hanno nulla da perdere, hanno bisogno di uscire allo scoperto, nonché di crescere nella coscienza e nella rivendicazione dei loro diritti. Sono loro che devono lottare in prima persona, contro le condizioni bestiali di sfruttamento e contro leggi ingiuste. E’ la lotta che rivendica ed afferma, è la lotta che rende protagonisti del proprio cambiamento.
C’è una inadeguatezza della pratica sindacale rispetto al mondo migrante. C’è il rischio che il sindacato diventi solo un utile strumento di pratiche assistenziali: rinnovo dei permessi di soggiorno, ricongiungimenti famigliari, vertenze individuali, assistenza in genere..

Prima hai descritto molto bene il rapporto tra le grandi catene distributive e la imprenditoria agricola. Secondo te, è possibile sviluppare dei legami tra i braccianti e quei lavoratori della logistica che, peraltro, hanno ottenuto un risultato considerevole con lo sciopero del 22 marzo e le cui battaglie hanno riguardato anche centri di distribuzione dell'agroalimentare? I rapporti sono tutti da costruire, e ci vuole tempo per farlo. D’altronde, ci sono innegabili diversità tra i due comparti: il bracciantato è disperso, frammentato, spesso in piccole aziende, risente di una forte precarietà lavorativa stagionale. Le lotte che ci sono state sono importanti, ma sporadiche.
C’è ancora molta strada da percorrere. Occorrono analisi, lavoro d’inchiesta, costruzione di momenti di aggregazione, e bisogna ricreare occasioni di conflitto, perché esso è l’unico strumento in grado di produrre risultati per i lavoratori migranti. Si deve muovere dalla consapevolezza che siamo davanti non solo ad un problema sindacale, ma politico, che investe tutta la filiera dell’agroalimentare. 

A cura de Il Pane e le rose – Collettivo redazionale di Roma 

Mercoledì 17 Aprile @ Pisa: Presidio itinerante P. Dante ore 11

La mattina del  26 febbraio 2013 con un’operazione congiunta delle digos di Pisa, Lucca e Spezia sono state effettuate perquisizioni a casa di due compagni, denunciati con l’accusa di aver tentato di incendiare una bandiera italiana durante la manifestazione del 12 maggio scorso, corteo svoltosi a Pisa  per ricordare Franco Serantini a 40 anni dalla sua morte.
La rabbia nei confronti di questo sistema che sfrutta, opprime e schiaccia sempre più la libertà di tutti può prendere molte forme: stracciare o bruciare un pezzo di stoffa che rappresenta l’idiozia dell’idea di patria è un minimo gesto di rifiuto che rientra perfettamente nel contesto di una manifestazione come quella che voleva ricordare un ragazzo di vent’anni ammazzato a forza di botte per essersi opposto alla feccia che in quel lontano 1972 continuava a proporre la malata ideologia del fascismo.
Che dopo quasi un anno la digos si presenti a casa di alcuni compagni indagati per un “reato di piazza”, oltre ad essere una chiara provocazione, rientra in quella logica di gestione dell’ordine pubblico che preferisce le denunce alle manganellate. Con le denunce si vuole estrapolare dal contesto di piazza quelle azioni che maturano al suo interno.
In un momento di crisi sociale che può generare vampate di dissenso diffuse, lo Stato prova nuove strategie di gestione della conflittualità. Con la repressione più spiccia, cariche, botte etc.. c’è sempre il rischio di intaccare la facciata civile e democratica funzionale al sistema e in alcuni casi di alzare il livello di scontro rafforzando la contrapposizione, con le denunce invece, agendo quando il livello di scontro è pari a zero, quindi necessariamente in crescendo, si insinuano minacciosi, provocatori, e più efficaci i tentacoli della magistratura. Se a questo si affianca l’immancabile collaborazione della stampa, sempre pronta a demonizzare, banalizzando e distorcendo un contesto di lotta, il vuoto intorno è “assicurato”.
Lavorano per una pacificazione sociale democraticamente accettabile, convinti di logorare e di fiaccare gli animi, attraverso decreti penali, multe, obbligo di firma anche durante le manifestazioni, (il cosiddetto Daspo politico sperimentato in città come Torino, Milano e Bologna), fino ad arrivare a pene “esemplari” come quelle emesse per gli scontri del G8 di Genova, fino a 15 anni di carcere, o per i più recenti scontri del 15 ottobre 2011 a Roma, con condanne che arrivano fino a 6 anni.
Per noi le pratiche di piazza, come qualsiasi altra pratica di lotta, patrimonio del movimento rivoluzionario, sono legittime in quanto espressione di rivolta e conflittualità auto-organizzate. Le abbiamo messe in pratica e continueremo a farlo, consapevoli delle conseguenze e decisi a non perdere terreno, ne agibilità politica; che siano cariche denunce o condanne, tutti uniti senza far passi indietro.

A devastare e saccheggiare è il capitale

 
Devastazione e saccheggio: questo il reato sempre più utilizzato per colpire chi lotta contro questo putrido sistema.
Dopo anni di oblio i pm rispolverano questa fattispecie prima sperimentandola negli stadi, da sempre terreno di conflitto, poi trovandone la geniale applicazione nei processi del g8 di Genova, geniale perchè questa fattispecie di reato permette di evitare gli sconti di pena dei reati continuati (es. danneggiamento +resistenza a pu +furto) , ha un termine di prescrizione lunghissimo ed ha inoltre il “pregio”, perlomeno nella lettura data dai giudici sempre più spesso, di non necessitare di verifiche empiriche della commissione del fatto ciminoso e della volontarietà dello stesso (non mancano infatti nelle sentenze riferimenti del tipo “era dalle ore 12 alle 18 nel gruppo di quei soggetti individuati come violenti ed è da presupporsi che abbia agito” oppure “pur non commettendo personalmente partecipava moralmente con la sua presenza rafforzatrice dell’intento criminoso”).
Si capisce come in una cornice di piena crisi economica questo reato risulti una vera manna per chi veda la piazza come un nemico da combattere con ogni mezzo necessario, dalla violenza arbitraria all’uso del diritto e della legge borghese, che nulla ha a che vedere con la giustizia sociale che noi comunisti vorremmo.
Spesso si cerca di ricondurre questo reato ad un’eccezione, lo si definisce fascista perchè, come la maggior parte dei reati in realtà ,inscritto nel codice penale stilato in quell’epoca. Ma ciò è riduttivo, perchè i reati del codice che fanno comodo al capitale sono stati democraticizzati (si veda la corruzione che non è più un reato contro la fedeltà allo stato ma contro l’imparzialità verso i cittadini), è chiaro dunque che il capitalismo usa la carota per quei reati che rendono più agevole l’asservimento dell’apparato istituzionale ai suoi poteri economici, mentre usa il bastone con quelli che chiama cittadini, con ipocrisia, ma che sa nemici dello status quo.
Ecco allora che un reato non serve tanto a punire chi lo commette ma un qualsiasi capro espiatorio anche sulla base di una semplice foto, ecco che diventa strumento deterrente verso chi vorrebbe esprimere il suo la propria rabbia nelle piazze e non solo in un periodo in cui è ormai chiara l’inadeguatezza del sistema economico vigente e la sua insopportabile ineguaglianza.
Il tutto si inserisce in un ottica di militarizzazione che smaschera il vero ruolo delle istituzioni come garanti dello stato di cose attuali, in un epoca dove la devastazione e il saccheggio, quello vero e quotidiano, è operato dal capitale ai danni dell’esistenza di milioni di lavoratori.
Si capisce dunque la paura che lor signori hanno rispetto a un conflitto non più unilaterale.
Stringiamoci attorno a quei compagni e a quei ragazzi che sono stati arrestati per aver praticato lotta di classe e che sono stati colpiti per punire tutti coloro che non chinano il capo.
Fuori i compagni dalle galere! Davide libero!
il miglior gesto di solidarietà è continuare a lottare!

COMBAT VITERBO

fonte: Combat-coc.org

12.4.13

Cile, 150.000 in piazza a Santiago per la marcha estudiantil

 
Non si ferma la mobilitazione degli studenti cileni che in queste settimane sono tornati a riempire le strade di tutto il paese contro le politiche neoliberiste del governo che stanno attaccando anche il mondo della formazione: dopo le due manifestazioni tenutesi nel mese di Marzo, quest’oggi studenti medi e universitari si sono dati appuntamento a Santiago per una nuova marcha estudiantil.
150.000 persone hanno invaso le strade della capitale con un lungo corteo composto da giovani e giovanissimi ma anche da molti genitori, insegnanti e lavoratori della formazione che nei giorni scorsi hanno raccolto l’invito alla mobilitazione lanciato dagli studenti.
La manifestazione si è snodata lungo una delle arterie principali della città, via Alameda, fino a raggiungere la stazione Mapocho: proprio qui sono scoppiati scontri tra alcuni encapuchados che hanno iniziato a rimuovere le transenne ‘di contenimento’ poste all’arrivo del corteo e le forze dell’ordine, che hanno reagito duramente con idranti, lancio di lacrimogeni e di pallottole di gomma ripiene di vernice, usate per riconoscere chi ha partecipato agli scontri. Queste ultime in particolare hanno causato diversi feriti perché sparate all’altezza del viso da parte dei carabineros; almeno 6 persone sono state fermate.
Grosse manifestazioni si sono tenute anche in diverse altre città del Cile, come a La Serena, Valparaiso, Concepción e Temuco y Valdivia.
All’esplosione di scontri al termine del corteo della capitale è seguita ancora una volta la presa di distanza dei sindacati studenteschi che dall’inizio del movimento studentesco hanno sempre cercato di marginalizzare e criminalizzare la sua parte più conflittuale, quella dei giovani encapuchados che animano le piazze cilene.
La giornata di oggi ha comunque rappresentato una prova importante di come il movimento degli studenti, dal 2011 ad oggi, abbia tutt'altro che esaurito la propria spinta e ha lanciato un messaggio chiaro al governo di Pinera e al ministro dell'istruzione Beyer che con le loro politiche a base di ricette neoliberiste stanno facendo dell'istruzione un mero strumento di lucro, innalzandone sempre più i costi e restringendone le possibilità di accesso. La manifestazione ha anche lanciato una sfida al governo in vista delle prossime elezioni di novembre, durante le quali le promesse elettorali non potranno non tenere conto delle rivendicazioni dei diversi movimenti sorti in questi anni in Cile.

fonte: Infoaut.org

All Power to the People (7)


11.4.13

Una notte lunga 500 anni

 A 94 anni dalla tua morte noi siamo ancora qui. Figli della lunga notte alla quale siamo stati condannati secoli fa, eredi di un destino come il tuo; degli esseri umani che ostinatamente rifiutano di credere nell'oscurità eterna e aspirano a quelle che un giorno, finalmente, saranno mattine diverse.
 


8.4.13

Ilva, "Il disastro ambientale è riconducibile ai Riva"

La mobilitazione dei lavoratori e dei cittadini contro la fabbrica di morte e lo sfruttamento capitalista che distrugge le vite degli operai e degli abitanti della città ha dimostrato che anche in una società capitalista che mette al primo posto il profitto, organizzandosi in modo indipendente dal padrone e dai suoi servi, sui propri interessi di classe è possibile lottare contro la nocività in fabbrica, per rivendicare il posto di lavoro e la salute.
Dopo le prime mobilitazioni reazionarie organizzate dal padrone e dai sindacati collaborazionisti Fim-Cisl. Fiom-Cgil. Uilm-Uil. a difesa dello sfruttamento operaio e della fabbrica che inquina e uccide così com’e, la presa di coscienza in gruppi sempre più numerosi di operai e la saldatura fra il movimento operaio e le manifestazioni popolari organizzate dal Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti ha pesato anche sulle istituzioni ”democratiche” a cominciare dalla magistratura. Nonostante il comitato d’affari della borghesia pro tempore (il governo Monti con il ministero dell’Ambiente) abbia concesso al padrone attraverso l’AIA (autorizzazione integrata ambientale) di continuare a produrre e inquinare per tre anni, il 4 aprile la Suprema Corte ha reso note le motivazioni con cui ha convalidato il 16 gennaio scorso gli arresti domiciliari ai padroni Emilio e Nicola Riva e all'ex direttore dello stabilimento di Taranto Capogrosso. Per la Cassazione gli imputati conoscevano i rischi ma hanno perseverato nel disastro ambientale. L’Ilva di Taranto è di proprietà del gruppo Riva, quindi i padroni sono colpevoli, secondo la prima Sezione Penale.
Per la Corte "il disastro ambientale" nella vicenda dell'Ilva di Taranto "era certamente riconducibile anche alla gestione successiva al 1995, quando è subentrato il gruppo Riva nella proprietà e nella gestione dello stabilimento siderurgico e che gli accertamenti effettuati hanno chiarito che l'inquinamento è attuale".

In particolare la Suprema Corte, nelle motivazioni contenute nella sentenza 15667, sottolinea come il Tribunale del Riesame di Taranto, il 7 agosto 2012, abbia evidenziato, "la pervicacia e la spregiudicatezza dimostrata da Emilio Riva e dal Capogrosso, ma anche da Nicola Riva, succeduto alla presidenza del Consiglio di amministrazione in continuità con il padre, che hanno dato prova, nei rispettivi ruoli, di perseverare nelle condotte delittuose, nonostante la consapevolezza della gravissima offensività per la comunità e per i lavoratori delle condotte stesse e delle loro conseguenze penali e ad onta del susseguirsi di pronunce amministrative e giudiziarie che avevano già evidenziato il grave problema ambientale creato dalle immissioni dell'industria".

Quanto al pericolo di reiterazione del reato, la Cassazione segnala che il parere positivo espresso dal Tribunale è "coerente e non è contraddetto né dalla circostanza che gli impianti sono stati sottoposti a sequestro preventivo, né dal venir meno delle cariche degli indagati nell'azienda".
Del resto, fa notare la Cassazione, "i Riva, pur non avendo più cariche, hanno tuttora la proprietà dell'azienda con quel che ne consegue in termini di interesse in ordine alle sorti dello stabilimento; inoltre, sono titolari del gruppo Riva".

Stesso discorso vale per l'ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso "tuttora dipendente dell'Ilva e del quale il Tribunale ha compiutamente evidenziato la gravità e la reiterazione delle condotte e la piena condivisione delle scelte aziendali consolidate negli anni".
La Cassazione - nelle motivazioni - scrive anche che "è risultato che le concrete modalità di gestione dello stabilimento siderurgico dell'Ilva hanno determinato la contaminazione di terreni ed acque e di animali destinati all'alimentazione in un'area vastissima che comprende l'abitato di Taranto e di paesi vicini nonché un'ampia zona rurale tra i territori di Taranto e Statte tali da integrare i contestati reati di disastro doloso, omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, avvelenamento di acque, posti in essere con condotta sia commissiva che omissiva, con coscienza e volontà per deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti che si sono avvicendati alla guida dell'Ilva i quali hanno continuato a produrre massicciamente nella inosservanza delle norme di sicurezza con effetti destinati ad aggravarsi negli anni". Per questo i reati contestati sono disastro doloso, omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, l'avvelenamento di acque e di sostanze alimentari.
Ancora una volta si evidenzia che il "... il capitale non ha riguardo per la salute e per la durata della vita dell'operaio, quando non sia costretto a tali riguardi dalla società" (Karl Marx.)

(*) Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel territorio

Anteprima della rivista “nuova unità”

Michele Michelino


fonte: Il Pane e le Rose

Ragazzo africano picchiato dalla polizia a Roma Termini

Roma, stazione Termini. In via Giolitti, all’ingresso laterale, giovedì 4 aprile (verso le 18, 30) un ragazzo africano è stato fermato da alcuni poliziotti (sull’Espresso Ernesto Maria Ruffini parla di 6 o 7 agenti), per poi finire a terra circondato dagli stessi poliziotti. Decine di persone hanno scattato foto o girato video con i cellulari. Tra queste anche  una donna nigeriana, che, rifiutatasi di consegnare il suo cellulare con le foto appena scattate, è stata a sua volta fermata per resistenza a pubblico ufficiale. L’associazione A buon diritto cerca testimoni e autori di foto e filmati relativi all’episodio. Scrivete ad abuondiritto@abuondiritto.it

Subverso & Portavoz - Lo Que No Voy A Decir


Wikileaks: Il Vaticano appoggiò il golpe contro Allende e collaborò con Pinochet


Questo lunedì Wikileaks ha reso pubblici quasi due milioni di documenti diplomatici segreti degli Stati Uniti, risalenti agni anni '70. Tra questi, alcuni rivelano la complicità effettiva del Vaticano nel colpo di Stato contro Salvador Allende in Cile (1973)e la sua collaborazione e il suo sostegno, alla dittatura militare di Augusto Pinochet (1973-1990).
Uno dei documenti, datato 18 ottobre 1973, afferma che il sostituto del segretario di Stato vaticano, Giovanni Benelli, espresse ai diplomatici statunitensi la "sua grave preoccupazione come quella di Paolo VI, per l'esito della campagna internazionale della sinistra per distorcere completamente la realtà della situazione cilena".
Un altro documento sostiene che il Vaticano difese il regime di Pinochet, "negando le repressioni denunciate", tacciate di "propaganda comunista".
La Santa Sede bollò come "esagerata copertura degli eventi (in Cile) quella che fu la propaganda comunista di maggior successo" e riconobbe che anche "circoli di moderati e di conservatori sembravano disposti a credere alle grossolane menzogne sugli eccessi della giunta cilena".
Pur ammettendo che ci fu qualche spargimento di sangue, il Vaticano si richiamò alla nunziatura apostolica in Santiago e ai vescovi cileni affermando che "la giunta stava facendo tutto il possibile per riportare la situazione alla normalità e che le notizie di stampa che parlavano di repressione brutale non avevano fondamento".
I documenti includono missive di delegazioni diplomatiche, rapporti degli organi di intelligence, così come la corrispondenza col Congresso  sulle questioni di politica estera.
Il quotidiano spagnolo 'Público' ha spiegato che Benelli era il secondo in comando della Santa Sede, perchè il segretario di stato vaticano, Amleto Giovanni Cicognani, era troppo anziano.
Durante il suo mandato Benelli, come braccio destro di Paolo VI, si guadagnò il soprannome di "Kissinger del Vaticano", a causa di coloro che descrivevano la sua gestione aggressiva ed autoritaria, esattamente come quella del segretario di Stato degli Stati Uniti di quel momento, Henry Kissinger.
Benelli fu ricevette il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon (1969-1974). L'elicotterò di Nixon atterrò in Plaza de  San Pedro, nel 1969, per suggellare l'alleanza anticomunista tra la Casa Bianca e il Vaticano, all'origine dei vari colpi di Stato nell'America latina.
Il fondatore di Wikileaks, l'austrialiano Julian Assange, ha riferito che questi documenti erano già disponibili negli archivi nazionali degli Stati Uniti. Wikileaks li ha solo ricopiati, indirzzato e sistematizzato la loro consultazione.

fonte: BioBioChile

5.4.13

Io non sto con le Femen


dal blog:' i consigli di zia jo

Le ho conosciute le Femen italiane al secondo Feminist Blog Camp, non erano quelle famose alte magre magre molto bianche bionde tipo Inna Schevchenko, che trovi in ogni dove sui quotidiani più pruriginosi (tipo RePubica e Le Ore), erano proprio ragazze italiane: simpatiche, intraprendenti, con le idee chiarissime su ciò che vogliono ottenere e su come.
Le ho tempestate di domande e mi hanno riposto belle precise e dirette come piacciono a me, perfino sulla loro contrarietà alla prostituzione volontaria. Però io non sto con le Femen, e mi spiace un po’ dirlo perchè mi sembra retorico ma forse era anche ora che lo dicessi che le loro azioni non le condivido proprio per niente.
Per oggi le Femen hanno organizzato la “Topless Jihad” per la “liberazione” di Amina (una Femen tunisina di cui non si hanno notizie confortanti per il momento) in varie città e non si capisce perchè l’azione più clamorosa si sia tenuta a Parigi davanti ad una moderatissima moschea, che proprio un covo di cattivi salafiti non è, oltretutto in Francia che non mi risulta essere la Tunisia, ma forse gli si sarà spirato il passaporto sennò potevano prendere anche la nave, ricordo che un tempo c’era il traghetto Tirrenia che partiva una volta a settimana da Cagliari, ma volendo potevano prendere pure la SNCM che i corsi, per dirla alla Julio Iglesias, sono un po’ pirati un po’ signori..
Ma sto divagando.
 
Tra i mille gossip che circondano le loro azioni arriva perfino la voce che alcune attiviste francesi abbiano abbandonato Femen durante questa “topless jihad”: purtroppo ormai non si sa più se credere o no a ciò che accompagna questa organizzazione, l’unica cosa reale sono le immagini di poliziotti che si accaniscono su ragazze seminude e indifese, spesso trascinate con la forza: uomini coraggiosissimi che compiono sforzi sovrumani per allontanare queste esili donne armate di tette nude pericolosissime, come ben insegna la mitica Afrodite A.
Trovo curioso anche che le Femen non siano andate a manifestare pro Amina durante il Forum Sociale Mondiale che si è chiuso solo 4 giorni fa proprio a Tunisi: lì avrebbero trovato le compagne anarcofemministe di Feminism Attack e molte altre femministe tunisine. C’erano perfino le donne che rivendicano il niqab come strumento antioppressivo e anticoloniale, magari ci si poteva, perchè no, parlare, ma si sa che io ho idee stranissime su come debbano andare le cose tra esseri umani.
Tra le tante anime che agitano la Tunisia in questa grande transizione nessun movimento di supporto è nato per il caso di Amina, un caso tutto occidentale che trova il suo apice nella marea islamofoba che ormai monta in tutta Europa e trova terreno fertile in tante donne bianche che non lottano più per se stesse ma per liberare bovera donna afrigana obbressa.
In questi giorni ormai lo smarcarsi prende il largo, mi imbatto perfino in una pagina facebook dal titolo esplicativo: “La Femme Tunisienne n’est ni Femen ni Meherzia” dove per Femen si intende Femen e per Meherzia si intende proprio Meherzia Labidi del partito Ennahda: invece delle immagini di Amina che occhieggiano ovunque dai nostri informatissimi media troviamo le foto dell’immarcescibile Nawal al Sa’dawi, vera fonte di ispirazione e grande punto di riferimento per tantissime femministe arabe.
Sui siti italici invece è tutto un montare di notizie assurde e fugaci tra blogger che ci danno notizia dell’instaurazione della shari’a (così, da un giorno all’altro) e giornalisti che si inventano lapidazioni pubbliche di donne con il seno scoperto: tutto ciò farebbe anche molto ridere se non fosse che fino a poco tempo fa questa gente stava tutta affacciata a osservare la famosa “primavera araba”. I technocuriosi che erano impegnati a discettare di politica su Nawaat de Tunisie e a fare tanto i fighi su come il “dégage” poteva finire ora non sanno più nulla, che sarà successo bho, questi tunisini sono spacciati, per fortuna ci sono le Femen che fanno finalmente luce sulla condizione delle donne tunisine e forse forse riusciranno pure a toglierglielo questo velo, magari strappandoglielo anche di dosso, chissenefrega.
Io non sto con le Femen, non riesco proprio a starci, preferisco mille volte stare con le donne che desiderano autodeterminare la propria lotta senza interventi neocolonialisti di donne islamofobe che ormai si trovano un po’ ovunque, sono come la zizzania, tutte molto impegnate a fare guerra a sorelle che per un malcelato razzismo sarebbero più oppresse di loro e che proprio non ne vogliono sapere di essere liberate. Fortunatamente.
 
 

2.4.13

Le stragi dimenticate nell'Italia post elettorale


Lampedusa. Un silenzio di tomba, è il caso di dire, è calato sui migranti di Lampedusa, sulle centinaia di persone approdate o salvate in mare in questi giorni. Sfogliando le pagine web dei quotidiani, le notizie al riguardo o non si trovano o sono scivolate in fondo, tra immagini di sfilate di moda e storie di orsetti polari. E che dice il governo? Nulla, assolutamente nulla. Come se lo shock post-elettorale e l'incertezza sulla crisi avessero cancellato non solo l'esistenza delle informazioni, ma quella degli esseri umani alla ventura nel canale di Sicilia. Salvati da una motovedetta, due stranieri sono morti assiderati tra decine di compagni. E perché? Perché a bordo non c'erano medici.
Non c'erano medici perché era scaduta dal 2011 la convenzione con l'associazione che forniva l'assistenza sanitaria sulle motovedette. La convenzione scaduta dal 2011? Come mai il governo Monti, o chi per lui nella catena burocratica (vero, ministri Cancellieri, Di Paola ecc.?) non si è preoccupato di rinnovarla, tanto più che ogni primavera ricominciano gli sbarchi o gli arrivi dei migranti? Forse per mancanza di fondi? E allora perché non imbarcare medici militari? I miliardi di dollari per comprare i caccia F-35, che ora persino il Pentagono vuole scartare, si sono trovati, ma poche decine o centinaia di migliaia di Euro per assistere in mare i migranti, questo no. Così è la crisi, signori.
Nel frattempo si moltiplicano le segnalazioni sul rimpatrio coatto dei minori, una misura illegale da sempre praticata in Italia . Ci eravamo illusi che con il ritorno di Maroni ai suoi giochetti padani lo stato manifestasse un minimo di sollecitudine verso gente che scappa da paesi in fiamme, in piena guerra civile o oppressa dalla carestia o da una povertà ben più paurosa della nostra. Ma no, al razzismo dichiarato sono subentrati indifferenza e silenzio.
Un tempo, che migliaia di persone rischiassero la vita per avere una chance in questa maledetta Europa provocava l'ostilità aperta della Lega e del Pdl e quella a denti stretti di gran pare dell'arco politico. Beppe Grillo, oggi salutato da alcuni come vendicatore di una sinistra umiliata, scrisse qualche anno fa di «sacri confini della patria» violati da rumeni e orde di poveracci in marcia verso l'Italia. Poi nulla. Nel non-programma del non-movimento a 5 stelle non si trovano tracce della questione. Forse per non creare ulteriori divisioni nelle diverse anime del popolo grillino. Eppure, nonostante la crisi politica abbia oscurato tutto - dalla situazione delle carceri all'inesistenza politica dell'Italia sulla scena internazionale - la realtà è sempre lì a gridare inascoltata.
C'è qualcosa di orrendo nel modo burocratico in cui l'umanità, in questo Paese, viene calpestata e la verità negata. Berlusconi è andato a bombardare Gheddafi, dicendo di non volerlo fare. Ce ne andiamo alla chetichella dall'Afghanistan, di cui nessuno parla più. La sorella di Giuseppe Uva, morto in ospedale dopo aver passato la notte in una caserma, viene indagata per diffamazione dei carabinieri. I responsabili della vergognosa piazzata sotto la finestra della madre di Aldrovandi vengono stigmatizzati da tutti - tranne che dal mitico Giovanardi -, ma «non verranno presi provvedimenti disciplinari nei loro confronti» (Cancellieri). Che dunque i migranti muoiano in mare per una convenzione non firmata non dovrebbe sorprendere nessuno. È l'ennesima manifestazione della tenebra in cui questo Paese è immerso. 

Alessandro Dal Lago, il manifesto

fonte: Il Pane e le Rose

Cile, gli studenti rilanciano la protesta

 
Una manifestazione di massa con centinaia di arresti e un'escalation di riots notturni nel pieno centro di Santiago hanno rimesso al centro dell'attenzione della società cilena la protesta di decine di migliaia di studenti, medi e universitari, proprio in questi giorni. Una protesta che, lungi dall'essere occasionale, continua con diversi livelli di intensità da oltre due anni, e ha contribuito a generalizzare il dissenso verso le politiche neoliberiste del governo di Sebastian Piñera e del ministro dell'educazione Harald Beyer.

Il 28 marzo, su chiamata delle principali sigle studentesche, una manifestazione (marcha estudiantil) di ottantamila studenti ha percorso in lungo e in largo le lunghe avenues della capitale. Un corpus di studenti, molti dei quali giovanissimi, molto colorato e determinato, accompagnato dalla solidarietà crescente di anziani e disoccupati che si sono uniti al corteo.

Evidentemente il Governo in carica ha mal digerito la grandezza numerica della manifestazione in prossimità di nuove elezioni. Così il corteo è stato deliberatamente attaccato dai Carabineros, che con blindati dotati di cannoni lancia-acqua e lanci di gas lacrimogeni hanno letteralmente spezzato in due la manifestazione, scatenandosi in una caccia al manifestante che da almeno due anni a questa parte è una consuetudine delle forze repressive. Una forzatura indiscriminata che ha visto le fila maggiormente ribelli di studenti opporre resistenza con barricate incendiarie e lanci di pietre. Alla fine della giornata gli arresti, di cui la maggiorparte del tutto arbitrari, erano stimati in più di trecento. Molte persone dall'interno della manifestazione han potuto filmare/fotografare gli arresti immotivati di ragazzi sotto i 15 anni e, in alcuni casi, le molestie di alcuni carabineros intenti a palpeggiare delle studentesse prima di caricarle nei furgoni blindati.

La denuncia degli abusi di polizia relativi alla giornata del 28 Marzo è stata netta da parte delle organizzazioni studentesche, meno dalla “società civile” grazie al lavoro di censura – mistificazione operato dalle principali emittenti televisive inu questi giorni. Ciononostante, una risposta determinata alla repressione si è data nella notte tra il 30 e il 31 marzo, lungo le strade del centro di Santiago, quando centinaia di ragazzi incappuciati hanno bloccato delle strade secondarie con barricate incendiarie, ingaggiando per diverse ore il conflitto con i Carabineros. Lancio di lacrimogeni, getti d'acqua e pallottole di gomma da una parte, sassi e molotov dall'altra. Numerosi i blindati dati alle fiamme e decine le vie rimaste impraticabili per ore e ore nel cuore della capitale.

Torna a prendere slancio dunque la protesta studentesca, alimentata anche dalla recente serie di scandali nell'ambito dell'educazione universitaria che dimostrano come questa si sia convertita in un “vile affare” con il coinvolgimento attivo del ministro dell'educazione nell'alimentare i casi di lucro. Per l'analista Waissbluth è indubbio che il contesto di crescenti proteste in periodo pre-elettorale porrà la questione educativa come un problema ineludibile di tutte le forze politiche in campo e per chi aspira al mandato di nuovo presidente del governo in Cile. 
 
fonte: Infoaut.org