30.11.14

Chi ha paura del LP Iskra?

Il comunicato dei compagni del Laboratorio Politico Iskra di Napoli colpiti in questi settimane da un'infame campagna mediatica dei soliti pennivendoli tesa a screditare una delle poche realtà politiche essa stessa espressione di un territorio che da anni sta conducendo un esemplare percorse di lotte e rivendicazioni a fianco di lavoratori, disoccupati, studenti, contro ogni polititicantume borghese. Ai compagni napoletani tutta la nostra solidarietà.

Sono passate tre settimane dalla grande risposta di piazza con cui Bagnoli ha mandato un inequivocabile avviso di sfratto per Renzi e i suoi luridi servi del PD napoletano, ma evidentemente queste settimane non sono state sufficienti al quartier generale del partito di Confindustria e degli speculatori per digerire il boccone amaro e capire che il quartiere che per 20 anni ha subito passivamente i loro scempi e i loro crimini, oggi gli sta presentando il conto e pretende la loro cacciata a furor di popolo.
Dopo che il movimento contro lo SbloccaItalia anche nei giorni successivi al 7 novembre ha prontamente rispedito al mittente i tentativi di criminalizzazione e i teoremi repressivi orditi a Palazzo Chigi e strombazzati ai quattro venti dai gregari locali di Renzi in una macchina del fango che è giunta fino all’ultimi valvassini di stanza a Palazzo San Giacomo e alla X municipalità, ecco che questi ultimi, impotenti di fronte al disprezzo crescente nei loro confronti, si giocano l’ultima carta: additare il LP Iskra quale regia occulta degli episodi di vandalismo e bulloneria avvenuti negli ultimi giorni in alcune scuole occupate.
Ma il PD napoletano dev’essere messo davvero male se per rendere credibile il suo ridicolo e sbilenco Tribunale dell’Inquisizione è costretto addirittura a rifugiarsi sotto la sottana della mediocre ed isterica Anna Mazzarella, preside dell’ITC Giordani reinventatasi per l’occasione novella giustiziera della notte a caccia del “pericoloso studente in occupazione” contro la macelleria sociale messa in atto del suo amato premier , o di un vecchio arnese del bassolinismo quale l’ex assessore Angela Cortese…
Questi infimi personaggi in cerca d’autore (o meglio di scoop giornalistico) non hanno neanche il minimo senso del pudore: decenza vorrebbe che tacessero di fronte alla fitta ragnatela di interessi privati che accompagna le loro biografie pubbliche e private.
Dietro il volto di “eroina della legalità” di cui Anna Mazzarella vorrebbe ammantarsi si nasconde il volto putrido di una casta di intoccabili che da anni regge i fili del potere napoletano, dietro i suoi intenti giustizialisti si nasconde il volto di Eugenio Mazzarella, vecchia cariatide del baronato napoletano e sodale del più celebre Paolo Macry (già distintosi nelle scorse settimane per le sue violente sfuriate contro il movimento del 7 novembre), e che non a caso è sul libro paga del PD nelle vesti di deputato.
Mentre il caro Eugenio a Montecitorio cancella con un colpo di pulsante i diritti dei lavoratori conquistati con duri anni di lotta, e con un altro vota a favore della devastazione ambientale e del saccheggio dei territori sanciti con lo Sblocca Italia, la sorella sbraita contro gli studenti in occupazione addossandogli le colpe di una serie di raid che evidentemente sono stati pianificati in stanze molto vicine alle loro.
Tutto ciò non ci sorprende: si tratta degli stessi personaggi che hanno simulato l’incendio di Città della Scienza pur di poter ricostruire sulla spiaggia; si tratta degli stessi personaggi che portano sulle loro spalle la responsabilità materiale, politica e morale delle centinaia di morti di tumore a Bagnoli; si tratta degli stessi personaggi che blaterano di giustizia ma non hanno osato pronunciare una sola parola di condanna per la vergognosa sentenza che ha assolto gli assassini dell’Eternit!
Ma anche questo non ci sorprende: con quegli assassini il PD ci è sempre andato a braccetto!
Stiano tranquilli questi piccoli allievi di Goebbels: non è il LP Iskra che trama contro di loro, è l’intera parte proletaria della città che è stanca di subire le loro provocazioni, la loro ipocrisie, il loro marciume.
Il 7 novembre Bagnoli ha detto basta con questi cadaveri in putrefazione: e i loro squallidi castelli accusatori non serviranno a riportarli in vita!

Laboratorio Politico Iskra
Comunisti per l'Organizzazione di Classe - Napoli


16.11.14

La Furia! - Consuma

Brasile al bivio dopo le presidenziali

 
La vittoria di misura di Dilma Rousseff alle presidenziali di fine ottobre (con il 51,6% al ballottaggio con Aecio Neves che si ferma al 48,4%) non fa che registrare una spaccatura non risolta all’interno della classe dirigente brasiliana (Nota 1).
Determinante per la sua vittoria è stato il voto degli stati più poveri, dove percentualmente sono più numerosi i beneficati dai programmi di sussidi come la Bolsa Famula e Fome Zero. Essa raccoglie più del 60% dei voti in Amazzonia, nel nord e nel nord-est, dove prevale la popolazione nera o meticcia (in un villaggio del Marnhao, uno degli stati più miserabili la Rousseff ha raccolto il 94% dei consensi…), mentre votano per il suo avversario il sud e il sud-ovest, cioè gli stati più ricchi, più istruiti e industrializzati e a maggioranza bianca. A San Paolo Neves, considerato il campione dei brasiliani bianchi, dei grandi industriali e degli immobiliaristi, raccoglie il 64% dei voti.
I fautori delle politiche di Lula-Rousseff esaltano la politica sociale che ha fatto uscire dalla povertà estrema un quinto dei brasiliani, sia con sussidi e prezzi agevolati, sia triplicando in 12 anni il minimo salariale. Di questo programma sociale hanno usufruito 14 milioni di famiglie (pari a circa 50 milioni di brasiliani). Il potere d’acquisto medio dei lavoratori dipendenti è migliorato anche se il gap fra ricchi e poveri in Brasile resta uno dei più forti del mondo. I detrattori hanno sempre sostenuto che lo stesso risultato si ottiene con uno sviluppo sostenuto dell’economia, mentre la distribuzione a pioggia dei benefici e il clientelismo che ha dominato i criteri di distribuzione ha accresciuto la piaga della disoccupazione pubblica. Molti “beneficati” inoltre si trovano fortemente indebitati (ad es. per la casa), l’inflazione è in aumento (6,7%) e solo il tasso di disoccupazione ai minimi storici (4,9%) resta un dato confortante.
Al contrario fra il 2013 e il 2014 è scoppiata la rivolta della cosiddetta “classe media”: proteste di piazza per i numerosi casi di corruzione (in prima fila uno scandalo di fondi neri e bustarelle riguardante la Petrobras, la potente azienda petrolifera di stato), ma anche contro le spese pazze in occasione dei Mondiali di calcio, ma soprattutto per la infima qualità dei servizi pubblici.
Infatti la qualità dei servizi pubblici, dalla sanità alla scuola, ma soprattutto dei trasporti e delle infrastrutture è molto scadente. Un quarto delle case nelle grandi città manca ancora di copertura fognaria, solo il il 14% delle strade è asfaltato. Soprattutto le piccole e medie imprese lamentano il basso gradi di preparazione della manodopera (che contrasta con le eccellenze scientifiche delle grandi Università private), lo stato deplorevole dei trasporti urbani che “consumano” in modo improduttivo il tempo della giornata di lavoro. Ospedali fatiscenti, la burocrazia che imperversa e rallenta, poste e telefoni che non funzionano completano il quadro.
La politica dei sussidi è stata resa possibile nel decennio scorso dalla crescita economica, trainata dalla domanda internazionale di materie prime e prodotti alimentari, i cui prezzi crescevano grazie alle forti esportazioni soprattutto in Cina. Il rallentamento cinese ha determinato una caduta dei prezzi internazionali e un brusco ridimensionamento della crescita brasiliana che adesso è in recessione (+0,3% nei primi 9 mesi del 2014, negativo l’indice PIL previsto sull’intero anno).
Non è più possibile conciliare la bassa tassazione delle imprese con la garanzia del salario minimo ai lavoratori.
In più il modello Lula puntava all’appoggio incondizionato del governo alle grandi imprese di stato, agevolate in ogni modo e che si sono affermate in modo significativo sul mercato internazionale; una situazione che era tollerata dagli imprenditori in quanto le aziende di stato facevano da volano a quelle private, ma adesso le considerano concorrenti sleali e troppo costose. Un mercato internazionale dove la domanda è meno sostenuta mette in luce la debolezza dell’apparato produttivo brasiliano, le aziende manifatturiere non sono abbastanza competitive, pagano una manodopera poco istruita e un ritardo di innovazione.
E’ ripartito, feroce, il dibattito sul deficit pubblico. E qui casca l’asino, si vedono, cioè i limiti del cauto riformismo di Lula e della sua allieva Dilma: nessuno dei due si sogna di tassare i più ricchi, che finanziano il loro stesso partito, quindi dovrà tagliare risorse ai più poveri.
Fra i paesi Brics il Brasile è quello che cresce meno. E’ possibile quindi che la Rousseff, una volta eletta, adotti parte del programma del suo avversario, per rassicurare il mondo degli affari, imbrigliando l’inflazione, tagliando una parte della spesa pubblica. C’è infatti grande attesa sulla scelta del prossimo Ministro degli Esteri, al posto del dimissionario Mantega (sono stati proposti i nomi di Luiz Carlos Trabuco Cappi. Presidente della Bradesco, la seconda banca privata, di Henrique Meirelles, già presidente della banca centrale con Lula, che rassicurerebbe banche e mercati, mentre la nomina di Nelson Barbosa indicherebbe una continuità col passato). Resta il fatto che la politica della Rousseff non dispiace a tutti i settori industriali, perché di fatto i sussidi hanno rianimato i consumi interni e la politica di chiusura alle “invasioni” commerciali e finanziarie degli Usa è ovviamente piaciuta, per la sua componente protezionista, ma anche tenuto conto dell’esempio argentino, con i suoi due default provocati anche dagli hedge fund Usa.
L’elezione della Rousseff garantisce una certa continuità in politica estera: il Brasile resta un “mattone” dei Brics, prosegue il rapporto privilegiato con la Cina (che pure è il principale concorrente nel settore manifatturiero) e la distanza politico-economica con gli Usa. Il 16 novembre il Brasile parteciperà al G20 di Brisbane (Australia) con gli altri quattro membri Brics, cioè Cina, India, Russia, Sudafrica: insieme totalizzano il 42,6% della popolazione mondiale e il 20,4% del PIL mondiale.
Prosegue l’alleanza con i Paesi dell’Alba (Venezuela Ecuador Bolivia) che garantisce a tutti la totale indipendenza energetica per i concorso del bio-diesel brasiliano, del petrolio venezuelano ed ecuadoregno e del gas boliviano.
Prosegue l’integrazione nel Mercosur, che punta a fare del Brasile un contrappeso regionale agli Usa e che riunisce Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Venezuela, contrapposti alla filostatunitense e neoliberista Alleanza del Pacifico (Colombia, Messico, Perù Cile). Da marzo sono riprese le trattative per stringere un accordo fra Mercosur ed Europa (attualmente l’interscambio fra i due blocchi vale 130 miliardi di $ annui), in particolare per sviluppare le telecomunicazioni transatlantiche.
In teoria oltre che dirigere la politica estera e dare le linee di indirizzo alla politica di bilancio, Dilma Rousseff dovrebbe nei prossimi mesi procedere ulteriormente contro la corruzione. Dovrebbe, ma è improbabile che lo faccia.
Ed è probabile che, per tralasciare questa promessa elettorale, possa trovare un ottimo alibi nella composizione delle due camere brasiliane, cioè il Congresso Federale e il Senato usciti dalle elezioni del 5 ottobre (in concomitanza del primo turno delle presidenziali).
Rispetto al 2010 fra i 612 parlamentari eletti, risulta fortemente ridimensionato il drappello dei sindacalisti o comunque dei personaggi legati a una qualche istanza sociale (da 83 a 46), sostituiti da ex militari (circa il 30% degli eletti), leader religiosi, principalmente provenienti dalle sette pentecostali, agrari (ben 200 fra le due camere), leader delle campagne anti abortiste, anti gay, o richiamanti a scelte genere “legge e ordine” (contro gli indios, contro i campesinos senza terra, contro gli ambientalisti ecc.). Si sono già delineati robuste lobbies di pressione (che in Brasile si chiamano frentes o bancadas) soprattutto facenti capo al settore agroalimentare e degli armamenti.
Queste lobbies sono in grado di fare sintesi più degli stessi partiti: ben 28 presenti al Congresso per 531 seggi e 16 in Senato per 81 seggi. Il Partito dei lavoratori ha 70 rappresentanti al Congresso e 2 al Senato. Inevitabili, in questa frammentazione, le alchimie parlamentari da “mercato delle vacche”.

La composizione sociale del nuovo Parlamento brasiliano delude chi si era illuso che le battaglie di piazza degli ultimi due anni producesse una radicalizzazione parlamentare. Ancora una volta si conferma che logiche elettorali e movimenti di lotta non corrispondono e che l’espressione di voto, influenzata dai legami clientelari o personalistici, dai mass media e da fattori locali è molto più “conservatrice” di quello che esprimono le classi e gli strati sociali quando agiscono in prima persona. Se ai movimenti di lotta non corrisponde una direzione politica indipendente essi finiscono per ripiegarsi su se stessi dopo la fiammata, riassorbiti dalla politica di piccolo e grande cabotaggio delle classi dirigenti. E mai come in Brasile oggi vale la considerazione che “lo Stato sono loro”.

Nota 1: Su 143 milioni di brasiliani che avevano diritto di voti, 29 milioni si sono astenuti (circa il 20% ) e le schede bianche o nulle sono state 7 milioni (il 4,8%). Al primo turno aveva votato il 79,44 % degli aventi diritto.

14.11.14

Lega nord & antirazzismo di facciata

Pochi giorni fa sono rimbalzate agli onori della cronaca le provocazioni pretestuose e interessate del segretario della Lega Nord la cui inventiva sulle modalità di creare "casi" per incassare sostegno da tramutare in voti per la prossima tornata elettorale bisogna riconoscerglielo, non è di poco conto. Fin qui nulla di strano per noi, un partito borghese, espressione di interessi padronali di media e piccola borghesia che parla di "popoli" e di "identità"da difendere che alimenta xenofobia e razzismo fa il suo mestiere: confondere la classe, predicare un interclassismo utile al padronato, creare una tradizione e concetti di "patria" per dotarsi di un'ideologia da usare nel baraccone elettorale.

Quello su cui ci soffermiamo sono le litanie di molti di coloro che criticano Lega Nord/leghisti e razzisti ad ogni occasione. Tralasciando quelli che sono gli umori schizofrenici della società civile, (che non può per sua natura esprimere giudizi o pareri che si discostino, in generale, dai leit motiv ideologici che media e istituzioni gli propinano ogni giorno), anche all'interno del movimento e della sinistra radicale per non parlare di quella galassia di gruppi, reti, partiti, associazioni che fanno dell'antirazzismo una loro bandiera distintiva e comunque sempre ostentata, si sviluppano dei meccanismi che per noi, in sostanza, relegano di fatto le loro rivendicazioni circoscritte all'interno delle regole del Sistema.
Personalizzare il "nemico", in questo caso il razzista Salvini, il Partito Lega Nord, o il leghista qualunque, accanendosi su questi soggetti e il loro operato razzista e xenofobo, senza mai chiamare in causa il sistema che lo/li sostiene, lo Stato che li riconosce, legittima e difende, sarebbe come dire che sono loro col loro comportamento ad essere fuorisciti dagli schemi (democratici?), mentre devono rientrarci subito, finendola col razzismo, col diffondere xenofobia etc. Essere contro il razzismo non può limitarsi a questo: questi soggetti, queste personalizzazioni, sono solo espressioni particolari di un Sistema che opprime ed è opprimente con o senza una Lega Nord, con o senza un Salvini, con o senza i leghisti. E' il capitale che ne riceve i benefici sempre e comunque.
Un altro aspetto deleterio è circoscrivere il razzismo attorno ai casi più eclatanti ,quelli di cui da sempre la Lega Nord è uno degli artefici politici più attivi. Ma quindi, al di fuori di questi casi (attorno ai quali si focalizza l'attenzione mediatica per qualche giorno), al di fuori della Lega Nord, Forza Nuova, CPI, et similia, ad eccezione di qualche singolo che viene puntualmente bollato come pazzo o deviato, di qualche nostalgico del ventennio, o di un certo elettorato, il razzismo e il pregiudizio razziale in Italia non esistono? Per noi è presente eccome, non solo perchè lo viviamo quotidianamente sulla nostra pelle, ma perchè è la storia non solo recente ma contemporanea di questo Paese che è intrisa di razzismo e di quello con la R maiuscola. Esiste a prescindere. Si può essere razzisti senza sapere di esserlo, in buona fede, magari pensando di essere degli antirazzisti, come si possono nascondere pregiudizi razzisti sotto un paternalismo di stampo cattolico, o ancora arrivare ad essere razzisti assolutizzando un terzomondialismo di maniera. Tantopiù non basta essere "di sinistra" per non avere niente a che spartire col razzismo. Anche qui se la maggioranza della società (quindi classe salariata in testa) è vittima sua malgrado di quello che l'ideologia borghese gli propina, dalla culla alla scuola fino al lavoro, come non può essere "libera" da concetti come "Patria", "interesse nazionale" "Società occidentale" non può non essere razzista negli innumerevoli modi in cui si può esserlo. E tutto ciò rappresenta la norma:  la Lega Nord è solo la punta di un iceberg rappresentato dal Sistema stesso, è solo una forma più estrema e visibile in cui il razzismo appare in forma più eclatante.
L'antifascismo è anticapitalismo, L'antirazzismo è la stessa cosa, forse di più, antirazzismo è anticapitalismo.

CG

La “primavera nera” del Burkina Faso destabilizza gli equilibri imperialistici in Centrafrica

 
I disordini scoppiati a Ouagadougou, in Burkina Faso, culminati nella cacciata del premier Blaise Compaore, al potere incontrastato da 27 anni, hanno colto tutti di sorpresa ma sono il risultato di contraddizioni che si andavano accumulando da tempo.
Il Burkina Faso è un paese senza sbocchi sul mare, incuneato fra Mali, Niger, Benin, Togo, Ghana e Costa d’Avorio, con una superficie di poco inferiore a quella italiana. Ha 19,5 milioni di abitanti, uno dei più bassi PIL procapite e una massa di giovani disoccupati e senza prospettive (nel 2011 il numero di figli per donna era di 5,8), Sono questi giovani, come già nelle primavere arabe, i protagonisti dei moti di piazza. Come in tutta l’Africa subsahariana i giovani sotto i 25 anni sono il 65% della popolazione, ma il loro tasso di disoccupazione è tre volte più alto di quello medio. Trovare lavoro in patria è spesso una opportunità connessa a legami mafiosi, clientelari o clanici.
La guerra in Libia e la guerra in Mali e Centrafrica hanno chiuso i tradizionali sbocchi per le migliaia di burkinabè che in passato si trasferivano stagionalmente a lavorare nelle campagne e nell’edilizia, nei paesi vicini.
Metà della popolazione vive con meno di 1 dollaro al giorno (il PIL pro capite è di 790$); nelle statistiche ISU (indice di sviluppo umano il Burkina è al 181° posto su 187 paesi. L’aspettativa di vita è inferiore ai 50 anni, in media con gli altri paesi dell’Africa nera. Solo il 28,5% della popolazione adulta è alfabetizzata. La mortalità infantile è del 7,7%.
Questa povertà coesiste con lo sviluppo economico, il PIL negli ultimi tre anni è aumentato del 7% all’anno. In particolare il tasso di sviluppo è legato alla vivace attività di estrazione mineraria: rame, ferro, manganese, ma soprattutto oro (di cui il Burkina è quarto produttore africano).
Ma a far precipitare la situazione sono stati a partire dalla fine del 2013 il calo del prezzo dell’oro, la crisi dell’industria tessile legata alla produzione di articoli di cotone di lusso (tutti destinati all’export e rovinati dalla concorrenza dei prodotti cinesi in fibra artificiale molto meno costosi). Infine ha pesato anche la siccità che ha prodotto un aumento dei prezzi degli alimentari.
Benché la violenta protesta di piazza fosse in gran parte spontanea, i militari hanno tentato subito di metterle il cappello e da una parte all’altra sono spuntati, in uno scenario da tardo impero romano, più candidati che si autoproclamavano premier ad interim: dal generale Honore Traore al luogotenente colonnello Isaac Yacouba Zida; con il prevalere alla fine di quest’ultimo che avrebbe maggiore ascendente sulla bassa forza dell’esercito (Figaro 1 novembre). Stesso scenario fra le file dell’opposizione politica con due candidati “civili”, cioè il generale in pensione Kouame Lougué e una donna, Saran Séremé, leader del Partito per lo Sviluppo.
Francia e Stati Uniti da tempo referenti internazionali di hanno optato per una linea di attesa neutrale, limitandosi a un generico richiamo a una transizione che ripristini la normale dialettica democratica, ma guardandosi bene dall’offendere i capoccia dell’esercito, perché l’importante è garantire l’ordine e il controllo delle masse. Per la Francia è fondamentale conservare in Burkina Faso (un tempo colonia francese col nome di Alto Volta), le proprie basi militari, comprendenti piste e hangar per elicotteri, da cui spesso l’esercito francese si muove per le sue spedizioni (recentemente verso il Mali e la repubblica Centroafricana) e anche i propri servizi di intelligence. La Francia ha con discrezione garantito la fuga senza danni dell’ex premier e alleato in Costa d’Avorio, dove è al potere un leader, Ouattara, che è di origine burkinabè (nota 1).
Ha però rifiutato di raccogliere le sollecitazioni a un intervento diretto, anche perché proprio in occasione della crisi in Repubblica Centroafricana e Mali ha trovato una sponda più efficace nel governo algerino contro i gruppi jajidisti sviluppatisi nell’area. Senza contare che al contrario del Niger, il Burkina non è in sé un’area di interesse vitale per la Francia, al di fuori della sua posizione strategica. (Figaro 31 ott). D’altro canto la Francia raccoglie nell’area i frutti dell’intervento in Libia, che ha provocato il ritorno in patria dei lavoratori centrafricani, che spesso in mancanza di meglio si lasciano reclutare dai gruppi islamici estremi. Il Mali e il Niger sono ancora minacciati da gruppi tuareg e islamici, con un forte rischio per gli interessi francesi. Nel 2015 si terranno nuove elezioni presidenziali in Costa d’Avorio ed è possibile che come nel 2010 esploda un nuovo scontro interetnico fra minoranza burkinabé e gli indigeni Akan.
Tutti i capi di stato dei paesi confinanti seguono con preoccupata partecipazione gli avvenimenti.
La miccia che ha fatto da detonatore all’incendio in Burkina è stato il tentativo di Campaorè di modificare la Costituzione per ottenere l’ennesimo mandato. Uno stratagemma che altri autocrati regionali stanno per mettere in atto (fra gli altri Paul Kagamé in Randa, Joseph Cabila in Congo-Kinshasa e Denis Sassou Nguesso in Congo-Brazzaville, ma anche d’Issayas Afewerki in Eritrea). Dopo i disordini in Burkina non potranno farlo alla leggera. I loro regimi risultano sempre più inadeguati in paesi come l’Africa subsahariana che stanno conoscendo ritmi di crescita elevati (5% medio all’anno), in rapporto alla semi stagnazione delle metropoli, ma dove lo sviluppo va a vantaggio di piccole minoranze arroccate intono a governi corrotti, inefficienti e repressivi.
Se le masse hanno ragione di protestare per le pessime condizioni di vita, lanche e borghesie locali spesso desiderano un cambiamento politico, ma preferiscono una soluzione bonapartista cioè cercano un interprete “naturale” nelle alte sfere dell’esercito, garante di un cambiamento in un quadro di legge e ordine.
Anche in Burkina i militari hanno lasciato mano libera alle masse per alcuni giorni, poi hanno sparato sui manifestanti, memori della precedente rivolta di piazza del 2011, scatenatasi dopo l’assassinio di uno studente da parte della polizia. Nel 2011 anche una parte della truppa si era ribellata rifiutando di sparare sui manifestanti. Anche in Burkina i businessmen vogliono lo sviluppo delle infrastrutture e dei servizi, quindi una rete efficiente di trasporti, la garanzia di una fornitura costante di elettricità, servizi bancari più efficienti, mano d’opera più istruita. Una delle poche ferrovie che collega il Burkina al Niger, la ferrovia del Sahel è stata costruita al tempo di Thomas Sankara (1984).
Molti fra i giovani manifestanti inneggiano Thomas Sankara, il leader assassinato a 37 anni proprio da Campaoré, nel 1987. Sankara è stato premier per soli 4 anni, ma aveva impresso al paese una spinta riformista radicale: riforma agraria e distribuzione della terra ai contadini poveri, smantellamento di una parte delle piantagioni per garantire l’autosufficienza alimentare; rifiuto di pagare i debiti al FMI e alla BM, nazionalizzazione delle miniere, campagna di vaccinazioni obbligatorie dei bambini, un nuovo diritto di famiglia più favorevole alle donne (abolizione della poligamia), campagna contro l’infibulazione, campagna di alfabetizzazione e creazione di presidi sanitari nelle campagne, campagna di rimboschimento per contrastare la desertificazione, creazione di un Ministero per garantire acqua potabile, campagna contro l’Aids (fu il primo leader africano a riconoscerne la gravità). Fu lui a ribattezzare il paese con un nome che significa “paese degli uomini onesti”. Soprannominato “Che Guevara dell’Africa”, Sankara aveva ottenuto il potere grazie all’appoggio di Gheddafi ed era fortemente pan-africanista e anti-francese. Fu Mitterand a ordinarne l’eliminazione, dopo essersi accordato con Campaoré e aver ottenuto il beneplacito degli Usa, irritati per le tirate antimperialiste di Sankara. (Al Jazeera 31 ott.)
Che questi giovani si richiamino all’era precedente a Campaoré è logico, ma è improbabile che il panafricanismo sia oggi un valido strumento di organizzazione per le masse sfruttate. L’opposizione politica “ufficiale”, d’altronde, è rappresentata da partiti moderati, che si sono subito affrettati a dichiarare la loro “fiducia nell’esercito”, chiedendo ai “valorosi concittadini” di tornare a casa.
Il fatto che i manifestanti abbiano tentato di incendiare il Parlamento la dice lunga sulla spaccatura che comunque si è creata fra le masse e la politica ufficiale.


1.11.14

Processo allo sciopero: condannato per “manifestazione non autorizzata”

 
Si è concluso mercoledì 29 ottobre a Piacenza il processo contro il compagno Roberto Luzzi, attivista nel SI Cobas, per uno sciopero del settembre 2013 presso il magazzino Traconf di Piacenza (logistica dei prodotti di lusso “Burberry”). E’ stato condannato a 5 giorni di arresto, tramutati in una multa di 1358 euro per “manifestazione non autorizzata”. Si tratta della prima sentenza di questo genere nell’Italia post-fascista, di condanna per l’organizzazione di uno sciopero con picchetto, un pericoloso precedente che si inserisce nel clima di reazione antioperaia incarnata dal governo Renzi.
Lo sciopero in questione era stato indetto, con proclamazione dello “stato di agitazione”, per una vertenza interna al magazzino e soprattutto perché la cooperativa teneva a casa senza retribuzione da più settimane tre lavoratori iscritti al SI Cobas, di cui due delegati, mentre i capi all’interno chiedevano agli iscritti si Cobas di dare la disdetta dal sindacato, se volevano lavorare. Lo sciopero, cui partecipò una parte dei lavoratori, con picchetto ai cancelli, si concluse dopo tre ore circa con l’arrivo del responsabile del consorzio Lord, di cui la cooperativa faceva parte, che si impegnò a far ritornare immediatamente al lavoro i tre lavoratori. La polizia accorsa con Digos e “scientifica” non contestò alcuna infrazione ai partecipanti, ma la Questura costruì il caso, non denunciando la cooperativa per attività antisindacale, ma denunciando il Luzzi alla magistratura per “manifestazione non autorizzata”, sulla base immaginiamo della presenza di alcuni lavoratori iscritti al SI cobas di altri magazzini del polo logistico, solidali con lo sciopero. Viene richiamato l’art. 18 del Regio Decreto 773/1931 (legge sulla pubblica sicurezza) che prevede la comunicazione di una manifestazione al Questore con un anticipo di almeno tre giorni. La sanzione è l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda da € 103 a 413. Il teorema è questo: la presenza ai cancelli di n persone durante uno sciopero corrisponde a una “manifestazione”. Se tale “manifestazione” non è stata preventivamente comunicata è una “manifestazione non autorizzata”. Ergo gli organizzatori dello sciopero vanno condannati. Con questa innovazione giuridica, che a quanto ci consta è una novità assoluta in Italia, la Questura di Piacenza si è voluta distinguere nella lotta contro gli scioperi, e ha trovato un giudice compiacente, che ha emesso sentenza di condanna nonostante lo stesso PM avesse chiesto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”, essendosi trattato di uno sciopero e non di una manifestazione, tesi confermata da tutti i testimoni (a parte l’agente Digos), incluso l’ex responsabile di magazzino della cooperativa. La sentenza si inserisce nel blocco anti-operaio delle istituzioni locali piacentine creatosi in occasione della lotta contro i licenziamenti Ikea. Proprio ieri, il giorno dopo la sentenza, il sindaco PD di Piacenza Dosi ha fatto visita al magazzino Traconf , dove lo scorso 16 ottobre si è tenuto un secondo sciopero, continuato per tutta la notte e la mattinata successiva, in occasione dello sciopero nazionale della logistica, ma motivato anche dalle pesanti condizioni interne.
Questa sentenza rappresenta un inaudito attacco alla libertà di sciopero, con l’utilizzo di una legge che risale al fascismo, e va respinta. Ogni sciopero che si rispetti vede da sempre il formarsi di capannelli e picchetti per informare convincere la massa dei lavoratori ad aderire. Fino all’altro ieri nessuno aveva messo in discussione la libertà di organizzare scioperi, sancita tra l’altro dalla Costituzione italiana, anche se gli accordi interconfederali sulle rappresentanze vanno nella stessa direzione. Da oggi in poi questa libertà è sotto minaccia. Il ricorso in appello seguirà il suo corso, ma questa sentenza va respinta innanzitutto sul terreno, non indietreggiando nell’organizzazione di scioperi, principale strumento di organizzazione e di lotta della classe operaia.

Comunisti per l’Organizzazione di Classe

[NAPOLI] 7 Novembre a Bagnoli

 
Se pensi che il tuo lavoro sia sottopagato
Se pensi di avere diritto ad un salario migliore 
Se pensi che la tua scuola faccia schifo 
Se pensi che in futuro non avrai un lavoro né un posto dove andare a dormire
Se pensi che i trasporti non funzionano 
Se pensi che la sanità cade a pezzi
Se pensi che ti stanno distruggendo la terra, l’aria, l’acqua, solo per i loro profitti 
Se pensi che c’è chi continua ad arricchirsi sulle tue spalle concedendoti solo le briciole…

ORGANIZZIAMOCI VERSO IL #7NOV
SOLO UNITI SI VINCE
CACCIAMO RENZI DA BAGNOLI!
RENZI NON STARE SERENO: STATT’ A CAS!