25.8.13

Solidarietà a chi lotta per la dignità di un lavoro

11/09/13: con Matteo Valentini licenziato da Comer Industries

Mercoledì 11/09/13 alle 13.00 presso il Tribunale di Reggio Emilia si terrà la seconda udienza per il reintegro di Matteo Valentini, licenziato il 06/06/13 da Comer Industries. Alla prima udienza del 20/08/13 la controparte aziendale non si è presentata, dicono causa “mancata notifica” (fatto strano che le notifiche arrivino puntualmente solo ai lavoratori), quindi il giudice ha rinviato l’appuntamento.
In occasione della prima udienza, così come il 20/06/13 davanti alla fabbrica di Cavriago, si è tenuto un presidio di solidarietà con Matteo che ha visto la partecipazione spontanea, a fianco di operai della Comer, di disoccupati e lavoratori di diverse categorie oltre a rappresentanti CUB e SI COBAS. Mercoledì 11/09/13 torneremo insieme a sostenerlo.
Ricordiamo che il pretesto che l’azienda ha usato per il licenziamento è scaturito da un diverbio nato a causa dello stress da ritmo produttivo, tra due sue colleghe di linea. Matteo si è interposto per sedare gli animi e si è presentato alla direzione insieme alle due operaie, tentando di entrare nell’ufficio del direttore di produzione per parlare di come si erano svolti i fatti.
Matteo per anni si è battuto per tutelare la salute in fabbrica (una fabbrica nella quale negli ultimi due anni il numero degli infortuni è enormemente aumentato rispetto ai periodi precedenti), subendo le pressioni continue dei capi che volevano imporre a lui, invalido, ritmi che non era in grado di sostenere.
L’aumento del numero degli infortuni alla Comer Industries, contrariamente a quello che sostengono l’azienda e i suoi sponsor, non è dovuto alla disattenzione degli operai ma all’aumento forsennato dei ritmi di lavoro imposti.
Per manifestare la nostra solidarietà a Matteo e denunciare il peggioramento delle condizioni di lavoro di tutte e tutti.
Per difendere la salute e la dignità di tutte e tutti nei luoghi di lavoro.
Per chiedere che Matteo sia reintegrato nel posto di lavoro da cui è stato arbitrariamente allontanato.
la mattina di mercoledì 11/09/2013 saremo di nuovo in presidio davanti al Tribunale di Reggio Emilia
Disoccupati e lavoratori autorganizzati solidali con Matteo

fonte: Combat-coc.org

Colombia paralizzata dalle proteste. Settimo giorno di sciopero

Quello che era iniziato come uno sciopero nazionale nel settore agrario ha assunto forme più allargate di protesta contro il governo colombiano che in questi lunghi giorni si trova sempre più in difficoltà ad affrontare la situazione. Oggi è il settimo giorno consecutivo di proteste e la rabbia della popolazione non accenna a diminuire mentre il governo nel completo panico di ingestibilità della situazione rafforza lo schieramento dei forze dell'ordine in tutto il Paese.
Più di 220 persone arrestate, decine e decine di feriti, due morti, almeno 25 le province bloccate ad intermittenza da parte della popolazione, strade completamente chiuse, mentre non si placa la rabbia di fronte all'atteggiamento criminale e aggressivo da parte della polizia.
Da una parte il Governo che tenta la carta del dialogo con i contadini per placare le proteste, dall'altra migliaia di agricoltori, camionisti, minatori, studenti, operai e più in generale la popolazione che non intendono abbandonare le proteste fino a quando non ci saranno soluzioni appropriate. Al centro dell'attenzione le politiche economiche dell'amministrazione del presidente Juan Manuel Santos, gli undici Trattati di Libero Commercio che costituiscono una vera e propria razzia sulle terre dei contadini, ma anche l'elevato prezzo del combustibile, la riforma tributaria, progetti minerari e energetici devastanti e una situazione di malessere generalizzata che porta all'espansione a macchia d'olio delle proteste a cui stiamo assistendo in questi giorni.
Nella regione di Boyacá, dove il protagonismo della popolazione è alto, continuano ad essere bloccate le strade di accesso. A Bogotà, nella giornata di ieri una grande marcia di agricoltori ha attraversato le strade della città, mentre altre 4mila persone si sono diretti verso la strada che collega la capitale con Villavicencio. In numerose altre città continuano i blocchi ad oltranza.
Mentre il Governo ha cercato di far fronte alla crisi con le misure e manovre neoliberali più disparate, oggi quello che è chiaro, e lo dimostrano le manifestazioni e le mobilitazioni di massa, è che la popolazione non sembra essere più disposta a pagare il prezzo di una situazione caratterizzata da forme di governo e governanti che hanno una chiara responsabilità.
La nuova carta del dialogo che il Governo ha deciso di giocarsi, denota la strategia messa in atto: provare a negoziare con gli agricoltori in tavoli separati, non tenendo in considerazione il malessere più generalizzato, per non andare così ad intaccare quella struttura economica che garantisce il regolare svolgimento della governabilità del Paese.
Ma l'esecutivo di Santos non potrà ad ogni modo non tener conto dell'impatto delle politiche economiche che da anni si stanno implementando e che ormai stanno portando la popolazione a unire le forze, ad organizzarsi e a prepararsi. Si attendono quindi nuove giornate di lotta per le strade colombiane, caratterizzate da una totale avversità nei confronti del governo di Santos e da una messa in discussione di un modello politico e economico.

fonte: Infoaut

Henri Simon - Alcune considerazioni sull'organizzazione


Pubblichiamo questo scritto di Henri Simon, traduzione inedita in italiano, abbiamo precedentemente pubblicato altri suoi materiali (da Echanges e da Mondialisme) tra cui il suo scritto 'Il nuovo movimento'.
Il testo qui prodotto è un materiale che al di la del punto di vista storico di quando è stato scritto (il 1979) mette in rilievo il problema della spontaneità e della classe come oggetto/soggetto nella lotta stessa. Il raffronto tra l’organizzazione spontanea e volontarista in una dinamica vista come un processo. Dove le contraddizioni tra queste forme e la loro stessa esistenza è analizzata sulla base delle condizioni oggettive imposte dal capitale e non sulla base di giudizi morali o di prese di posizioni ideologiche. Quando Simon parla di repressione, è qui intesa in modo ampio non solo come violenza diretta ma come imposizione delle necessità capitaliste.

Se il rapporto tra organizzazione volontarista e spontanea si da sempre, come sottolinea efficacemente Simon, l’efficacia dell’azione della classe e la sua capacità di rottura è tuttavia legata in ultima istanza ai meccanismi integratori o de-integratori del capitale stesso.

Connessioni per la lotta di classe
Febbraio 2012
connessioni-connessioni.blogspot.com

 
ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL’ORGANIZZAZIONE
Henri Simon, 1979

Tutte le citazioni e riferimenti sono stati volutamente tolti in questo articolo. Non ho dubbi che molte idee espresse qui sono già state scritte da molti altri e ci saranno ripetizioni, alcune volute, altre no. Ho anche volutamente cercato per quanto possibile, di allontanarmi dal linguaggio tradizionale. Certe parole, certi nomi producono un blocco mentale nel pensiero di questa o quella persona portandoli ad escludere tutta una parte dai loro processi di pensiero. Lo scopo di questo articolo è quello di cercare di far riflettere le persone circa l'esperienza: propria e degli altri. Non ho dubbi che questo obiettivo sarà soffi sfatto in modo imperfettamente e questo per due ragioni. La prima, e meno importante, è che ci sono coloro che ancora insistono a mettere etichette su tutto quanto e di esorcizzare ciò che si sospetta di eresia, perché le loro convinzioni non possono tollerarlo. La seconda, più essenziale, è che l'articolo dirà finalmente che le nostre convinzioni non sono quasi mai spazzate via solo per l'impatto shock con altre idee, ma dallo shock dello scontro con la realtà sociale.

Possiamo eventualmente portarci fuori dalla cittadella del nostro sistema di pensiero verso una semplice considerazione dei fatti? E non solo fatti, ma tutto ciò che appartiene alla nostra esperienza di "militanti" o "non-militanti." L'esperienza, inoltre, che non va considerata isolata nel nostro mondo individuale, ma deve essere ricollocata nel contesto delle nostre relazioni sociali, vale a dire quello che abbiamo potuto sperimentare o quello che viviamo oggi in un mondo totalmente capitalista (da un'estremità del pianeta all'altra). Eppure anche questa esperienza e ciò che possiamo sapere di altre esperienze ci porta una conoscenza parziale. Ciò è già evidente per un dato momento. E' ancora più evidente se visto in una prospettiva storica. Anche se cerchiamo di generalizzare le esperienze, osservazioni, e riflessioni e di integrarli in un tutto più vasto, non necessariamente amplieremo il nostro campo visivo. Generalizzare è una pretesa del tutto giustificabile: lo facciamo per tutto il tempo, consapevoli o meno. Facciamo i collegamenti, confrontiamo e deduciamo da nozioni più generali, che integriamo in generalizzazioni già stabiliti, o utilizziamo per modificare tali generalizzazioni, o per crearne di nuove. Una generalizzazione può servire come apertura, poiché la curiosità porta a cercare altri fatti con cui riempire i nostri vuoti. Ma può risultare come una chiusura, un processo di blocco, in quanto può portare a ignorare o eliminare tutto ciò che sfida tale generalizzazione.

Conoscenza parziale della vita sociale

La nostra conoscenza è sempre parziale perché inevitabilmente all'inizio noi apparteniamo a una generazione, una famiglia, un ambiente, una classe, una Stato ecc…, una piccola frazione di un mondo di centinaia di milioni di abitanti. E non è così facile, a meno che il sistema capitalista prenda questo in mano, per allargare il campo ristretto della"vita così come ci è stata data". Tuttavia questa conoscenza frazionaria non è così parziale, in questi giorni se guardiamo un po' più da vicino. L’uniforme processo accelerato delle condizioni sociali e degli stili di vita nell'esplosione capitalista degli ultimi 30 anni ha creato una certa uniformità di esperienze. Anche se le condizioni tecniche, economiche e politiche continuano a variare in misura considerevole oggi, le basi elementari, e meno elementari del sistema capitalista sono davvero identiche e inviolabili qualunque sia il regime in cui operano. E così le nostre esperienze ed i loro particolarismi si rispecchiano in quelli degli altri, in una conoscenza più generale.

Molto spesso la nostra esperienza ha già trovato la sua giustificazione solo nell'incontro con esperienze identiche, prima del contatto con altre esperienze differenti. E molto spesso queste esperienze sono sintetizzate dallo stesso ambiente in sistemi di pensiero che sollevano questi particolarismi al livello di ideologie. Il percorso di conoscenze sempre più generali che è fatto dal confronto delle esperienze con quelle degli altri viene ostacolato dalle ideologie. A parte momenti di violente rottura, spesso strazianti, questa situazione ci lascia bloccati a metà percorso con un sistema di idee che non può che può solo tradursi in una conoscenza pratica e concreta imperfetta della vita sociale in tutte le sue forme. Rotture violente e laceranti con il passato non sono il risultato della nostra riflessione e conoscenza che ci porta a cambiare le nostre idee precedenti: sono ciò che la nostra "posizione sociale" ci porta a fare in certi momenti, (e questi momenti arrivano sempre) quando la nostra esperienza improvvisamente e bruscamente viene collegato e confrontata con esperienze diverse. Questa situazione ci libera da tutti gli schemi e gli ostacoli ideologici e ci fa agire, a volte all'insaputa alle nostre idee, in reazione agli elementi fondanti del sistema capitalista di cui sopra, cioè ci fa agire in base ai nostri interessi di classe. E 'chiaro che, secondo la nostra posizione nel sistema capitalista, l'azione ci porta da una parte o dall'altra, in una direzione che può concordare con le nostre idee precedenti, ma che spesso ha poco a che fare con loro.

Volontarismo contro organizzazione spontanea

Il "problema dell’organizzazione" è proprio una di quelle questioni più segnate da idee preconcette su ciò che alcuni chiamano "necessità". In relazione a quanto è stato detto, due poli si possono distinguere:

- Volontarismo
- Organizzazione spontanea

Il volontarismo è quello in cui vogliamo operare (per congiungerci o creare) in relazione ad alcune idee prestabilite provenienti dalla nostra appartenenza a un ambiente, per la difesa permanente di quello che pensiamo sia il nostro interesse. Per fare questo ci riuniamo con un numero limitato (spesso molto limitato) di persone aventi la stessa pre-occupazione. La natura di questa organizzazione è, nel suo obiettivo definito da coloro che lavorano insieme, per sé e per gli altri, permanente, in cui è inscritto un sistema di riferimenti da cui si può dedurre le modalità pratiche di funzionamento. In altre parole, un certo corpo di idee conduce a certe forme determinate di azione: il più delle volte una collettività limitata parla e agisce verso una più grande, in una direzione che è inevitabilmente quella di persone che "sanno" (o pensano di sapere) verso coloro "che non sanno" (o sanno in modo imperfetto) e che devono essere persuase.

L’organizzazione spontanea è quella che deriva dall'azione di tutti i membri di una collettività in un dato momento, da una azione di difesa dei loro interessi immediati e concreti in un momento preciso nel tempo. Le forme e modi di funzionamento di tale organizzazione sono quelli della azione stessa, in risposta alle necessità pratiche di una situazione. Tali situazioni non sono solo il risultato di condizioni concrete che portano alla percezione degli interessi che devono essere difesi, ma anche del rapporto che possiamo avere in quel momento con tutti gli attivisti che sono al lavoro nella collettività. L’organizzazione spontanea è quindi l'azione comune della totalità di un gruppo sociale definito, non per sua scelta ma per il ruolo sociale di ogni individuo in quello stesso momento. Vedremo in seguito che tale organizzazione non ha alcun obiettivo da raggiungere, ma al contrario, gli obiettivi iniziali possono cambiare molto rapidamente. Vedremo anche che è la stessa cosa per le forme di azione stesse. La collettività iniziale che ha iniziato l'azione può anche cambiare molto rapidamente proprio in quel momento e in concomitanza con cambiamenti di obiettivi e forme di azione.
Da questa distinzione tra volontarismo e organizzazione spontanea, si potrebbero moltiplicare le definizioni e differenze. Chiunque è libero di farlo. Ma devo sottolineare che sto parlando di "poli". Tra questi due estremi si possono trovare tutti i tipi di ibridi la cui complessità di natura e interazione è quella della vita sociale stessa. In particolare, partendo da una organizzazione basata sul volontarismo, si può finire in una serie di "slittamenti" per arrivare ad una identificazione con un organizzazione spontanea. Si potrebbe addirittura dire che è lo scopo, dichiarato o nascosto-di tutte le organizzazioni di farci credere (è solo una questione di auto-persuasione o propaganda) o di cercare di arrivare (questo è il mito di Sisifo) alla identificazione con l'organizzazione spontanea di una collettività determinata. All'estremità opposta, una forma di organizzazione spontanea che si è creato può trasformarsi in una organizzazione di stampo volontaristico quando le forze sociali che hanno creato mutano verso altre forme di organizzazione e la precedente organizzazione cerca di sopravvivere con la sola volontà della minoranza, per bloccarsi in un quadro rigido di riferimenti.

La definizione di spontaneità

Ci sono già state molte discussioni circa il termine "spontaneo" (come la parola "autonomo", che è diventata una parola politica nel senso cattivo del termine). "Spontaneo" non significa affatto out of de clear blue sky, una sorta di generazione spontanea, in cui si vede l’emergere dal nulla di strutture adeguate per ogni tipo di lotta. Siamo tutti esseri inevitabilmente sociali, vale a dire siamo immersi con forza in una organizzazione sociale a cui inevitabilmente opponiamo un'altra organizzazione, quella della nostra vita. Contrariamente a quanto normalmente supposto, questa organizzazione della nostra vita non è fondamentalmente una forma contro l'organizzazione sociale dominante. Questa organizzazione della nostra vita è soprattutto "per sé". E' solo "contro" come conseguenza della nostra auto attività. C'è una sensazione molto precisa in ognuno di noi di ciò che gli interessi della nostra vita sono e di ciò che ci impedisce l’auto-organizzazione delle nostre vite. Non sto usando la parola "coscienza" qui di proposito perché per troppi questa parola ha il senso di coscienza morale o, che è solo una variante della stessa cosa, di coscienza "politica". Per auto-organizzazione della nostra vita come per la sua autodifesa, il sistema capitalista è il miglior agente educatore. Sempre più sta mettendo nelle nostre mani una serie di strumenti che consentono questa auto-organizzazione e il suo passaggio da forme individuali a collettive. Aumentando le sue forme di repressione sempre più raffinate, incluse tutte le repressioni preventive delle lotte spontanee, sta ponendo per questa auto-organizzazione individuale o collettiva l'assoluta necessità di trovare "qualcos’altro" per sopravvivere. Ciò che è stato acquisito da una lotta precedente non può essere conosciuto attraverso esempi o discussioni, ma attraverso l'impatto shock delle esperienze di cui ho parlato in precedenza in questo articolo. Spontaneo significa, alla fine, solo l'emergere di un'organizzazione intessuta nella vita quotidiana che, in precise circostanze, e per la sua difesa, deve passare ad un'altra fase di organizzazione e di azione, pronta a ritornare al livello precedente in seguito, o a passare ad un altro stadio, diverso dai primi due. L’espressione "rapporto di forza" deve essere collocato nello stesso ragionamento, ma descrive solo la situazione senza definire nulla circa i contenuti, l’azione e l'organizzazione di tali forze.

Termini variabili e interessi


"Spontaneo" si riferisce anche ad un altro aspetto di azione e di organizzazione. L’ho toccato quando ho sottolineato, nella definizione di organizzazione spontanea, che non ha obiettivi, forme prestabilite e che questa può essere rapidamente trasformata da un cambiamento nella collettività coinvolta. "Spontaneo" si oppone a una tattica che serve come una strategia orientata verso un obiettivo ben definito (all'interno di obiettivi secondari che definiscono fasi successive da raggiungere). Collettività, azione e organizzazione costituiscono termini variabili nella difesa degli interessi che sono anch’essi variabili. In ogni momento questi interessi variabili sembrano essere immediati così come l'azione e l'organizzazione per raggiungere gli obiettivi provvisori che appaiono necessari. Se tutto questo può accadere all'improvviso e il processo può evolvere molto rapidamente, questa spontaneità è tuttavia, e questo è stato sottolineato, prolungamento di una precedente auto-organizzazione e del suo confronto con una situazione cambiata.

Le vicende di un'organizzazione di stampo volontaristico non sono interessanti di per sé, anche quando, come spesso fanno, le appesantiscono con discussioni sul "problema organizzativo". Sappiamo tutti bene che il tipo di organizzazione si intende, soprattutto tra quelli che di solito chiamiamo "militanti". Tuttavia, sarebbe possibile discuterne criticamente in una forma che rimane puramente ideologica, mascherando il problema essenziale. La storia delle organizzazioni e dell’ "organizzazione" in relazione al movimento tecnico, economico e sociale rimane da scrivere.

La funzione dei gruppi volontaristi


Non è lo scopo di questo articolo scrivere questa storia, anche se l'articolo mette in evidenza la distanza tra la teoria di questi gruppi e la loro pratica reale o semplicemente tra ciò che pretendono di fare e quello che fanno in realtà, tra la loro "vocazione" di universalità e il loro inserimento irrisorio nella società reale. Posso solo sottolineare alcuni possibili assi di riflessione quali:
1) La funzione dei volontaristi e dei loro gruppi. Cosa fanno nella attuale società capitalistista, imitando i partiti politici e i sindacati (i grandi modelli di questo tipo di organizzazione), indipendentemente dalla scuola politica a cui si riferiscono (comprese le più "moderne"), indipendentemente dalla loro radicalismo? (Il radicalismo non è mai fine a se stesso, ma spesso è un modo diverso di raggiungere lo stesso fine come per le organizzazioni legalitarie.)
2) Il comportamento di una organizzazione di volontaristi. E 'indipendente dalle sue finalità generali o particolari e della sua pratica (autoritario o "autonoma"). Inevitabilmente il mondo capitalista definisce la sua funzione (in relazione agli obiettivi e la prassi che ha scelto per sé). Questo stesso rapporto con un mondo capitalista impone una separazione che un partigiano di tale organizzazione volontaristi definirebbe "suo malgrado" come segue: "il problema di come mettere in relazione e attivizzare cioè teso a costruire coscienza della storia attuale e il problema del rapporto tra rivoluzionari e masse rimangono aperti"
3) L'impossibilità delle organizzazioni volontariste di sviluppare se stesse, anche quando la pratica quotidiana delle lotte mostra le loro stesse idee. In più, lo sviluppo dell’organizzazione spontanea porta al rifiuto delle organizzazioni volontariste o alla loro distruzione, in alcune circostanze, anche quando queste organizzazioni volontariste si assegnano un ruolo. La conseguenza è che queste organizzazioni volontariste sono costantemente portate a respingere aree riformiste o capitaliste e costrette ad avere una pratica che è sempre più in contraddizione con i loro principi dichiarati. Proprio come quanto scritto di cui sopra dimostra che diventa sempre più difficile per queste organizzazioni di assegnarsi una funzione da identificare con l’azione e l'organizzazione spontanea. Alcuni si sforzano di "rivedere" alcune parti della loro azione, mantenendone altre (teoria, violenza, atti esemplari, la pratica della propria teoria, ecc.). Eppure non è una questione di revisione, ma di una sfida totale da parte del movimento stesso a tutte le nozioni "rivoluzionarie" sostenute per decenni, e anche per oltre un secolo ormai. Non sono in questione i dettagli, ma le idee fondamentali.

L'idea della collettività

Nella distinzione che è stata fatta tra l’organizzazione volontaristica e l'organizzazione spontanea, l'idea di collettività è essenziale. Di che collettività stiamo parlando e quali sono gli interessi attorno ai quali si manifestano azioni e organizzazioni?
Una collettività può essere definita come tale da quanti volontariamente la formano, essi rendono espliciti i loro interessi comuni, gli obiettivi da raggiungere ed i mezzi della collettività, non nella azione, ma come preparazione all'azione.
Qualunque siano le dimensioni e il carattere di una tale collettività, questa caratteristica è propria di tutte l'organizzazione volontaristiche. Oltre a coloro ai quali questo comportamento è indirizzato, la collettività può solo occuparsi di:
(1) gli interessi dei suoi soli partecipanti
(2) difendere gli interessi apparentemente comuni ai membri e non membri
(3) difendere gli interessi dei suoi membri dominando i suoi non-membri, che immediatamente crea una comunità di interessi contrapposti ad un altra.
Secondo la situazione, avremo anche per esempio una comunità di vita, come una comune, un movimento di tipo sindacale o un partito politico (molti gruppi sarebbero iscrivibili in questa categoria), o una impresa capitalistica (una cooperativa di produttori sarebbe inclusa in questa categoria anche se rimane esente dal dominio interno di una minoranza, ma sarebbe costretta, per poter funzionare, a ricorrere alla mediazione del mercato, che presuppone una relazione di dominio con i consumatori). Forme di organizzazione volontarista, apparentemente molto diverse fra loro in realtà sono tutte contrassegnate da questo tipo di iniziativa volontaristica, che si concretizza in un certo tipo di relazione. La conseguenza di questa situazione è che tutte le organizzazioni volontaristiche devono, in un modo o nell'altro, essere conformi agli imperativi della società capitalistica in cui si vive e si opera. Questo è accettato da alcuni, pienamente assunto da altri, ma respinto da altri ancora che pensano di poter sfuggire o semplicemente non pensarci. In alcune situazioni cruciali, l'impresa capitalistica non ha altra scelta, se vuole sopravvivere, ma per fare ciò che il movimento dei capitali impone su di essa. Dal momento che esiste come organizzazione, la sua unica scelta è la morte o la sopravvivenza capitalista. In altre forme, ma allo stesso modo inesorabile, tutte le organizzazioni volontariste sono vincolate dagli stessi imperativi. Il dimenticare, il nascondere questa situazione o il rifiuto di guardarla in faccia crea violenti conflitti interni. Questi sono spesso nascosti dietro i conflitti personali o ideologici. Per un certo tempo possono anche essere dissimulate dietro una facciata di "unità", che viene sempre presentata, per ragioni di propaganda, ai non membri (da qui scaturisce la regola che all'interno di tali organizzazioni conflitti interni sono sempre risolti all'interno del organizzazione e mai in modo pubblico).
E' possibile che collettività volontarista derivi da una organizzazione spontanea. Questa è una situazione frequente a seguito di una lotta. Il volontarismo qui consiste nel cercare di perpetuare sia gli organismi formali che la lotta ha creato o di tenere il passo ad un tipo di collegamento che la lotta aveva sviluppato in una specifica azione in testa. Tali origini non preservano in alcun modo l'organizzazione sviluppando le caratteristiche di una organizzazione volontarista. Al contrario, questa origine può apportare un contributo prezioso nel dare all’organizzazione volontarista la necessaria facciata ideologica per le sue azioni successive. La costruzione di una nuovo sindacato dopo uno sciopero è un buon esempio di questo tipo di cose.

In opposizione alla collettività che si auto definisce, la collettività a cui, malgrado sé, uno appartiene, è definita da altri, dalle diverse forme che il dominio reale o formale del capitale ci impone. Noi non apparteniamo al risultato di una scelta, ma dall'obbligo (costrizione) della condizione in cui ci troviamo. Ogni persona è così sottomessa, chiusa in uno (o più) dei quadri istituzionali in cui si esercita la repressione. Lui fugge, se egli cerca di scappare, solo per essere messo in un'altra gabbia istituzionale (prigioni per esempio). Anche se abbandona la sua classe e il quadro di quella classe, è solo per entrare in un'altra classe dove è sottoposto alla gabbia di quella classe. All'interno di queste strutture un certo numero di individui si vede imporre le stesse regole e gli stessi vincoli. Coesione, azione, e organizzazione derivano dal fatto che è impossibile costruire la propria vita e auto-organizzarsi. Chiunque, qualunque sia il suo orientamento, si scontra con lo scoglio degli stessi limiti, degli stessi muri. Le risposte, cioè la comparsa di un preciso interesse comune, dipendono dalla forza e dalla violenza della repressione, ma non sono in alcun modo volontarie. Scaturiscono dalla necessità. Gli ostacoli incontrati e le possibilità offerte portano ad un'azione in una forma di organizzativa o in un altra. È questa stessa attività che produce le idee su cosa dovrebbe o non dovrebbe essere fatto. Tale organizzazione non significa una comune concertazione formale o consultazione e adozione di una forma definita di organizzazione. Sarebbe difficile descrivere in termini di struttura la generalizzazione dello sciopero maggio 68 in Francia, l'azione collettiva dei minatori inglesi nello sciopero del 1974, il saccheggio di negozi a New York nel recente blackout, il grado di assenteismo al lavoro il giorno dopo una festa nazionale, ecc. Tuttavia, queste, tra le altre, sono azioni che hanno un peso molto maggiore rispetto a molte forme "organizzate" di lotta costruite dalle organizzazioni volontariste. L’organizzazione spontanea può essere molto reale, esiste sempre in questa forma non strutturata e apparentemente secondo i criteri usuali, non "esiste". Questa organizzazione spontanea, nel corso dell’azione e secondo le necessità di questa azione, può darsi forme ben definite (sempre transitorie). Essa non è altro che il prolungamento di una organizzazione informale che esisteva prima e che può tornare in seguito, quando le circostanze che hanno portato alla nascita dell'organizzazione sono scomparse.
Nell’organizzazione volontarista , ogni partecipante ha bisogno di sapere in anticipo se tutti gli altri partecipanti alla collettività hanno la stessa sua posizione. Le decisioni formali devono essere prese per sapere in ogni momento se quello che stiamo andando a fare è in accordo con i principi base e con gli obiettivi dell'organizzazione. Niente di tutto questo accade in una organizzazione spontanea. L’azione, che è una procedura comune senza adesione formale, è tessuta insieme attraverso stretti legami, da un tipo di comunicazione, il più delle volte senza parlarne (sarebbe spesso impossibile, considerando la rapidità del cambiamento degli obiettivi e delle forme di azione ). Spontaneamente, naturalmente, l'azione si dirige verso obiettivi necessari per raggiungere un punto comune, che un’oppressione comune assegna a tutti, perché tocca ciascuno nello stesso modo. Lo stesso vale per organismi specifici che possono sorgere per compiti precisi nel corso di questa azione. L'unità di pensiero e azione è la caratteristica essenziale di questa organizzazione, è questo che durante l'azione dà origine ad altre idee, altri obiettivi, altre forme che forse una persona o alcune persone hanno proposto, ma che hanno la stessa immediata approvazione entusiasta nell’avvio immediato dell’azione. Spesso l'idea non è formulata, ma è compreso da tutti per l’avvio dell’azione in un'altra direzione rispetto a quella seguita in precedenza. Spesso anche questa azione si verifica in molti luoghi traducendo allo stesso tempo l'unità di pensiero e di azione di fronte alla stessa repressione applicata agli stessi interessi.
Mentre l’organizzazione volontarista è direttamente o indirettamente sottoposta alla pressione del sistema capitalista che impone su di essa una linea piuttosto che una scelta, l’organizzazione spontanea rivela solo la sua azione e le sue forme apertamente aperte a tutti, se la repressione rende necessario difendere e attaccare. L’azione e le forme saranno tanto più visibili tanto più sarà importante l'impatto di queste sulla società e sul capitale. La posizione della collettività che agisce in questo modo nel processo di produzione sarà determinante.

Non esiste formula per la lotta


Ogni lotta che cerca di strappare al capitalismo quello che non vuole dare ha molta più importanza di quanto costringe il capitale a cedere una parte del suo plusvalore e ridurre i suoi profitti. Si potrebbe pensare che una tale formula privilegi le lotte nelle aziende e nelle fabbriche dove c'è in effetti una stabile organizzazione spontanea che nasce direttamente con le proprie leggi nel cuore del sistema-il luogo di sfruttamento-, assumendo quindi la sua forma più aperta e chiara. Ma in un'epoca in cui la ridistribuzione dei profitti svolge un ruolo importante nel funzionamento del sistema e per la sua sopravvivenza, in un'epoca di dominio reale del capitale, le lotte esprimono l'organizzazione spontanea delle collettività in luoghi diversi dalle fabbriche, distribuzione e terziario risultano rivestire lo stesso ruolo per il sistema.

I loro percorsi potrebbero essere molto diversi e meno legati a scontri diretti, ma la loro importanza non è inferiore. L'insurrezione dei lavoratori di Berlino Est nel 1953 era all'inizio un movimento spontaneo contro l'aumento delle norme di lavoro. L'organizzazione spontanea che nasce da questa collettività coinvolta, un gruppo di lavoratori edili, darà vita ad una collettività di tutti i lavoratori della Germania dell'Est. La semplice dimostrazione di una manciata di lavoratori diede il via all'attacco ad edifici pubblici, gli obiettivi di un semplice annullamento di un decreto provocò quasi la caduta del regime, gettando le basi per l’auto-organizzazione dei consigli dei lavoratori; tutto questo nel spazio di due giorni. L'insurrezione polacca del giugno 1976 era solo una protesta contro l'aumento dei prezzi, ma in due punti, la necessità di mostrare la loro forza in due occasioni ha portato in poche ore all'organizzazione spontanea dei lavoratori occupando Ursus e bloccando tutte le comunicazioni -una situazione pre- insurrezionale- incendiando il quartier generale del partito e saccheggiando Radom. Il governo ha ceduto subito e immediatamente l'organizzazione spontanea è ritornata alle posizioni precedenti. Il blackout di energia elettrica di New York immersa nel buio ha improvvisamente generato una organizzazione spontanea di una collettività di consumatori "frustrati" che immediatamente si diedero al saccheggio, ma è scomparsa con il ritorno della luce. Il problema dell’assenteismo è già stato menzionato. Questi grandi gruppi di persone che lavorano in un luogo ricorrono all’assenteismo in questo modo poichè la repressione diventa impossibile, si rivela una organizzazione spontanea in cui sono definite le possibilità di ogni persona dalla percezione comune di una situazione, dalle possibilità di ogni persona. Questa coesione si rivelerà all'improvviso se la direzione tenterà di sanzionare queste pratiche, attraverso l’apparizione di una lotta aperta spontanea e perfettamente organizzata. Potremmo citare molti esempi di eventi simili apparsi sotto forma di scioperi selvaggi per tutto ciò che riguarda i tempi di lavoro e la produttività, soprattutto in Gran Bretagna.
Negli esempi appena citati l'organizzazione spontanea è interamente auto-organizzazione di una collettività senza che alcuna organizzazione volontarista interferisca. Nel guardare da più vicino possiamo vedere il costante flusso e riflusso delle azioni che hanno luogo, dall'organizzazione alla realizzazione degli obiettivi nel modo descritto sopra. Ma in molte altre lotte in cui l'organizzazione spontanea svolge un ruolo importante, l’organizzazione volontarista può coesistere con essa, e sembra andare nella stessa direzione dell'organizzazione spontanea. Il più delle volte lo fanno per giocare un ruolo repressivo nei confronti di questa organizzazione, ruolo che le strutture preposte normalmente dal sistema capitalista non possono assumere. Lo sciopero della durata di due mesi, di 57.000 lavoratori dell'auto della Ford apparentemente non ha rivelato alcuna forma di organizzazione al di fuori dello sciopero stesso. Al contrario, un esame superficiale farebbe dire che organizzazioni volontariste, come i sindacati, i delegati sindacali, ed anche alcuni gruppi politici hanno svolto un ruolo essenziale nello sciopero. Tuttavia, ciò non spiega come lo sciopero spontaneamente è iniziato a Halewood né la notevole coesione di 57.000 lavoratori, o l’effettiva solidarietà dei lavoratori dei trasporti che ha portato al blocco totale di tutti i prodotti Ford. La spiegazione è che l'organizzazione spontanea della lotta, se trova espressione nella non formalità e apparenza, a costantemente imposto la sua presenza e efficacia su tutte le strutture capitalistiche e soprattutto sui sindacati. Nel caso Ford, l'organizzazione spontanea non è stata osservata in particolari azioni eccetto, ed era singolarmente efficace in questa situazione, dall’assenza dal luogo di lavoro. Nella lotta dei minatori del 1974, troviamo la stessa coesione in uno sciopero coperto anche dal sindacato, ma se fosse rimasto lì l'efficacia della lotta sarebbe comunque stata ridotta a causa dell'esistenza di stock di energia. L'azione offensiva tramite l’organizzazione di picchetti volanti in tutto il paese ha rivelato una organizzazione spontanea, anche se questa auto-organizzazione ha beneficiato dell'aiuto della organizzazione volontarista. Senza l'efficacia, dell'organizzazione spontanea degli stessi minatori, questo supporto sarebbe stato ridotto a ben poco. In un identico campo, le miniere di carbone, abbiamo visto una simile auto-organizzazione da parte dei minatori americani la scorsa estate durante lo sciopero dei minatori degli Stati Uniti.

D'altra parte, in una situazione diversa, i 4.000 minatori delle miniere di ferro di Kiruna in Svezia è andato in sciopero totale dal dicembre 1969, alla fine di febbraio 1970. La loro organizzazione spontanea ha trovato espressione in un comitato di sciopero eletto dalle maestranze escludendo tutti i rappresentanti sindacali. La fine dello sciopero poteva essere ottenuto solo dopo la distruzione di questa commissione e il ritorno a forme di auto-organizzazione precedenti alla lotta stessa. Lo sciopero della LIP in Francia nel 1973 ha avuto un'eco enorme tra gli altri lavoratori, perché 1.200 persone hanno osato fare una cosa insolita: rubare prodotti e materiali dell’impresa per pagare il loro salario durante lo sciopero. Questo è stato possibile solo grazie all’organizzazione spontanea della lotta, ma questa organizzazione spontanea è stata interamente mascherata da una organizzazione volontarista interna (l'Inter-Union Committee) e da quelle esterne (i molti comitati di sostegno). Nel corso degli ultimi anni, l'organizzazione spontanea è stata a poco a poco dissolta, spesso a prezzo di tensioni durissime fra due organizzazioni, nel quadro istituzionale del Capitale, -una organizzazione formale e l’altra informale-, tranne in rari momenti. Anche un'altra situazione, il maggio 68 in Francia ha visto l'arrivo di diversi tipi di organizzazione. Molto è stato detto circa i movimenti volontaristi, il Movimento 22 marzo, i comitati d'azione, i comitati di quartiere, i comitati di lavoratori-studenti, ecc Molto meno è stato detto dell'informale auto-organizzazione della lotta che è stata molto forte nell’estendere lo sciopero in pochi giorni, ma che ripiegò su se stesso con la stessa rapidità, senza che si esprimesse in organizzazioni o azioni specifiche, lasciando così il via libera a varie organizzazioni volontariste, per la maggior parte, i sindacati o partiti.

L'Italia dal 1968 fino ad oggi e la Spagna tra il 1976-1977, hanno visto situazioni simili a quelle sviluppate nel maggio 68 in Francia, in cui esiste la co-esistenza di organizzazioni spontanee, con quelle tradizionali (partiti e sindacati), ma anche con organizzazioni volontariste di una nuovo tipo, con forme nate dalla situazione creata dal movimento spontaneo. I movimenti possono svilupparsi spontaneamente in categorie sociali soggette alle stesse condizioni, senza essere tutti coinvolti in un primo momento, ma senza essere organizzazioni volontariste per tutti loro. Esse sono l'embrione di un movimento spontaneo più grande che a seconda delle circostanze si attesterà giornalmente al livello di quel giorno o darà luogo ad una organizzazione formale, se si diffonderà su scala molto più ampia. Gli ammutinamenti degli eserciti inglesi, francesi, tedeschi e russi nella guerra del 1914-18 ha avuto queste caratteristiche e ha avuto conseguenze molto diverse. Il movimento di diserzione e di resistenza alla guerra in Vietnam nell'esercito americano era qualcos'altro che divenne alla fine uno degli agenti più potenti per la fine di quella guerra. Tutti possono provare in questo modo in tutti i movimenti di lotta a determinare il ruolo svolto da un'organizzazione spontanea e quello giocato dall’organizzazione volontarista. E 'solo una delimitazione per categorie, per nulla facile, che ci permette di capire le dinamiche dei conflitti e delle lotte interne ad esse. E così la frase che ho citato più indietro, rivelando uno irrisolto "problema" tra "rivoluzionari e masse" assume il suo significato complesso. Il problema è quello di un conflitto permanente tra "rivoluzionari e le masse", vale a dire tra l'organizzazione spontanea e organizzazione volontarista.

Naturalmente questo conflitto esprime una contraddizione che esiste, malgrado sia molto diverso da quello che le organizzazioni volontariste vorrebbero che fosse. Questo conflitto è mantenuto in gran parte nel fatto che, in una lotta, organizzazioni volontariste e organizzazioni spontanee co-esistono, ma il rapporto non è lo stesso in entrambe le direzioni. Per l'organizzazione spontanea, quella volontarista può essere uno strumento temporaneo in una scena d'azione. Necessita solo della dichiarazione dell’organizzazione volontarista di non essere risolutamente opposta a ciò che vuole la spontanea. E' spesso così con un delegato sindacale o con i diversi comitati creati parallelamente alla organizzazione spontanea intorno a un'idea o un obiettivo. Se l'organizzazione spontanea non trova utile un tale strumento crea i suoi propri organismi temporanei per raggiungere l'obiettivo del momento. Se lo strumento rifiuta la funzione assegnatagli dall'organizzazione spontanea, o diventa inadeguata perché la lotta ha spostato il terreno e le richieste con altri strumenti, l'organizzazione volontarista è abbandonata. E' la stessa cosa per la forma definita di un momento specifico dell’organizzazione spontanea.

Masse come soggetto/oggetto

Per l'organizzazione volontarista, le "masse", vale a dire l'organizzazione spontanea, comprese le sue forme definite temporanee, è un oggetto. Ecco perché si cercano di dargli il ruolo che essi hanno definito. Quando una organizzazione spontanea utilizza una organizzazione volontarista, quest'ultima cerca di mantenere l'ambiguità di base il più a lungo possibile, mentre allo stesso tempo cerca di piegare l'organizzazione spontanea verso la propria ideologia e i propri obiettivi. Quando l'organizzazione spontanea è abbandonata cercherà con tutti i mezzi in suo possesso per di portarla sotto la sua ala. I metodi utilizzati certamente variano a seconda dell'importanza della organizzazione volontarista e del potere che detiene nel sistema capitalista. Nel volume di propaganda di alcune organizzazioni e di commandos sindacali statunitensi che attaccano gli scioperi, per esempio, c'è solo una differenza di dimensioni. Questa dimensione è ancora più tragica quando l'organizzazione spontanea crea i suoi propri organismi di lotta, la cui esistenza implica la morte delle organizzazioni volontariste e dell'intero sistema capitalistico con esse. Dalla Germania socialdemocratica alla Russia bolscevica, dalla Barcellona dei ministri anarchici da cui viene la distruzione dei consigli operai, a Kronstadt e i giorni di maggio 1937. Tra assemblee, comitati di sciopero, consigli e collettività da un lato e organizzazioni volontariste, dall'altro, le frontiere sono ben disegnate nello stesso modo di quelle tra organizzazioni spontanee e volontariste.

La creazione stessa di organizzazioni spontanee può conoscere lo stesso destino delle organizzazioni volontariste. Le circostanze di una lotta quasi sempre guidano il movimento dell’organizzazione spontanea a ripiegare su se stessa, per tornare a forme più sotterranee, a forme più primitive si potrebbe dire, anche se queste forme sotterranee sono ricche e utile tanto quanto le altre. Qui siamo spesso tentati di rintracciare una gerarchia tra diverse forme di organizzazione, quando in realtà sono solo lo specchio del legame, l’una all'altra, del costante adattamento alla situazione, cioè alla pressione e alla repressione. Lo spostamento delle organizzazioni spontanee lascia dietro di sé sulla sabbia, senza vita, le forme definite che hanno creato. Se non muoiono tutti insieme e cercano di sopravvivere con l'azione volontaria di alcune persone, si trovano esattamente nella stessa posizione delle organizzazioni volontariste. Essi possono anche eventualmente fare uno sviluppo notevole in questa direzione, perché possono costituire una forma di organizzazione volontarista, se l'ultimo, quella spontanea, ha raggiunto un livello pericoloso per il sistema capitalista.

Non esistono ricette dal passato

In questo senso non esiste una ricetta dal passato per la creazione dell’organizzazione spontanea per la sua manifestazione in futuro. Non possiamo dire in anticipo quale forma determinata di organizzazione spontanea assumerà per raggiungere i propri obiettivi del momento. Nei suoi diversi livelli di esistenza e manifestazione, l'organizzazione spontanea ha un rapporto dialettico con tutto ciò che si trova sottoposto alle regole del sistema (tutto ciò che cerca di sopravvivere nel sistema) e finisce presto o tardi essendo per essere opposto ad esso, compresa l’opposizione all’organizzazione volontarista creata per lavorare nel proprio interesse, e contro le organizzazioni che sono sorte dalle organizzazioni spontanee che nel sistema capitalista si accumulano in organismi permanenti.
Per concludere su queste brevi considerazioni sull’organizzazione si è portati a credere che uno sguardo realistico sul problema è stato dato e che può essere fatta una conclusione provvisoria o definitiva. Lo lascio alle organizzazioni volonariste. Come il movimento spontaneo di lotta, la discussione su di esso non ha frontiere definite né conclusioni.

La crisi dell'organizzazione tradizionale


Sarebbe anche una contraddizione del movimento spontaneo considerare che lo schematismo necessario all’analisi contenga un qualche giudizio di valore delle idee e una condanna dell'azione dell’organizzazione volontarista. Le persone coinvolte in tali organizzazioni esistono perché il sistema di idee offerto corrisponde al livello delle relazioni tra la loro esperienza e quelle delle persone che li circondano e di quelle che conoscono. L'unico problema in questione è di collocare il loro posto in questa organizzazione, il posto di questa organizzazione nella società capitalistica, la funzione di questa in eventi in cui l'organizzazione può essere coinvolta. Queste sono precisamente le circostanze che attraverso l'impatto shock di esperienze portano una persona a fare ciò che il suo interesse dominante impone in un dato momento. Al fine di inquadrare meglio la questione, vediamo le crisi delle "grandi" organizzazioni volontariste, perché sono ben note e mal mimetizzate (e ricorrono sempre), ad esempio nel Partito Comunista Francese. Negli ultimi anni le crisi interne sono state provocate nel PCF dall'esplosione di organizzazioni spontanee in eventi come l'insurrezione ungherese (1956), la lotta contro la guerra d'Algeria (1956-1962) e il maggio 68.

L’organizzazione spontanea non si afferma tutta in una volta, secondo lo schema tradizionale delle organizzazioni volontariste. Si ricostruisce all'infinito e, secondo le necessità della lotta, sembra scomparire, per riapparire in un'altra forma. Questo carattere incerto e sfuggente è allo stesso tempo un segno della forza della repressione (la forza del capitalismo) e di un periodo di affermazione che esiste da decenni e che può essere molto lungo. In tale periodo intermedio le incertezze trovano espressione nelle esperienze limitate di ciascuno di noi, nella parcellizzazione di idee e azioni, e la tentazione è quella di mantenere una "acquisizione" delle lotte. La stessa incertezza è spesso interpretata come una debolezza che porta alla necessità di trovaci con altri che hanno la stessa esperienza limitata in organizzazioni volontariste. Ma tali organizzazioni, tuttavia, non differiscono molto da quelle del passato. Quando guardiamo alle "grandi" organizzazioni volontariste di mezzo secolo fa e più, alcune persone rammaricano la dispersione e la polverizzazione di tali organizzazioni. Ma essi esprimono solo, tuttavia, il declino dell'organizzazione volontarista e il sorgere dell'organizzazione spontanea,-una fase transitoria in cui le due forme di organizzazione spalla a spalla si confrontano in un rapporto dialettico-.

Ogni persona si pone, se può e quando può, in rapporto con questo processo, cercando di capire che le sue delusioni sono le ricchezze di un mondo a venire e i suoi fallimenti sono la vittoria di qualcos'altro molto più grande di ciò che deve abbandonare (e che ha poco a che fare con la "vittoria del nemico di classe" temporaneo). Qui la conclusione è l'inizio di un dibattito molto più grande che è quello dell’idea di rivoluzione e di un processo rivoluzionario in sé, un dibattito che in effetti non si pone come preambolo all’organizzazione spontanea, ma che si pone, come azione, come condizione e fine di azione in azione.

23.8.13

"il bastone delle guardie, le prigioni e i codici penali"

"Ho ferma speranza di trovare un buon lavoro, poiché un mio amico, un vecchio piemontese, fa il possibile per procurarmelo. In campagna acquistai salute e forza. Dico campagna, ma il paese dove lavoro conta 30.000 anime. Ha la biblioteca pubblica, la scuola superiore e scuole serali, numerosi parchi e laghetti lo circondano. (…) Ho patito molto a trovarmi in mezzo a gente straniera, indifferente e talora ostile. Ho dovuto soffrire delle ingiurie e scherni da gente che se avessi saputo una decima parte di inglese di quanto so l’italiano, l’avrei messa nella polvere.

Qui la giustizia pubblica è basata sulla forza e sulla brutalità, e guai allo straniero e in particolare l’italiano che voglia far valere la ragione con mezzi energici; per lui ci sono il bastone delle guardie, le prigioni e i codici penali."

                                  Bartolomeo Vanzetti (Lettera alla sorella, 12 gennaio 1911)

Bagno di sangue “democratico”

Dopo una fase di “repressione controllata” in cui le uccisioni si alternavano ai tentativi di dialogo, il braccio di ferro fra i Fratelli Musulmani e i militari è sfociato in un massacro. Mentre scriviamo il bilancio si aggrava di ora in ora: alla giornata di giovedì 15 agosto i morti ufficialmente riconosciuti sarebbero oltre 600 e venerdì altri 173, mentre la Fratellanza parla di 4500 morti in tutto l’Egitto.
Il golpe laico che avrebbe dovuto salvare il paese arabo da una nuova autocrazia islamica si è tradotto in una prevedibile sanguinosa repressione che oggi colpisce i sostenitori del deposto presidente Morsi ma che sin dalla nascita dell’Egitto repubblicano è sempre stata usata per opprimere la classe lavoratrice. I lavoratori sono stati in prima fila nelle lotte per scacciare Moubarak, ma vengono oggi schiacciati dalla falsa alternativa laici/islamisti che maschera il carattere di classe dello Stato egiziano.
Dalla repressione nel 1977 della “rivolta dei ladri”, come la definì il presidente Sadat, a quella degli scioperi negli anni ’90, dagli spari sugli operai a Mahalla agli assassini di stato nella primavera araba, dalle repressioni dello SCAF a quelle del governo Morsi, lo stato borghese egiziano non ha mai smesso di confermare il suo carattere antioperaio, sia attraverso la forza dell’esercito, sia attraverso i corpi di sicurezza “civili”.
In questo momento il pugno di ferro si abbatte sui Fratelli Musulmani, ma è pronto a scattare di nuovo anche contro coloro che combattono lo sfruttamento.
Il paese è in una crisi gravissima: nonostante i consistenti finanziamenti di Arabia Saudita ed Emirati Arabi – 13 miliardi di $) gli interessi sul debito assorbono il 25% del bilancio statale, la crisi politica fa fuggire i turisti, la burocrazia statale – elefantiaca e clientelare, fonte di consenso sociale – drena risorse preziose, la produzione delle aziende si fonda su bassi salari, pochi capitali, bassa produttività ed evasione fiscale, larghissimi strati della popolazione sono nell’indigenza…
Gli stessi problemi economici che hanno causato la mobilitazione contro Moubarak, lo SCAF e Morsi possono causare la rivolta contro il governo Al-Sisi o quello che lo seguirà.
E’ una situazione critica che favorisce le lotte sociali. Lotte che per i lavoratori e le loro avanguardie sono un’ottima palestra, mentre per la borghesia egiziana rendono il potere militare e il suo bastone sempre più preziosi.
Una borghesia da tempo divisa: da un lato i gruppi economici statali – di proprietà dell’esercito – contrari alle riforme liberiste volute da Moubarak prima e dai Fratelli Musulmani poi, dall’altro i gruppi privati che da tempo chiedono una maggiore apertura agli investimenti stranieri e alla concorrenza interna. Questo spiega perché l’esercito ha dato il colpo di grazia prima a Moubarak – un capo di stato laico, uscito dai ranghi delle forze armate – poi al governo Morsi: per difendere il proprio ruolo di holding in grigioverde e i conseguenti privilegi dei suoi ufficiali che, alla soglia della pensione, possono contare su un posto sicuro nelle aziende statali. Ma la prospettiva di “pacificare” il paese schiacciando le proteste e le tasse imposte da Morsi ai settori privati ha spinto molti magnati dell’economia privata a schierarsi col golpe militare.

L'atteggiamento dei governi stranieri

I governi occidentali e l’ONU esprimono preoccupazione e rammarico per i morti ed esortano al dialogo e discutono sulle misure da adottare. Fino ad oggi si sono ben guardate dal delegittimare il governo golpista: la loro preoccupazione era quella di bruciare sul nascere i rapporti con un governo che poteva cadere da un momento all’altro ma anche consolidarsi e rivolgersi a nuovi partner politici e militari. Il loro atteggiamento di disponibilità ha aperto la strada alla repressione.
Solo ora rilasciano dichiarazioni dure; il governo statunitense blocca le esercitazioni militari congiunte USA-Egitto, ma ancora nessun blocco della prevista fornitura di cacciabombardieri F16. Lunedì 28 è prevista una riunione dell’Unione Europea per concordare una posizione comune.
Più variegate le posizioni nei paesi musulmani: mentre Arabia Saudita ed emirati Arabi sono da sempre sostenitori dei golpisti, Qatar e Turchia condannano duramente il massacro.

L’Italia: affari per lo sfruttamento, armi per la repressione
Da tempo l’Italia è in prima fila negli investimenti in Egitto.
Va ricordata ad esempio la visita d’affari del 9 aprile 2008 dell’allora presidente del Consiglio Prodi accompagnato da una delegazione di imprenditori guidata Luca Cordero di Montezemolo (allora presidente non solo della Ferrari ma anche di Confindustria) e Corrado Passera (allora consigliere delegato di Intesa Sanpaolo), visita che ha fruttato diversi accordi economici, ma che soprattutto si è svolta esattamente il giorno dopo che la polizia ha disperso a fucilate una manifestazione di scioperanti a Mahalla (2 morti, almeno cento feriti, numerosi arresti).
A questo si aggiungono le consistenti forniture militari: a fine luglio l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere (onlus con sede a Brescia) e la Rete Italiana per il Disarmo hanno chiesto al ministro degli esteri Emma Bonino di sospendere le forniture belliche verso il Cairo, un business che nel 2012 ha raggiunto 28 milioni di euro. L’Osservatorio denuncia un flusso continuo di armi esportate con regolare licenza sia dal governo Berlusconi che da quello Monti: fucili Beretta, munizioni per carri armati Simmel, cannoni Oto Melara, componenti per missili Sparrow/Aspide, blindati Iveco… Contro i dimostranti di piazza Tahrir nel 2011 sono stati sparati proiettili Fiocchi.

Il ruolo dei lavoratori

Davanti al massacro, alcuni sostenitori del golpe ora si sfilano: si sono dimessi il vicepresidente El-Baradei e Khaled Daud, portavoce del Fronte di Salvezza Nazionale, principale sostenitore del governo Al-Sissi. Dove sono stati fino ad ora, quando i morti giornalieri preannunciavano la strage? Il loro atteggiamento è un esempio dell’affidabilità della leadership “liberale”.
Invece la classe operaia egiziana negli ultimi tre anni ha espresso un forte potenziale di lotta, con migliaia di scioperi che hanno permesso un parziale recupero salariale. Ma finora queste lotte economiche non si sono tradotte in lotta politica indipendente. Il regime dei militari ha avuto l’appoggio sia dei sindacati ufficiali che di quelli “alternativi” nel loro golpe. La lotta economica dei lavoratori è stata utilizzata per gli interessi di una frazione della borghesia, ma vi sono tuttavia nel movimento operaio egiziano voci significative che si oppongono a questo utilizzo borghese (su questo sito abbiamo pubblicato l’appello della sindacalista Fatma Ramadan contro il governo golpista).
All’interno delle proteste di piazza Tahrir, di Suez e altre città vi sono correnti che lottano contro entrambi i maggiori schieramenti borghesi, per una politica indipendente di classe. È a loro che deve andare la nostra solidarietà attiva di comunisti, innanzitutto denunciando la complicità del nostro imperialismo nella strage, complicità che non viene cancellata dalle tardive lacrime di coccodrillo dei governanti.

Combat/Comunisti perl'Organizzazione di Classe

22.8.13

Point Break - Class Struggle

Trecento per cento

Il capitale aborra la mancanza di profitto o il profitto molto esiguo, come la natura aborre il vuoto. Quando c’è un profitto proporzionato, il capitale diventa audace. Garantitegli il dieci per cento e lo si può impiegare dappertutto; il venti per cento e diventa vivace; il cinquanta per cento e diventa veramente temerario; per il cento per cento si mette sotto i piedi tutte le leggi umane; dategli il trecento per cento, e non ci sarà nessun crimine che esso non arrischi, anche pena la forca. Se il tumulto e le liti gli portano profitto, esso incoraggerà l’uno e le altre.
 
                                                                                                           Karl Marx 
 

Manganellate agli immigrati che non rispettano il copione

 
Redazione di Operai Contro,

il ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge non ha ancora capito. Il governo Letta la usa per farsi pubblicità.
La sua visita a Isola Capo Rizzuto ha scatenato la seconda rivolta nel giro di poche settimane.
Stamattina gliimmigrati ospitati nel centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto, in Calabria, hanno aggredito l’auto blindata del ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge.
Dopo essere stata a Riace, l’esponente del governo Letta si è recata nella struttura in provincia di Crotone dove ha incontrato i migranti ed è entrata all’interno dei container del campo per rendersi conto delle condizioni in cui vivono i disperati arrivati in Italia con i barconi.

Al termine della visita, la Kyenge ha ascoltato una delegazione di immigrati che subito dopo si sono scagliati contro la sua auto e hanno lanciato le pietre sulle forze dell’ordine. Immediata la reazione degli agenti in assetto antisommossa. Secondo il ministro dell’Integrazione: “Bisogna capire i motivi della protesta. Occorre avviare un dialogo. Io sono contro l’uso della violenza”.

Ministro i CIE sono dei campi di concentramento che vanno chiusi

L’accoglienza è solo una fantasia

Per gli immigrati che non hanno rispettato il copione degli applausi ci sono state le manganellate

http://tv.ilfattoquotidiano.it/2013/08/21/isola-capo-rizzuto-kyenge-bloccata-dai-migranti-lei-avviare-dialogo/242686/

Un immigrato 

7.8.13

"Ci chiamano ladri e banditi"



Il mio nome è Assata Shakur (nome da schiava joanne chesimard), e sono una rivoluzionaria. Una rivoluzionaria Nera. Ciò significa che ho dichiarato guerra a tutte le forze che hanno violentato le nostre donne, castrato i nostri uomini e tenuto i nostri bambini con lo stomaco vuoto. Ho dichiarato guerra ai ricchi che prosperano sulla nostra povertà, ai politicanti che ci  mentono coi volti sorridenti, a tutti i robot senza cuore e cervello, che proteggono loro e le loro proprietà.
Sono una rivoluzionaria nera, e, come tale, sono una vittima di tutta l'ira, l'odio e l'infamia di cui l'Amerika è capace. Così come tutti gli altri rivoluzionari neri, l'Amerika sta cercando di linciarmi. (...)

L'aspettativa di vita per le masse nere è molto più bassa di quella dei bianchi, loro fanno del loro meglio per ucciderci prima di essere nati. Noi siamo bruciati vivi in ​​case popolari-trappola. I nostri fratelli e sorelle muoiono quotidianamente di eroina e metadone. I nostri bambini muoiono per avvelenamento da piombo. Milioni di persone di colore sono morte a causa di cure mediche indecenti. Questo è omicidio. (...)

Il novanta per cento della popolazione carceraria in questo paese è nera assieme a persone provenienti dal Terzo Mondo che non possono permettersi né cauzioni né avvocati. Loro ci chiamano ladri e banditi. Dicono che rubiamo. Ma non lo era chi ha rubato milioni di persone di colore dal continente africano? Siamo stati derubati del nostro linguaggio, dei nostri Dei, della nostra cultura, della nostra dignità umana, del nostro lavoro, e delle nostre vite. Ci chiamano ladri, eppure non siamo noi che rubiamo milioni di dollari ogni anno attraverso evasioni fiscali, cartelli illegali, appropriazione indebita, frodi ai consumatori, tangenti, speculazioni e truffe. Ci chiamano banditi, eppure ogni volta che le persone nere percepiscono il loro salario siamo noi che siamo derubati. Ogni volta che entriamo in un negozio nel nostro quartiere accade lo stesso. E ogni volta che paghiamo l'affitto il padrone di casa ci infila una pistola tra le costole.

Loro ci chiamano ladri
, ma noi non abbiamo rapinato e ucciso i nativi cacciandoli dalla loro patria, per poi chiamare noi stessi pionieri. Ci chiamano banditi, ma non siamo noi che stiamo depredando l'Africa, l'Asia e l'America Latina delle loro risorse naturali e dellla libertà, mentre le persone che vi abitano sono malate e affamate. I governanti di questo Paese e i loro tirapiedi hanno commesso alcuni dei più brutali crimini feroci della storia. Sono loro i banditi. Sono loro gli assassini. E dovrebbero essere trattati come tali. Questi maniaci non possono essere adatti a giudicarmi, o Clark, o qualsiasi altra persona nera sotto processo in Amerika. La gente di colore dovrebbe, e inevitabilmente, deve determinare il proprio destino. Ogni rivoluzione nella storia è stato fatta da azioni, sebbene anche le parole sono necessarie. Dobbiamo creare scudi che ci proteggano e lance che penetrano i nostri nemici. I neri devono imparare a lottare con la lotta. Dobbiamo imparare dai nostri errori. (...)

Dobbiamo difendere noi stessi e non permettere a nessuno di mancarci di rispetto. Dobbiamo ottenere la nostra liberazione con ogni mezzo necessario. E' nostro dovere combattere per la nostra libertà. E' nostro dovere vincere. Bisogna amarsi e sostenersi a vicenda. Non abbiamo nulla da perdere se non le nostre catene.

                                                    Assata Shakur  (Alla mia gente, 14 luglio 1973)

Fincantieri di Marghera: un accordo strappato con la lotta! Una lotta che dovrà necessariamente continuare ed espandersi oltre il cantiere

 
Venerdì 2 agosto è stata sottoscritta tra Fincantieri, sindacati e Rsu un’ipotesi di accordo che entrerà in vigore solo se e quando gli operai e gli altri dipendenti del cantiere l’avranno approvata, alla fine di agosto – da lunedì 5, infatti, il cantiere va in ferie per due settimane.
Per dare un giudizio su questa ipotesi di accordo, dobbiamo tornare al punto di partenza, tra maggio e giugno, quando l’azienda assesta un duplice colpo ai lavoratori: disconosce l’elezione della Rsu eletta dai lavoratori, a maggioranza Fiom (che ottiene il 77,7% del voto operaio) e, soprattutto, vista l’autorevole presenza al suo interno di compagni degni di questo nome, pretende – in base all’accordo-capestro sulla rappresentanza sindacale di fine maggio – una diversa Rsu a maggioranza Fim/Uilm. L’azienda, poi, presenta un piano di riorganizzazione generale degli orari che prevede: 1) il turno di notte (fino alla mezzanotte); 2) l’applicazione su larga scala del 6×6; 3) un orario pluri-settimanale di ampiezza indefinita, senza limiti alle ore settimanali, da attuare su un biennio; 4) lo spostamento della mensa a fine turno; 5) l’estromissione della Rsu da ogni funzione di controllo su orari e organizzazione del lavoro.
Questo stravolgimento generale degli orari, non essendo prevista alcuna compensazione salariale (salvo che per il turno di notte con le indennità dalle 20 alle 24), avrebbe comportato, con la trasformazione del sabato in una normale giornata lavorativa e la pratica abolizione dello straordinario, una riduzione media dei salari operai di 100-150 euro e forse, in qualche caso, anche più. A supporto del suo attacco Fincantieri formula il seguente ricatto, che ha caratterizzato l’intero periodo della lotta: o si accetta questo piano aziendale, o le nuove navi ordinate dalla Viking, a cominciare dalla Viking Star, andranno in altri cantieri.
La risposta a questo attacco da parte della Rsu e dei lavoratori del cantiere – dall’inizio alla fine, i veri protagonisti dello scontro con il padrone-Fincantieri – è consistita nel blocco degli straordinari al sabato e alla domenica, e in scioperi di una o due ore all’interno del cantiere.
Proprio nel mezzo di questo conflitto aziendale, un terzo, e più duro, colpo agli operai di Marghera, come a tutti i lavoratori del gruppo, è arrivato il 10 luglio quando a livello nazionale non solo Fim e Uilm, ma anche la “diversa” Fiom, hanno firmato un accordo tutto incentrato sulla necessità del “recupero sul terreno della competitività” nel quale si dà in sostanza il via libera alla azienda perché proceda a “un’ulteriore revisione del modello organizzativo, produttivo e gestionale”. Quest’accordo ha definito il numero di “eccedenze” (ovvero: i lavoratori da licenziare) e il numero di lavoratori da mettere a cassa integrazione in tutti i cantieri. Per tutto il gruppo si tratta di 904 lavoratori da licenziare “con il criterio della non opposizione”, e di 2.992 lavoratori da mettere a cassa integrazione; per Marghera di 115 “eccedenze”, e 325 lavoratori da mettere in cassa integrazione. La posizione del padrone di stato Fincantieri, reso arrogante dal raddoppio del proprio fatturato a seguito dell’acquisizione della norvegese STX OSV, si è ulteriormente rafforzata sia per effetto di questo accordo nazionale, sia per effetto di un altro accordo imposto ai lavoratori del cantiere di Ancona, che dà all’impresa una grande libertà d’azione in materia di organizzazione del lavoro in “cambio” di un po’ di attività produttiva. L’azienda ha potuto così approfittare, in pieno, della distruzione del coordinamento un tempo esistente tra i diversi cantieri del gruppo, ognuno dei quali va ormai, disgraziatamente, per proprio conto, isolato da tutti gli altri e perciò più esposto all’arroganza padronale. Ma, in quest’occasione, l’azienda si è fatta forte anche dei segnali ricevuti dal Comitato centrale della Fiom di metà luglio nel quale Landini e Grondona (Fiom Genova, di Lotta comunista) hanno attaccato con argomenti quanto mai strumentali la resistenza dei lavoratori di Marghera. Per non parlare, infine, della libertà d’azione concessa a tutti i padroni, e quindi anche a Fincantieri, dalla stasi delle lotte operaie in tutto il paese.
Da una simile, evidente posizione di forza Fincantieri formula il giorno 25 luglio il suo aut-aut: o prendere o lasciare la sua proposta ultimativa, nella quale inserisce anche la decisione di tornare al cottimo individuale. Fim e Uilm “prendono”; la Fiom, pressata dalla compattezza e fermezza della lotta, “lascia”, ritirandosi dal tavolo delle trattative. A questo punto parte un tam-tam assordante sullo spostamento della Viking Star nel cantiere di Monfalcone da cui arrivano, anche attraverso la Rsu-Fiom, segnali ambigui che da un lato sono di formale solidarietà con la lotta di Marghera, ma dall’altro lasciano trapelare la disponibilità sostanziale, mai smentita, ad accettare “di buon grado” lo spostamento della Viking Star. Per alcuni giorni la tensione in fabbrica si allenta. Sono giorni nei quali cade nel vuoto (momentaneamente) la nostra proposta di una prova di forza da parte degli operai, con l’intensificazione degli scioperi e l’uscita dal cantiere, in direzione della “città”, cioè degli altri lavoratori, e in direzione di Monfalcone e degli altri cantieri dell’azienda. A questo punto Fincantieri è convinta di poter calare i suoi assi per chiudere subito la partita con un cappotto: una lettera di attacco agli scioperi, pilotata dalla direzione e fatta firmare a più di 100 dirigenti, tecnici e impiegati; il tentativo di far approvare l’ipotesi padronale di accordo siglata da Fim/Uilm attraverso un referendum, che finisce però con una clamorosa bocciatura da parte dell’assemblea del cantiere, la più grande assemblea operaia da decenni; l’organizzazione del tentativo di rompere i picchetti da parte di alcuni capicantiere delle ditte di appalto; l’intimidatoria presenza della Digos in fabbrica; le lettere di cassa integrazione, prima 34, poi 45 (un anticipo delle previste 325).
Le lettere di cassa integrazione sono la goccia che fa traboccare il vaso. La lotta operaia ha uno scatto, lo scatto che ha costretto Fincantieri a un accordo che in nessun modo può presentare come una sua vittoria. Scatta lo sciopero generale totale del cantiere il 30 e 31 luglio e il 1° agosto, con dimostrazioni e assemblee sia dentro lo stabilimento che a Mestre, davanti alla Confindustria, con stampa e tv convocate a rapporto perché, accanto alle abituali e professionali menzogne cui in nessun modo possono rinunciare, facciano sentire anche la voce dei lavoratori. È un’autentica prova di forza anche nei confronti della Fiom che, sentendosi sfuggire del tutto di mano la conduzione della lotta e volendo dar prova, invece, di “controllarla”, decide l’1° agosto di “raffreddare” la tensione dimezzando le ore di sciopero da 8 a 4 senza consultare i lavoratori in lotta e la Rsu, per venire anch’essa sconfessata – lo sciopero, infatti, rimane di 8 ore. A loro volta i delegati della Uilm sconfessano la propria organizzazione partecipando alla mobilitazione, mentre la Fim-Cisl sparisce completamente dalla scena dello sciopero generale, conoscendo una vera e propria debacle di influenza e di iscritti. Il 1° agosto lo sciopero è stato semi-totale perché, visto il timore di un intervento massiccio della polizia, i lavoratori hanno rinunciato al picchetto limitandosi alla propaganda verbale anti-crumiraggio. Ma il risultato è stato comunque importante: su 300 impiegati ne è entrata solo una quarantina e su oltre 1.000 operai delle ditte di appalto ne è entrato un centinaio.
Confindustria e Fincantieri, pressate anche dal governo, davanti al rischio sempre più concreto di una lotta a oltranza allargata alle famiglie dei lavoratori e alla città, ed estesa perfino a Monfalcone, accettano di riaprire la trattativa e di tener conto di quanto gli operai e i lavoratori del cantiere hanno espresso con decisione e compattezza esemplari. Ne risulta un compromesso onorevole e forse, dati i tempi, anche più che onorevole per i lavoratori in lotta. Con i seguenti punti salienti:
1) ritiro di tutti i provvedimenti di cassa integrazione;
2) nessun cottimo individuale;
3) applicazione del 6×6 limitata “al minor numero di reparti e di lavoratori possibile” (è la formula usata dal “Corriere della sera”), un’ottantina di lavoratori delle macchine automatiche e dei reparti assistenza, a tempo, per circa 4 mesi (dal 2 settembre al 20 dicembre 2013), con indennizzo, dopo di che ci sarà il ritorno all’orario normale – c’è inoltre un’intesa informale tra Rsu e azienda perché questi lavoratori possano avere un passaggio di qualifica, che appare più agevole dal 3° al 4°, più complesso dal 4° al 5° e dal 5° al 5° erp;
4) orario plurisettimanale limitato ad alcune categorie di lavoratori (elettricisti, addetti alle attività di allestimento e di bordo), fissato a un massimo di 48 ore settimanali, con recuperi su un anno, e non su due come preteso dall’azienda: una differenza determinante perché, per una serie di questioni tecniche, le ore eccedenti le 40 ore settimanali verranno pagate come ore di straordinario;
5) la mensa resta com’era, va a fine turno solo per i lavoratori implicati, a tempo, nel 6×6;
6) in tutte le materie concernenti gli orari, è riconosciuto il diritto di intervento e contrattazione della Rsu, non la semplice informazione da parte dell’impresa.
Quanto, infine, alle “eccedenze” e ai lavoratori da licenziare “con il criterio della non opposizione”, il loro numero viene formalmente ridotto, sulla carta, di 25 unità (a 90), ma in realtà non vi sarà alcun licenziamento non solo per la ferma opposizione della Rsu, ma anche perché i nuovi carichi di lavoro e il ritiro della cassa integrazione imposto dalla lotta non lo giustificherebbero in alcun modo.
Sabato mattina, ai cancelli dello stabilimento, c’era un clima di soddisfazione e di orgoglio tra gli operai e i delegati che sono stati il nucleo centrale e direttivo della lotta. Comprendiamo in pieno questi sentimenti, più che giustificati se si tiene realisticamente conto dello stato attuale del conflitto di classe in Italia, del pressoché totale isolamento di questa lotta e – in particolare – dell’estrema pesantezza della posizione ambigua assunta dai delegati sindacali di Monfalcone. Ma sarebbe illusorio pensare che Fincantieri rinunci a utilizzare le seppur limitate e temporanee, e tuttavia reali, “flessibilità” che è riuscita ad ottenere per cercare di allargarle e prolungarle con nuovi colpi di mano. Bisogna dare per scontato il contrario.
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Questa lotta, però, fa una differenza, e una differenza non da poco. Il suo più importante risultato non è tanto l’aver in parte e momentaneamente stoppato l’attacco padronale, ma il fatto che gli operai e i lavoratori del cantiere abbiano lottato in modo compatto, organizzato, senza allinearsi né alle svendite di Fim-Uilm né alle politiche di “raffreddamento” del conflitto tentate dalla Fiom. I lavoratori hanno preso la lotta nelle proprie mani e hanno dimostrato – a se stessi e al resto dei lavoratori – qual è il loro potenziale di lotta. Questa è la lezione più importante da trarre da questa esperienza, e questo deve essere il punto di partenza per affrontare i principali fattori di debolezza che sono emersi in essa: la mancanza di un pieno coordinamento con i lavoratori degli appalti, che non si sono mai contrapposti alla lotta, ma neppure l’hanno sostenuta in pieno, e con i lavoratori degli altri cantieri dell’azienda, ed il relativo isolamento dal resto della classe lavoratrice e della cittadinanza. Abbiamo visto che è stato proprio quando i lavoratori hanno iniziato a superare, in parte, queste barriere che la Fincantieri ha fatto marcia indietro ed è scesa a patti con i lavoratori per impedire che andasse a finire, per sé, anche peggio di com’è finita.
La lotta di questi mesi indica ai lavoratori Fincantieri, e non solo a loro, la direzione in cui proseguire. È bene tenere in mente che il braccio di ferro su orari, produttività, prestazioni e premio di produttività è solo momentaneamente sospeso. È scontato infatti che l’applicazione dell’accordo porterà nuovi conflitti a livello aziendale, anche perché non è affatto escluso – anzi! – che Fincantieri possa ritentare l’assalto con l’aiuto di Fim/Uilm e di qualche “improvvisa apertura” della stessa Fiom (che si può leggere, ad esempio, in una dichiarazione del segretario provinciale Trevisan circa il carattere “sperimentale” del 6×6, del tutto in contrasto con la posizione dei compagni che hanno guidato la lotta, per i quali è chiaro e scontato che dopo il 20 dicembre si ritorna agli orari normali senza più il 6×6). Inoltre, già sappiamo che il governo Letta-Berlusconi ha tutta l’intenzione di rimettere in moto il processo di privatizzazione dell’azienda e la sua quotazione in borsa. In un articolo de “La stampa” del 19 luglio si afferma che la Fincantieri è la prima nella lista delle aziende da privatizzare da parte del governo. Perciò, nonostante questa lotta e i risultati conseguiti, grazie al rafforzamento che essa ha favorito, i lavoratori della Fincantieri saranno presto chiamati anche a battaglie di più ampio respiro, e a confrontarsi con la questione centrale, del tutto irrisolta, dell’organizzazione dell’intera classe lavoratrice contro l’attacco scatenato dalla classe capitalistica e dal governo.
Agli inizi di luglio i compagni del Comitato permanente contro le guerre e il razzismo e del Centro di iniziativa comunista internazionalista hanno promosso la formazione di un Comitato di sostegno ai lavoratori Fincantieri, alla cui attività hanno partecipato anche altri/e compagni/e. Nonostante le sue forze limitate, il Comitato ha fatto il possibile per rompere l’isolamento di questa lotta, per sollecitarla ad andare avanti, passo dopo passo, a radicalizzarsi, a uscire dal chiuso del cantiere e parlare all’intera classe lavoratrice su temi comuni ai lavoratori di tutti i settori. In questa campagna, il Comitato ha ricevuto il sostegno di una serie di siti (a cominciare da “Il pane e le rose”), network, organizzazioni, giornali e di singoli compagne/i. Nei volantinaggi alla stazione, ai mercati, ai centri commerciali, abbiamo ricevuto parole di solidarietà da parte di lavoratori e gente comune, che hanno espresso la convinzione che quest’attacco è parte di un più generale attacco che coinvolge anche loro. Un organismo sindacale di ferrovieri e di lavoratori degli appalti delle ferrovie di Venezia ci ha mandato una delle più decise prese di posizione di solidarietà alla lotta in Fincantieri, proponendoci di iniziare un confronto per coordinare le forze in campo, al di là delle appartenenze sindacali. Alcuni gruppi di compagni si sono offerti di far arrivare i nostri testi agli operai dei cantieri liguri. Il coordinamento nazionale del S.I. Cobas, che sta coordinando da anni la lotta dei lavoratori della logistica, ha dato il suo pieno sostegno alla lotta degli operai Fincantieri, considerandola parte della loro stessa lotta. Ma la lista di adesioni e solidarietà dall’Italia e dall’estero, è molto più lunga, ed è andata allungandosi con il passare dei giorni…
Ciò che più importa è che questi sono altrettanti segnali della necessità, per far fronte alla crisi, di creare organismi più ampi che coinvolgano lavoratori occupati e disoccupati, più o meno precari, nativi e immigrati, al di là delle appartenenze sindacali e delle barriere del localismo. Sono segnali non solo della necessità, ma anche della possibilità concreta di fare tutto questo: della possibilità che i lavoratori uniscano le proprie forze e facciano fronte unico contro i padroni, il governo e lo stato nella grande tempesta sociale che ci attende negli anni a venire. Ed è per questo che – una volta compiuto il necessario bilancio – l’attività del nostro Comitato continuerà, sia in riferimento alla Fincantieri (non solo a Marghera) che a scala più ampia, cercando di favorire il collegamento e l’unificazione tra le lotte suscitate dalla crisi del capitalismo a livello nazionale e internazionale.

Marghera, 4 agosto 2013
Comitato di sostegno ai lavoratori Fincantieri

6.8.13

La decisione di bombardare Hiroshima. Eisenhower: "Non era necessario attaccarli con una cosa tanto orribile"

Oggi [6 agosto] è il 66esimo anniversario del bombardamento di Hiroshima. Anche se la maggioranza degli statunitensi lo ignora, gli storiografi ora riconoscono che gli Stati Uniti non avevano bisogno di utilizzare la bomba atomica per terminare nel 1945 il conflitto contro il Giappone. Inoltre, questo giudizio essenziale è stato espresso dalla grande maggioranza dei massimi dirigenti militari statunitensi delle tre sezioni dell'esercito negli anni che seguirono la fine della guerra: Esercito, Marina e Aeronautica. E neppure lo pensavano i "liberali", come ora a volte viene detto. Di fatto, alcuni importanti conservatori si sono mostrati molto più espliciti nel ritenere quella decisione ingiustificata e immorale di quanto hanno fatto i liberali statunitensi negli anni che hanno seguito la Seconda Guerra Mondiale.

Nell'estate del 1945 il Giappone era praticamente sconfitto, la sua marina in fondo all’oceano; la sua forza aerea limitata per la mancanza di combustibile, di equipaggiamento e per altre carenze; il suo esercito pativa sconfitte su tutti i fronti e le sue città sottoposte ai bombardamenti dai quali non poteva difendersi. La Germania era già fuori dal conflitto, gli Stati Uniti e il Regno Unito stavano per utilizzare tutto il loro potere contro i resti delle forze armate giapponesi. Intanto, l'Unione Sovietica si stava preparando ad attaccare il continente asiatico: l'Esercito Rosso, dopo aver vinto Hitler, era pronto per attaccare attraverso la frontiera manciuriana.
Molto prima dei bombardamenti dell’agosto del ’45, i servizi d’intelligence statunitensi avvisarono che probabilmente i giapponesi si sarebbero arresi subito dopo l’entrata in guerra dell’Unione Sovietica se questo non avesse comportato l'annichilamento nazionale. Il 29 aprile un documento dello Stato Maggiore dell’intelligence riportò: "Se in dato momento l'URSS dovesse entrare in guerra, i giapponesi si renderanno conto che la sconfitta assoluta sarà inevitabile."
Per questo motivo – proprio perché il suo ingresso avrebbe accorciato drasticamente la durata della guerra - prima ancora che la bomba atomica venisse provata con successo (il 16 luglio del 1945), gli Stati Uniti avevano sollecitato più volte con energia l'Unione Sovietica perché si unisse ai combattimenti il più presto possibile dopo la sconfitta di Hitler. Venne accordata una data di tre mesi dopo la resa della Germania, fissando così la data per attacco dell’Esercito Rosso approssimativamente per l’8 di agosto, visto che il conflitto era terminato in Europa l’otto di maggio. (Alla fine di luglio la data venne posticipata temporaneamente di una settimana.)
Non c'era comunque alcun dubbio che l'Unione Sovietica avrebbe partecipato alla guerra anche per ragioni proprie. Nella Conferenza di Potsdam tenuta a luglio (prima della prova atomica coronata dal successo), il presidente Truman registrò quello che segue nel suo diario, dopo essersi riunito col Primo Ministro sovietico Joseph Stalin il 17 luglio: "Entrerà nel conflitto giapponese il 15 di agosto. Quando avverrà, sarà la fine per i giapponesi.”
Il giorno seguente, il 18 di luglio, in una lettera privata a sua moglie, il presidente scrisse: "Sono riuscito a ottenere quello per cui sono venuto. Stalin entrerà in guerra il 15 di agosto. […] Penso che questo faccia terminare il conflitto un mese prima.”
Anche il presidente era stato sollecitato da molti alti consiglieri – tra cui forse il più importante era Stimson, l'uomo che supervisionò lo sviluppo della bomba atomica -, per offrire garanzie che avrebbero permesso all'imperatore giapponese di rimanere al potere senza alcuna capacità decisionale. Prima che si usasse la bomba, Stimson insisté esplicitamente davanti al presidente che, a suo giudizio, la guerra sarebbe terminata se si fossero offerte garanzie di questo tenore senza usare la bomba atomica.
E non esistevano neppure ostacoli politici insuperabili per questa eventualità: importanti quotidiani come il Washington Post, insieme ad alcuni dirigenti del Partito Repubblicano che era all’opposizione, erano a favore di un simile percorso. (Inoltre l'esercito degli Stati Uniti voleva mantenere l'imperatore in carica di modo da poter sfruttare la sua autorità per ordinare la resa e per aiutare ad amministrare il Giappone durante il periodo di occupazione in seguito alla fine del conflitto; quello poi avvenne, il Giappone ha ancora un imperatore.)
Come indicano l'annotazione sul diario del presidente e la lettera a sua moglie, non ci sono dubbi sul fatto che avesse ben compreso il consiglio degli esperti dell’intelligence sul probabile impatto dell'imminente attacco russo. Ci sono prove ancora maggiori per questo aspetto fondamentale: gli Stati Maggiori congiunti degli Stati Uniti e del Regno Unito si riunirono a Potsdam anche per consolidare la pianificazione delle tappe finali della guerra nel Pacifico. Il generale Sir Hastings Ismay, capo di Stato Maggiore del Ministero della Difesa britannico, riassunse così al Primo Ministro Churchill le ultime informative dei servizi unificati di intelligence (statunitense e britannici): "Nel momento in cui la Russia entrerà in guerra contro il Giappone, probabilmente i giapponesi preferiranno accettare una qualsiasi condizione che non sia la detronizzazione dell'imperatore."
Il risultato dello studio unificato dei servizi informativi di quel luglio segnalò ancora una volta quello che era stato il punto di vista dell'intelligence statunitense e di molti dei principali consiglieri del presidente durante tutti i mesi intercorsi dalla primavera all’estate prima della riunione avvenuta in luglio a Potsdam.
Tra i principali motivi per cui ci si attendeva che l’effetto dell'entrata sovietica nella guerra fosse tanto forte figuravano: in primo luogo che avrebbe sfidato l'esercito giapponese in quello che era stato uno dei suoi bastioni più importanti: la Manciuria; in secondo luogo, che avrebbe rappresentato il segno che non ci sarebbe stata speranza una volta che la terza delle tre grandi potenze fosse uscita dalla neutralità; e terzo, e forse ancora più importante, che i dirigenti giapponesi erano estremamente impauriti dal fatto che, con l'economia giapponese disorganizzata, i gruppi di sinistra si sarebbero potuti sentire politicamente incoraggiati se l'Unione Sovietica avesse raggiunto una posizione importante dopo la sconfitta del Giappone.
Inoltre i servizi informativi statunitensi avevano decifrato codici giapponesi e sapevano che i dirigenti del Giappone disperavano, contro ogni aspettativa, di poter riuscire a giungere a un accordo, con Mosca nella parte del mediatore. Visto che la sua strategia era fortemente focalizzata su quello che poteva fare l’URSS, questo sottolineava ancora di più l'ipotesi che, nel caso di attacco dell’Esercito Rosso, la fine non sarebbe stata molto lontana: la speranza illusoria di una negoziazione attraverso Mosca sarebbe stata completamente impraticabile se i carri armati sovietici fossero entrati in Manciuria.
Per parte loro, gli Stati Uniti si affrettarono a utilizzare le due bombe atomiche quasi in concomitanza con l’attacco sovietico che era stato pianificato per l’8 agosto: Hiroshima il 6 agosto e Nagasaki il 9 agosto. Ovviamente la scelta della tempistica ha suscitato le domande di molti storiografi. Le prove a disposizione, anche se non definitive, suggeriscono con forza che le bombe atomiche sono state utilizzate anche perché i dirigenti statunitensi “preferirono”, come ha detto lo storico Martin Sherwin vincitore del Premio Pulitzer, porre fine alla guerra con le bombe invece che con l’attacco dei sovietici. Sembra comunque un fattore importante anche il desiderio di impressionare l’URSS fin dall’inizio degli alterchi che avrebbero portato alla Guerra Fredda.
Alcuni analisti moderni hanno affermato che la pianificazione militare giapponese per respingere un'invasione era molto più avanzata di quanto si fosse pensato in precedenza e che pertanto minacciava i piani degli Stati Uniti. Altri hanno ipotizzato che i dirigenti militari giapponesi erano molto più irritati da una o più delle quattro “condizioni” proposte per la resa di quanto sostenuto da altri studiosi e che pertanto è probabile che avessero insistito energicamente per il proseguimento del conflitto.
È chiaramente impossibile sapere se il consiglio fornito dei massimi servizi di intelligence statunitensi e britannici, secondo cui l’attacco russo avrebbe portato alla resa, fosse corretto. Sappiamo che il presidente, quando prese la sua decisione, non ascoltò quelle informazioni così come quelle di altre persone, come il Segretario della Guerra Stimson, che ritenevano che la guerra potesse terminare in altro modo. Questo è di per sé un fatto importante per capire se questa scelta fu giustificata, visto che si sacrificarono così tante vite nei due bombardamenti.
Inoltre, molti rinomati storiografi che hanno studiato con attenzione gli antecedenti statunitensi e giapponesi (tra gli altri, Barton Bernstein e Tsuyoshi Hasegawa) hanno concluso che sicuramente il Giappone era in tali difficoltà che la guerra probabilmente sarebbe terminata prima della data prevista per l'invasione di novembre una volta che avessero partecipato anche i russi.
È anche importante segnalare che non c’era niente da perdere nel caso di un attacco russo per terminare la guerra. Le bombe atomiche vennero lanciate lanciarono su Hiroshima e Nagasaki il 6 ed il 9 di agosto. Rimanevano ancora tre mesi prima che avesse luogo il primo sbarco in novembre. Se l'attacco russo agli inizi di agosto non avesse dato i risultati attesi, è ovvio che in ogni caso si sarebbero potute utilizzare le bombe prima di soffrire perdite nello sbarco.
(Visto che l'utilizzo delle bombe atomiche e l'entrata nel conflitto dell’URSS avvennero quasi contemporaneamente, gli esperti hanno a lungo dibattuto quale dei due fattori avesse influenzato maggiormente la resa. È ovviamente un punto di vista molti diverso da quello che ha considerato l’utilizzo della bomba atomica come unico modo per finire il conflitto. Nonostante tutto, è vale la pena segnalare che, dopo aver parlato in privato il 14 agosto con alti ufficiali dell'esercito, l'imperatore giapponese dichiarò tassativamente: "La situazione militare è improvvisamente mutata. L'Unione Sovietica è entrata in guerra contro di noi. Gli attacchi suicidi non possono competere col potere della scienza. Per questo, non rimane alternativa.” E il comunicato emesso dall’imperatore agli ufficiali e ai soldati per assicurarsi che deponessero le armi segnalava: "Ora che l'Unione Sovietica è entrata in guerra, continuare in queste condizioni all'interno e all’estero porterebbe solo a un danno inutile. […] Per questo […] cercherò la pace.”)
La prospettiva più chiarificatrice, tuttavia, proviene dai massimi dirigenti statunitensi della Seconda Guerra Mondiale. L’opinione generalmente condivisa secondo cui la bomba atomica salvò un milione di vite è talmente diffusa (inesattezza della cifra a parte, come ha segnalato Samuel Walker) che la maggioranza dei cittadini statunitensi non è trattenuta dal riservare opinioni quanto meno minacciose per chiunque che si fosse preoccupato seriamente del tema: comunque, la gran parte degli alti dirigenti militari degli Stati Uniti ha pensato che i bombardamenti non fossero necessari e giustificati, e molti si sentirono moralmente offesi da quella che sembrava una distruzione non necessaria della città nel Giappone e nello sterminio di quelli erano essenzialmente civili disarmati. Inoltre, parlarono in maniera abbastanza aperta e pubblica del tema.
Il generale Dwight D. Eisenhower descrisse la sua reazione quando il Segretario di Guerra Henry L. Stimson gli riferì che dell’utilizzo della bomba atomica:
"Mentre stava elencando i fatti rilevanti, fui cosciente di un sensazione di depressione e per questo espressi i miei gravi dubbi, in primo luogo sulla base della mia convinzione che il Giappone fosse già sconfitto e che il lancio della bomba fosse completamente non necessario, e poi perché ritenevo che il nostro paese dovesse evitare uno scontro con l’opinione pubblica mondiale per l'uso di un’arma il cui impiego, pensavo, non era oramai indispensabile come modo per salvare vite degli statunitensi."
In un'altra dichiarazione pubblica, l'uomo che poi arrivò alla presidenza degli Stati Uniti fu più diretto: "Non era necessario attaccarli con quella cosa orribile."
Anche il generale Curtis LeMay, il “falco” dell’Aviazione con il sigaro sempre in bocca, fu sconvolto. Poco dopo dei bombardamenti dichiarò in pubblico: "La guerra sarebbe terminata comunque in due settimane. […] La bomba atomica non ha avuto assolutamente niente a che fare col fine della guerra.”
L'Ammiraglio Chester W. Nimitz, Comandante in Capo della Flotta del Pacifico, fece la seguente dichiarazione: "I giapponesi, in realtà, avevano chiesto già la pace. […]La bomba atomica non svolse un ruolo decisivo, da un punto di vista puramente militare, nella sconfitta del Giappone.”
Ho segnalato in precedenza anche la relazione stilata dal generale Sir Hastings Ismay, Capo di Stato maggiore del Ministero britannico della Difesa, al Primo Ministro Churchill che "se la Russia entrasse alla guerra contro il Giappone, probabilmente i giapponesi desidererebbero uscire dal conflitto a qualunque condizione che non sia la detronizzazione dell'Imperatore." Sentendo che il test dell’atomica ebbe successo, la reazione privata di Ismay fu di "rigetto".
Poco prima della sua morte, il generale George C. Marshall difese con tranquillità la decisione, ma le sue dichiarazioni registrate riportano ripetutamente che non fu una decisione militare, ma piuttosto politica. Cosa ancora più importante, molto prima dell'uso delle bombe atomiche, alcuni documenti dello stesso periodo mostrano che Marshall riteneva che "quelle armi dovrebbero usarsi prima contro obiettivi militari propriamente detti, come una gran installazione navale e, se non si fosse giunti a un risultato decisivo, credo che dovremmo designare una gran numero di grandi aree manifatturiere avvertendo le persone di andare via, dicendo ai giapponesi che siamo intenzionati a distruggere quelle zone.”
Come suggerisce il documento che riporta i punti di vista di Marshall, la questione della giustificazione dell’uso della bomba atomica verte non solo sulla possibilità scegliere altre opzioni e se i massimi dirigenti vennero informati della cosa. Riguarda anche la domanda se c’era la necessità di usare le bombe contro un obiettivo per la gran parte civile o contro un obiettivo strettamente militare, visto che quest’ultima era l'alternativa esplicita perché, pur essendoci truppe giapponesi nelle città, né Hiroshima né Nagasaki erano considerate fondamentali dal punto di vista militare dalla prospettiva statunitense. (È uno dei motivi per cui nessuna delle due esse era stata fortemente bombardata fino a quel momento nel conflitto.) Inoltre, la selezione degli obiettivi prendeva di mira esplicitamente installazioni non militari circondate da case di lavoratori. Questo possiamo trovare uno sguardo ancora più approfondito grazie alla testimonianza di altre due dirigenti militari, altrettanto conservatori.
Molti anni dopo il presidente Richard Nixon ricordò che…
"il [generale Douglas] MacArthur mi parlò una volta in modo molto eloquente al riguardo, camminando nel suo appartamento a Waldorf. Pensava che era una tragedia avere utilizzato la bomba. MacArthur credeva che si dovessero applicare le restrizioni delle armi convenzionali anche alle armi atomiche e che l'obiettivo militare dovesse portare sempre un danno limitato a non combattenti. […] MacArthur, capisce, era soldato. Credeva nell'uso del forza solo contro obiettivi militari, ed è per questo motivo che tutta la questione nucleare lo disgustava.”
Anche potendo citarne molti altri, riportiamo, per finire, la dichiarazione di un altro conservatore, un uomo che era un amico fidato del presidente Truman, il suo Capo di Gabinetto (così come fu Capo del Gabinetto anche del presidente Roosevelt) e dell'ammiraglio a cinque stelle che partecipò alle riunioni unificati dei Capi di Gabinetto statunitensi e britannici, William D. Leahy:
"[L]'uso di quell'arma barbara su Hiroshima e Nagasaki non fornì alcun aiuto materiale alla nostra guerra contro il Giappone. I giapponesi erano già sconfitti e pronti ad arrendersi. [….] [P]er essere stati i primi ad utilizzarla, abbiamo […] adottato gli standard etici dei barbari del Medio Evo. Non mi era stato insegnare di combattere in quel modo, e le guerre non si possono vincere distruggendo donne e bambini."

Gal Alperovitz
6 agosto 2011

fonte: Sotto le bandiere del marxismo