1.3.14

Argentina - in crisi il “modello k”

Cercasi disperatamente modello economico alternativo!

Alternativo a cosa? «Ma al devastante modello neoliberista, è chiaro!» Mica tanto. «Cosa credevi?» Pensavo fosse anticapitalismo… «E invece era un calesse!» Appunto.
Scrivevo abbastanza sconsolato il 4 maggio 2012: «In Venezuela si nazionalizza, in Argentina pure, in Bolivia anche. E i sovranisti di mezzo mondo vanno in brodo di giuggiole. Letteralmente. Dimenticavo: alla lista dei paesi che si stanno mettendo sulla buona e “rivoluzionaria” strada del nazionalismo economico c’è anche la Bielorussia di Lukashenko» (Socialnazionalismo). Oggi il vento sembra spirare in senso contrario, e la sola cosa che non muta è purtroppo la mia – pessima – condizione umorale quando ho a che fare con la «merda economica».
Scrive Albero Bisin: «Continuiamo a sentire l’Argentina magnificata come economia modello perché ha ripudiato il debito e svalutato (alla fine del 2001), nonostante gli ovvi segnali di sfaldamento da alcuni anni a questa parte. A questo proposito non stupisce poi tanto sentire Beppe Grillo farneticare riguardo all’assegno di due metri per uno che il governo argentino avrebbe consegnato al Fondo Monetario a Manhattan (sic) pur senza aver svenduto il Paese, il suo sistema educativo e sanitario. Per non parlare di economisti del calibro di Paul Krugman che ancora nel maggio 2012, a deterioramento evidente e ben consolidato della situazione economica in Argentina, la additavano alla Grecia come esempio da seguire» (La Repubblica, 27 gennaio 2014). Krugman, probabilmente il premio Nobel più sopravvalutato di tutti i tempi, oggi suggerisce all’Argentina una ricetta economica assai più ortodossa, quasi “rigorista”: «Non c’è alcuna contraddizione nel sostenere che l’Argentina fece bene a seguire politiche eterodosse nel 2002, ma fa male ora a non ascoltare chi le consiglia di ridurre i disavanzi e riportare sotto controllo l’inflazione» (Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2014). L’economista di successo crede di poter cadere sempre sulle zampe, come accade ai gatti, ma con ciò stesso egli si espone alla giusta ironia dei suoi colleghi, certamente più preparati di lui ma anche meno reclamizzati dai media, soprattutto da quelli progressisti, e quindi pronti a rinfacciargli ogni sciocchezza detta e scritta. E l’economista statunitense non fa certo economia in quanto a produzione di sciocchezze, soprattutto quando affetta pose ultrakeynesiane.
Nel suo libro del 1999 sul Ritorno dell’economia della depressione (Garzanti, 2001), Krugman citava un solo caso di successo (capitalistico) riguardante l’America Latina, quello cileno. «Per molti anni i paesi dell’America Latina hanno quasi avuto l’esclusiva di crisi valutarie, fallimenti bancari, bervi periodi di iperinflazione […] Deboli governi eletti democraticamente si alternavano a dittature militari, ed entrambi cercavano di conquistare la fiducia della gente con programmi populisti che in realtà non potevano permettersi. Nell’intento di finanziare questi programmi finivano per ricorre a prestiti concessi da disinvolti banchieri esteri, che facevano entrare in crisi la bilancia dei pagamenti, oppure alla stampa di denaro contante, che creava iperinflazione […] In America Latina pochi ammiravano la brutalità di Augusto Pinochet; ma le riforme economiche che aveva lanciato in Cile si rivelarono molto efficaci e furono mantenute quando il Cile tornò finalmente alla democrazia nel 1989». L’Argentina invece rispose alla crisi economico-sociale che la scuoteva a ogni livello con un mix di autoritarismo, populismo clientelare e nazionalismo: vedi la disastrosa operazione-Malvinas messa in atto dal generale Leopoldo Galtieri nel 1982 nientemeno che contro l’Inghilterra della signora Thatcher – peraltro anche lei desiderosa di fughe in avanti di stampo nazionalistico per scuotere un Paese in forte crisi di identità, oltre tutto il resto.
 La via cilena alle «riforme strutturali», soprattutto in materia di mercato del lavoro e di gestione del fondo pensioni, fu allora studiata attentamente anche in Italia, e scartata dalla classe dirigente del Bel Paese per non intaccare gli equilibri economici e politici radicati assai in profondità nella sua struttura sociale ormai da decenni – già da prima del fascismo. L’alternanza di fascismo e democrazia ricordata da Krugman a proposito dell’America Latina in generale e del Cile in particolare, ci dice, tra l’altro, quanto sia vera la tesi secondo la quale le due forme politico-istituzionali non sono che le facce intercambiabili della stessa medaglia.
L’Argentina attende ancora quelle dolorosissime «riforme strutturali» che possano recidere una volta per tutte i robusti lacci che la costringono in una dimensione di Paese relativamente arretrato nella sua struttura capitalistica, basata perlopiù sull’esportazione di materie prime alimentari, agricole (soprattutto la soia) e minerarie. «Salari Bassi e “vantaggi naturali” erano storicamente alla base dell’inclusione del capitalismo argentino nel mondo, poco è cambiato negli ultimi dieci anni in questo senso» (R. Astarita, Argenpress.info, 30 gennaio 2014).
A tal proposito è molto istruttivo quanto scrive Filippo Fiorini: «La famiglia Kirchner è salita al potere nel 2003, con una proposta di centrosinistra che presto si sarebbe rivelata una riedizione del peronismo classico: intervento dello Stato sull’economia, protezionismo doganale per rafforzare l’industria e tasse alle campagne. Sulla soia imposero dazi d’esportazione che arrivarono al 35%. Considerato che l’Argentina stava diventando il terzo fornitore mondiale dopo Stati Uniti e Brasile, significava garantirsi un importante flusso di capitale in cassa. Con questi soldi finanziarono grandi piani sociali per i ceti umili e incentivi all’industria, ma mentre cresceva l’impiego, aumentava il carovita […] Dopo la bancarotta dello Stato nel 2001 e una protesta agraria che nel 2008 ha segnato il momento più difficile per la Casa Rosada da quando è stato eletto il primo Kirchner, l’Argentina del 2014 è tornata a essere un Paese economicamente instabile. Anni di statistiche ufficiali edulcorate, di deficit nel commercio estero e nel bilancio delle imprese statalizzate hanno seppellito l’ottimismo per la crescita del pil e del gettito fiscale. Due settimane fa, quando le riserve della Banca Centrale sono andate in rosso e l’autorità monetaria ha smesso di vendere dollari per sostenere il peso, la valuta nazionale è crollata. Governo e popolazione sono stati così travolti dall’urgenza di acquisire beni solidi, che facessero da àncora a tutto ciò che era diventato volatile. Esclusa dai mercati del debito internazionali a causa del default di dieci anni fa, Buenos Aires si è girata ancora una volta nella sua storia verso l’entroterra, accusando gli agricoltori di speculare e ordinando loro di aprire i magazzini per esportare di più» (La stampa, 17 febbraio 2014).
La decisione presa a fine gennaio dalla Banca Centrale degli Stati Uniti di ridurre ulteriormente l’acquisto di asset (soprattutto titoli di Stato) su larga scala (dal 2008, la Federal reserve ha acquistato titoli fino a 85 miliardi di dollari al mese nell’ambito della strategia monetaria quantitative easing) ha certamente dato un brutto colpo alla divisa argentina, che   «tra il 22 e il 23 gennaio, in 48 ore, ha perso il 15 per cento del suo valore rispetto al dollaro» (Internazionale, 5 febbraio 2014); ma l’indebolimento del peso argentino ha, come si è detto, delle cause ben più strutturali e vecchie. Scrive Adriana Bernardotti: «I funzionari e le voci vicini al Governo hanno denunciato comportamenti cospirativi e parlano di un “golpe dei mercati”, puntando il dito specialmente contro la multinazionale anglo-olandese Shell, che il giorno prima dello shock valutario aveva acquisito grandi somme di dollari ad un prezzo superiore all’ufficiale e che adesso ha aumentato del 12% il prezzo della benzina. Tuttavia, al di là del fondamento delle accuse, è evidente che gli interessi che escono vittoriosi sono adesso più chiari: i gruppi monopolisti che controllano il commercio d’esportazione dei cereali e derivati (quindi la fonte principale di ingresso di valuta in Argentina) e i suoi alleati del mondo delle finanze, cioè gli speculatori di mestiere. In ogni caso, le ragioni ultime di questa disfatta sono da ricercare nelle debolezze del modello di sviluppo argentino, ancora dipendente dalle esportazioni di materie prime alimentari controllate da pochi gruppi concentrati» (Cambiailmondo, 8 febbraio 2014). Come ricorda la Bernardotti, il “golpe dei mercati” è un mantra che i politici argentini ripetono da sempre crisi economica dopo crisi economica, peraltro con un certo successo in termini di controllo sociale, di tenuta politica e ideologica.
 Il Fondo Monetario Internazionale si è detto pronto ad accogliere a braccia aperte l’Argentina nella famiglia dei paesi finanziariamente responsabili, naturalmente a patto che il governo di Buenos Aires metta una buona volta il Paese sui virtuosi binari delle «riforme strutturali». D’altra parte, il FMI deve fare i conti con l’effetto contagio, ossia con la possibilità che la crisi argentina inceppi il meccanismo di crescita dei paesi che aderiscono al Mercosur, Uruguay e Paraguay in testa, le cui economie sono particolarmente dipendenti dallo stato di salute dell’economia argentina. «Non a caso pochi giorni fa la senatrice Lucia Topolansky dell’Uruguay (moglie del presidente José Mujica) ha dichiarato: “Se l’Argentina starnutisce, l’Uruguay prende il raffreddore”. Non va inoltre sottovalutato l’aspetto psicologico, che potrebbe indurre i risparmiatori di altri paesi emergenti a disfarsi delle valute locali per cercare rifugio negli asset denominati in dollari» (D. Tentori, Limes).
Va da sé (ma è sempre utile ricordarlo per non venir confuso con certi “comunisti-peronisti” nostrani) che io faccio il tifo solo ed esclusivamente per gli interessi delle classi subalterne argentine, azzannate dall’ennesima crisi economica, e quindi la «modernizzazione capitalistica» dell’Argentina è mia nemica, esattamente come lo è quella del Bel Paese, anche quando dovesse vestire i panni del più spinto keynesismo.
Roberto Lampa e Alejandro Fiorito del Manifesto a questo proposito sembrano pensarla diversamente, e la cosa non mi stupisce affatto: «Ciò che a nostro avviso merita di essere evidenziato è che mentre l’Unione europea annaspa ostaggio del pensiero economico ortodosso e delle ricette neo-liberali propugnate dalle istituzioni internazionali, proprio il Keynes meno addomesticato e l’eterodossia economica strutturalista hanno invece trovato ospitalità nei palazzi di governo dell’economia argentina. Basti ricordare, a mo’ di esempio, il recente obbligo per le banche e le assicurazioni di destinare il 5% dei depositi ad investimenti produttivi in settori strategici stabiliti dal Sottosegretariato alla Pianificazione (!): ciò che in Italia farebbe gridare al regime bolscevico, sembra ancora in grado di garantire all’Argentina una crescita economica di tutto rispetto, nonostante la pessima congiuntura internazionale ed alcuni nodi irrisolti. Se ne accorgeranno il governo e gli addetti ai lavori italiani?» (Il Manifesto, 25 agosto 2013).
L’articolo citato recava questo titolo: Un keynesismo forte fa respirare l’Argentina. Della serie: le ultime parole famose! Fatto sta che «l’Argentina non viveva un evento economico così scioccante dal dicembre 2001, tristemente noto per i cacerolazos nelle strade e il default sul debito estero, preludio della pesantissima recessione che fece sprofondare quasi metà della popolazione sotto la soglia di povertà» (Limes, 6 febbraio 2014). Certo, il Sottosegretariato alla Pianificazione, con tanto di punto esclamativo, non può certo lasciare indifferenti gli amanti dello statalismo, pardon, del “comunismo”, magari in salsa latinoamericana. Per quanto mi riguarda, non posso che augurarmi un nuovo ciclo di lotte operaie e proletarie, in Argentina e ovunque nel mondo. Infatti, una forte lotta di classe fa respirare chi vive di salario. «Ma toglie ossigeno al Sottosegretariato alla Pianificazione». Appunto!
Cristina Kirchner sostiene con sempre più forza la necessità di moderare le richieste salariali nel prossimo rinnovo dei contratti nazionali di lavoro, e confida per il successo della nuova politica economica nella collaborazione delle centrali sindacali, le quali hanno sostenuto con entusiasmo il “Modello K”. Quando la Patria è sottoposta all’attacco dei «poteri forti», della speculazione finanziaria e, dulcis in fundo, dell’Imperialismo statunitense, ogni sacrificio richiesto per la sua salvezza è accettabile. Di qui, l’incitamento del barbuto di Treviri rivolto ai salariati di tutto il mondo: non sentitevi patrioti, ma sfruttati in lotta per la vostra emancipazione! Assai significativamente, Lampa e Fiorito giudichino positivamente «la tradizionale vicinanza dei governi peronisti alle centrali sindacali argentine»: come volevasi dimostrare.
«Da parte del governo», scrive lo statalista Claudio Tognonato, «ci sono stati e ci sono molti errori, distra­zioni, misure sba­gliate, incom­pe­tenze e casi di cor­ru­zione, ma il governo ha sem­pre pun­tato al recu­pero del set­tore pub­blico e si è con­fron­tato con i grandi inte­ressi pri­vati. Le scelte poli­ti­che pos­sono essere cri­ti­cate, dibat­tute e miglio­rate, ma gli argen­tini hanno vis­suto sulla pro­pria pelle la cecità della legge del mer­cato, quella che pre­tende di deter­mi­nare il valore delle cose igno­rando i diritti e destabilizzando l’economia reale» (Il Manifesto, 27 gennaio 2014). Personalmente non faccio alcuna differenza tra Capitale pubblico e privato, né condivido la ridicola dicotomia tra economia fittizia ed economia reale, balla ideologico-speculativa ripetuta ormai da un secolo da chi non conosce i meccanismi di funzionamento del Capitalismo mondiale. Ovviamente il problema non è – puramente – dottrinario, ma piuttosto essenzialmente politico, nella misura in cui quella gigantesca balla postula la costruzione di un fronte unito dei «ceti produttivi» (dagli industriali «onesti e responsabili» ai loro operai: era la fissa del PCI di Berlinguer e della CGIL di Lama) contro la maledetta speculazione finanziaria e i «poteri forti», nazionali e internazionali.
Nel Capitalismo «il valore delle cose» ha come suo ultimo fondamento lo sfruttamento del lavoro salariato, e questa realtà difficile da cogliere nei periodi di euforia speculativa viene puntualmente a galla nei momenti di crisi economica, quando «la gente avverte l’urgenza di acquisire beni solidi, che facciano da àncora a ciò che è diventato volatile». Non a caso oggi economisti di statura mondiale che non credono in una prossima “uscita dal tunnel” dell’economia mondiale consigliano la gente a investire nel vecchio e caro oro. 
 A proposito del noto guru genovese tirato in ballo da Bisin nell’articolo visto sopra, ecco una gustosa frecciatina lanciatagli dal blogger Mario Seminero: «E così, dopo l’Argentina, abbiamo inseguito la bufala dell’Islanda che ha fatto “default controllato e non avrebbe pagato i propri debiti, Anche queste sono purissime idiozie che si squagliano come neve al sole della realtà. Vedo che ora Grillo sta cercando di rifugiarsi in Ecuador (un po’ come fatto da Julian Assange, ma per motivazioni ben più nobili e serie), e si è trovato un nuovo modello da presentare ai gonzi di casa nostra. Un modello talmente sovrano che l’Ecuador è un paese completamente dollarizzato. Ci vuole sempre molta pazienza, diciamo» (Phastidio, 27 gennaio 2014). Tempi duri per i sovranisti che vanno a caccia di modelli “alternativi”.

 fonte: Sebastiano Isaia

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