10.6.13

I "principi fondativi" della CGIL

 

Più che del pane, il proletariato ha bisogno del suo coraggio, della fiducia in se stesso, della sua fierezza e del suo spirito di indipendenza (K. Marx).

Mi si consenta un po’ di autoreferenzialità – come si dice, quando ci vuole, ci vuole! Nell’abissalmente remoto dicembre 1991 scrivevo quanto segue:
«Il XII congresso nazionale della CGIL ci consegna un sindacato “rosso” sempre più collaborazionista. Esso ratifica anche sul piano formale e “dottrinario” un processo di lunga lena (l’inglobamento nello Stato del Sindacato tradizionale) che negli ultimi tempi ha subito una brusca accelerazione, a cagione dei rilevanti avvenimenti che si sono registrati tanto sul piano interno come su quello internazionale […] Ciò non significa che un sindacato collaborazionista come la CGIL non svolga più alcuna funzione di tutela degli interessi immediati dei lavoratori, ma piuttosto che questa funzione sempre più programmaticamente viene subordinata agli “interessi generali del paese”, che sono poi immancabilmente e necessariamente gli interessi strategici del Capitale e del suo Stato […] “Da ciò – si legge nei documenti congressuali – discende la natura anticorporativa del sindacato”. Per “natura anticorporativa” occorre intendere quanto segue: si tratta dell’attitudine di quel sindacato a non difendere sempre e comunque gli interessi dei lavoratori, ma di far passare quegli interessi attraverso le maglie sempre più syrrette delle «compatibilità generale» e del sacro interesse nazionale. Ricordate la politica sindacale della CGIL di Lama al tempo del “compromesso storico”? Dalla prospettiva antiproletaria del sindacato “responsabile” il sindacalismo di classe deve necessariamente apparire terribilmente corporativo» (Un sindacato sempre più collaborazionista, Filo Rosso).

Seguono alcuni passi tratti da un mio post dello scorso 11 marzo:

«Quanto reazionario sia il punto di vista del segretario della FIOM lo testimonia, tra l’altro, il punto uno della sua piattaforma politico-sindacale: “La Costituzione deve rientrare in fabbrica”. Con ciò la parte più “antagonista” del sindacalismo collaborazionista ribadisce la propria sudditanza allo Stato capitalistico in guisa democratica, il quale sanzione all’Art. 1 della sua Costituzione quello che l’uomo con la barba ha sempre denunciato: la società borghese si fonda sul lavoro salariato, ossia sullo sfruttamento delle capacità lavorative di chi è costretto a vivere di salario. Che oggi per milioni di persone il salario, anche ridotto all’osso, appaia alla stregua di un miraggio, ciò non solo non cambia i termini della verità, ma piuttosto li rafforza e li rende più cinici. Per questo dal mio – scabroso? – punto di vista, più che della soluzione, la FIOM fa parte del problema che attesta l’attuale impotenza sociale dei lavoratori» (La FIOM è parte del problema).

E concludo, chiedendo scusa al lettore, come segue:

«Agli inizi degli anni Settanta, inaugurando una “opposizione di tipo nuovo” che avrebbe dovuto tirarlo fuori dal famigerato guado che lo teneva lontano dal governo nazionale, il PCI decise di seguire senza indugi la DC, il PSI e il PRI sulla strada della ristrutturazione capitalistica e del risanamento della finanza pubblica. La Cgil naturalmente seguì a ruota, abbandonando la vecchia forma di collaborazionismo sindacale adeguata al precedente status politico del PCI. Molti militanti dell’estrema sinistra allora accusarono il PCI e la Cgil di aver voluto abbandonare definitivamente il terreno della lotta di classe anticapitalistica; questa infondata posizione sorvolava sulla natura ultraborghese acquisita tanto da quel partito quanto da quel sindacato nel momento in cui il gruppo dirigente “comunista” s’inchinò allo stalinismo alla fine degli anni Venti» (Tale padre tale figlio. Da Luciano a Fabrizio una barca austera, 19 aprile 2013).
 Ora, ditemi se sulla scorta di queste premesse politiche l’accordo «di portata storica» sulla rappresentanza sindacale firmato dalle «parti sociali» può suscitare in chi scrive un atomo, un solo miserrimo atomo, di indignata perplessità o, men che meno, di sorpresa. Ecco perché mi vien da ridere quando leggo che «Per la CGIL è una resa rispetto ai propri principi fondativi», come ha scritto Giorgio Cremaschi. I «principi fondativi» della CGIL muovono la mia mano verso la metaforica pistola.
«L’accordo serve a superare ciò che ancora resta della divisione tra lavoratori garantiti e non, naturalmente estendendo a tutti la condizione peggiore. Del resto la flessibilità dei salari e degli orari è ciò che ci chiede la Commissione Europea per proseguire la politica di rigore. L’accordo è la istituzionalizzazione della austerità nei luoghi di lavoro» (G. Cremaschi, MicroMega, 1 giugno 2013). Ma non è vero! L’attacco alle condizioni di vita e di lavoro dei salariati “ce la chiede” innanzitutto il Capitale, nazionale e internazionale, sempre tenuto fermo il carattere relativo – “dialettico” – della distinzione appena stabilita. Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare e al Capitale quel che è del Capitale. Ovvero: è il Capitalismo, bellezza! Di qui, come scrivevo altrove, la necessità per i lavoratori e i proletari europei di abbandonare i sindacati collaborazionisti, di “destra” o di “sinistra”, “gialli” o “rossi” che siano, e di costruire un nuovo associazionismo centrato in modo esclusivo sui loro interessi “corporativi”, pardon: di classe.
«Per capirci», scrive ancora Cremaschi entrando nel merito politico dell’accordo in questione, «è come se la nuova legge elettorale stabilisse che possono candidarsi al Parlamento solo le forze politiche che sottoscrivono la politica di austerità, il fiscal compact e quanto altro serva». L’analogia proposta dal Nostro coglie perfettamente nel segno, ma a suo danno. Infatti, ecco cosa prescrive l’Art. 50 della Costituzione «più bella del mondo» (i gusti non si discutono, forse…): «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Qui le parole chiave sono metodo democratico e politica nazionale. Se ne ricava che la libertà dei «cittadini» è consentita solo dentro il perimetro tracciato con solchi di fuoco dalla legalità borghese, la cui forma politica più “economica” è appunto costituita dal «metodo democratico», e dagli interessi capitalistici. Il partito che, un domani, si ponesse al di là del maligno cerchio del Dominio, e contro di esso, verrebbe dunque con piena legittimità fatto oggetto delle premurose attenzioni del Leviatano, non importa se in guisa democratica o autoritaria – anche qui la distinzione va colta nei consueti termini “dialettici”.
«La ragione di fondo», scriveva Cremaschi in un articolo del 5 maggio, «è molto semplice, l’Europa non è la soluzione, ma il problema. Rovesciare questa Europa è condizione necessaria per riprendere il cammino della democrazia e della crescita sociale. Di questo si devono convincere tutte le forze democratiche che oggi siano davvero intenzionate ad opporsi al governo» (No all’Europa reale, MicroMega). A mio avviso il sindacato e la politica che ha in testa il Nostro, e chi la pensa come lui, per i lavoratori e i disoccupati non sono la soluzione, ma il problema. Il progetto di un associazionismo rivendicativo autenticamente anticollaborazionista fa a pugni con la proposta di Cremaschi di opporsi alla «vasta controriforma della Costituzione repubblicana» – per capirci, quella che all’Art 1 santifica il lavoro salariato. Quel progetto deve necessariamente affermarsi contro il feticismo “costituzionalista”, contro il «metodo democratico», contro la «politica nazionale», non importa se “serva sciocca” della famigerata Troika oppure se rigorosamente nazionalsovranista.
In linea generale non dall’euro o da «questa Europa reale» dovremmo uscire, ma piuttosto è dal Capitalismo che dovremmo per così dire prendere le distanze, puramente e semplicemente. Semplicemente… Solo l’ipnotica potenza del Capitale, la quale ci suggerisce che siamo pulci al cospetto di titani, ci tiene incatenati nella disumana dimensione dello sfruttamento capitalistico. Solo… Una volta Bergoglio disse che «il Capitalismo è l’oppio dei popoli». Difficile dargli torto.

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