Più che del pane, il proletariato ha bisogno del suo coraggio,
della fiducia in se stesso, della sua fierezza e del suo spirito di
indipendenza (K. Marx).
Mi si consenta un po’ di autoreferenzialità – come si dice, quando ci
vuole, ci vuole! Nell’abissalmente remoto dicembre 1991 scrivevo quanto
segue:
«Il XII congresso nazionale della CGIL ci consegna un sindacato “rosso” sempre più collaborazionista.
Esso ratifica anche sul piano formale e “dottrinario” un processo di
lunga lena (l’inglobamento nello Stato del Sindacato tradizionale) che
negli ultimi tempi ha subito una brusca accelerazione, a cagione dei
rilevanti avvenimenti che si sono registrati tanto sul piano interno
come su quello internazionale […] Ciò non significa che un sindacato
collaborazionista come la CGIL non svolga più alcuna funzione di tutela
degli interessi immediati dei lavoratori, ma piuttosto che questa
funzione sempre più programmaticamente viene subordinata agli “interessi
generali del paese”, che sono poi immancabilmente e necessariamente gli
interessi strategici del Capitale e del suo Stato […] “Da ciò – si
legge nei documenti congressuali – discende la natura anticorporativa
del sindacato”. Per “natura anticorporativa” occorre intendere quanto
segue: si tratta dell’attitudine di quel sindacato a non difendere sempre e comunque
gli interessi dei lavoratori, ma di far passare quegli interessi
attraverso le maglie sempre più syrrette delle «compatibilità generale» e
del sacro interesse nazionale. Ricordate la politica sindacale della
CGIL di Lama al tempo del “compromesso storico”? Dalla prospettiva
antiproletaria del sindacato “responsabile” il sindacalismo di classe
deve necessariamente apparire terribilmente corporativo» (Un sindacato sempre più collaborazionista, Filo Rosso).
Seguono alcuni passi tratti da un mio post dello scorso 11 marzo:
«Quanto reazionario sia il punto di vista del segretario della FIOM
lo testimonia, tra l’altro, il punto uno della sua piattaforma
politico-sindacale: “La Costituzione deve rientrare in fabbrica”. Con
ciò la parte più “antagonista” del sindacalismo collaborazionista
ribadisce la propria sudditanza allo Stato capitalistico in guisa
democratica, il quale sanzione all’Art. 1 della sua
Costituzione quello che l’uomo con la barba ha sempre denunciato: la
società borghese si fonda sul lavoro salariato, ossia sullo sfruttamento
delle capacità lavorative di chi è costretto a vivere di salario. Che
oggi per milioni di persone il salario, anche ridotto all’osso, appaia
alla stregua di un miraggio, ciò non solo non cambia i termini della
verità, ma piuttosto li rafforza e li rende più cinici. Per questo dal
mio – scabroso? – punto di vista, più che della soluzione, la FIOM fa
parte del problema che attesta l’attuale impotenza sociale dei
lavoratori» (La FIOM è parte del problema).
E concludo, chiedendo scusa al lettore, come segue:
«Agli inizi degli anni Settanta, inaugurando una “opposizione di tipo
nuovo” che avrebbe dovuto tirarlo fuori dal famigerato guado che lo
teneva lontano dal governo nazionale, il PCI decise di seguire senza
indugi la DC, il PSI e il PRI sulla strada della ristrutturazione
capitalistica e del risanamento della finanza pubblica. La Cgil
naturalmente seguì a ruota, abbandonando la vecchia forma di
collaborazionismo sindacale adeguata al precedente status politico del
PCI. Molti militanti dell’estrema sinistra allora accusarono il PCI e la
Cgil di aver voluto abbandonare definitivamente il terreno della lotta
di classe anticapitalistica; questa infondata posizione sorvolava sulla
natura ultraborghese acquisita tanto da quel partito quanto da quel
sindacato nel momento in cui il gruppo dirigente “comunista” s’inchinò
allo stalinismo alla fine degli anni Venti» (Tale padre tale figlio. Da Luciano a Fabrizio una barca austera, 19 aprile 2013).
Ora, ditemi se sulla scorta di queste premesse politiche l’accordo
«di portata storica» sulla rappresentanza sindacale firmato dalle «parti
sociali» può suscitare in chi scrive un atomo, un solo miserrimo atomo,
di indignata perplessità o, men che meno, di sorpresa. Ecco perché mi
vien da ridere quando leggo che «Per la CGIL è una resa rispetto ai
propri principi fondativi», come ha scritto Giorgio Cremaschi. I
«principi fondativi» della CGIL muovono la mia mano verso la metaforica
pistola.
«L’accordo serve a superare ciò che ancora resta della divisione tra
lavoratori garantiti e non, naturalmente estendendo a tutti la
condizione peggiore. Del resto la flessibilità dei salari e degli orari è
ciò che ci chiede la Commissione Europea per proseguire la politica di
rigore. L’accordo è la istituzionalizzazione della austerità nei luoghi
di lavoro» (G. Cremaschi, MicroMega, 1 giugno 2013). Ma non è
vero! L’attacco alle condizioni di vita e di lavoro dei salariati “ce la
chiede” innanzitutto il Capitale, nazionale e internazionale, sempre
tenuto fermo il carattere relativo – “dialettico” – della distinzione
appena stabilita. Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare e al
Capitale quel che è del Capitale. Ovvero: è il Capitalismo, bellezza!
Di qui, come scrivevo altrove, la necessità per i lavoratori e i
proletari europei di abbandonare i sindacati collaborazionisti, di
“destra” o di “sinistra”, “gialli” o “rossi” che siano, e di costruire
un nuovo associazionismo centrato in modo esclusivo sui loro interessi “corporativi”, pardon: di classe.
«Per capirci», scrive ancora Cremaschi entrando nel merito politico
dell’accordo in questione, «è come se la nuova legge elettorale
stabilisse che possono candidarsi al Parlamento solo le forze politiche
che sottoscrivono la politica di austerità, il fiscal compact e quanto
altro serva». L’analogia proposta dal Nostro coglie perfettamente nel
segno, ma a suo danno. Infatti, ecco cosa prescrive l’Art. 50 della
Costituzione «più bella del mondo» (i gusti non si discutono, forse…):
«Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti
per concorrere con metodo democratico a determinare la politica
nazionale». Qui le parole chiave sono metodo democratico e politica nazionale. Se ne ricava che la libertà dei «cittadini» è consentita solo dentro il perimetro tracciato con solchi di fuoco dalla legalità borghese,
la cui forma politica più “economica” è appunto costituita dal «metodo
democratico», e dagli interessi capitalistici. Il partito che, un
domani, si ponesse al di là del maligno cerchio del Dominio, e
contro di esso, verrebbe dunque con piena legittimità fatto oggetto
delle premurose attenzioni del Leviatano, non importa se in guisa
democratica o autoritaria – anche qui la distinzione va colta nei
consueti termini “dialettici”.
«La ragione di fondo», scriveva Cremaschi in un articolo del 5
maggio, «è molto semplice, l’Europa non è la soluzione, ma il problema.
Rovesciare questa Europa è condizione necessaria per riprendere il
cammino della democrazia e della crescita sociale. Di questo si devono
convincere tutte le forze democratiche che oggi siano davvero
intenzionate ad opporsi al governo» (No all’Europa reale,
MicroMega). A mio avviso il sindacato e la politica che ha in testa il
Nostro, e chi la pensa come lui, per i lavoratori e i disoccupati non
sono la soluzione, ma il problema. Il progetto di un associazionismo
rivendicativo autenticamente anticollaborazionista fa a pugni con la
proposta di Cremaschi di opporsi alla «vasta controriforma della
Costituzione repubblicana» – per capirci, quella che all’Art 1 santifica
il lavoro salariato. Quel progetto deve necessariamente affermarsi contro
il feticismo “costituzionalista”, contro il «metodo democratico»,
contro la «politica nazionale», non importa se “serva sciocca” della
famigerata Troika oppure se rigorosamente nazionalsovranista.
In linea generale non dall’euro o da «questa Europa reale» dovremmo
uscire, ma piuttosto è dal Capitalismo che dovremmo per così dire
prendere le distanze, puramente e semplicemente. Semplicemente…
Solo l’ipnotica potenza del Capitale, la quale ci suggerisce che siamo
pulci al cospetto di titani, ci tiene incatenati nella disumana
dimensione dello sfruttamento capitalistico. Solo… Una volta Bergoglio disse che «il Capitalismo è l’oppio dei popoli». Difficile dargli torto.
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