La mattina del 26 febbraio 2013 con un’operazione congiunta delle
digos di Pisa, Lucca e Spezia sono state effettuate perquisizioni a casa
di due compagni, denunciati con l’accusa di aver tentato di incendiare
una bandiera italiana durante la manifestazione del 12 maggio scorso,
corteo svoltosi a Pisa per ricordare Franco Serantini a 40 anni dalla
sua morte.
La rabbia nei confronti di questo sistema che sfrutta, opprime e
schiaccia sempre più la libertà di tutti può prendere molte forme:
stracciare o bruciare un pezzo di stoffa che rappresenta l’idiozia
dell’idea di patria è un minimo gesto di rifiuto che rientra
perfettamente nel contesto di una manifestazione come quella che voleva
ricordare un ragazzo di vent’anni ammazzato a forza di botte per essersi
opposto alla feccia che in quel lontano 1972 continuava a proporre la
malata ideologia del fascismo.
Che dopo quasi un anno la digos si presenti a casa di alcuni compagni
indagati per un “reato di piazza”, oltre ad essere una chiara
provocazione, rientra in quella logica di gestione dell’ordine pubblico
che preferisce le denunce alle manganellate. Con le denunce si vuole
estrapolare dal contesto di piazza quelle azioni che maturano al suo
interno.
In un momento di crisi sociale che può generare vampate di dissenso
diffuse, lo Stato prova nuove strategie di gestione della
conflittualità. Con la repressione più spiccia, cariche, botte etc.. c’è
sempre il rischio di intaccare la facciata civile e democratica
funzionale al sistema e in alcuni casi di alzare il livello di scontro
rafforzando la contrapposizione, con le denunce invece, agendo quando il
livello di scontro è pari a zero, quindi necessariamente in crescendo,
si insinuano minacciosi, provocatori, e più efficaci i tentacoli della
magistratura. Se a questo si affianca l’immancabile collaborazione della
stampa, sempre pronta a demonizzare, banalizzando e distorcendo un
contesto di lotta, il vuoto intorno è “assicurato”.
Lavorano per una pacificazione sociale democraticamente accettabile,
convinti di logorare e di fiaccare gli animi, attraverso decreti penali,
multe, obbligo di firma anche durante le manifestazioni, (il cosiddetto
Daspo politico sperimentato in città come Torino, Milano e Bologna),
fino ad arrivare a pene “esemplari” come quelle emesse per gli scontri
del G8 di Genova, fino a 15 anni di carcere, o per i più recenti scontri
del 15 ottobre 2011 a Roma, con condanne che arrivano fino a 6 anni.
Per noi le pratiche di piazza, come qualsiasi altra pratica di lotta,
patrimonio del movimento rivoluzionario, sono legittime in quanto
espressione di rivolta e conflittualità auto-organizzate. Le abbiamo
messe in pratica e continueremo a farlo, consapevoli delle conseguenze e
decisi a non perdere terreno, ne agibilità politica; che siano cariche
denunce o condanne, tutti uniti senza far passi indietro.
fonte: Combat-coc.org
Nessun commento:
Posta un commento