L’ennesima
“emergenza” Rosarno è in buona parte frutto di una doppia crisi e
dell’incapacità italiana di gestirla. I braccianti che arrivano in
Calabria hanno perso il lavoro in Veneto o in Libia e vogliono
trascorrere l’inverno guadagnando qualcosa per sé e per i parenti in
Africa. Eppure, nell’indifferenza generale, è di nuovo emergenza
umanitaria.
ROSARNO (RC) – Lavoravano tutti. Nelle
fabbriche del Nord Est o nella Libia di Gheddafi. Due crisi molto
diverse li hanno portati nelle campagne italiane. Eppure i giornalisti
autori di articoli pietisti e troppi politici frettolosi sono convinti
di trovarsi di fronte l`atavica povertà africana. «Non esistono
frontiere entro cui convogliare le grandi masse che spingono alle porte
dei paesi industrializzati», dice il presidente della provincia di
Reggio. Un concetto simile a quello espresso a Saluzzo, provincia di
Cuneo, da un assessore comunale: «Si tratta di migrazioni epocali» che
non possono essere gestite con le risorse di un piccolo comune. La
questione epocale, nello specifico, era trovare un tetto a un massimo di
180 lavoratori per qualche settimana.
Dalle campagne del Piemonte a quelle
della Calabria, non c`è nessun esodo di massa. La fame è quella prodotta
dallo sfruttamento che è alla base del nostro sistema economico. Un
sistema abbrutito dalla crisi che colpisce maggiormente il migrante,
privo di reti familiari e amicali che possano sostenerlo, emarginato da
leggi discriminatorie create negli anni della deriva securitaria e
xenofoba e mai riformate. Non sono poveri perché africani. Sono africani
perché poveri. La tendopoli e le condizioni abitative estreme sono il
prodotto dei mali italiani.
Intorno al 2008 il bracciante di Rosarno
era arrivato da poco a Lampedusa, era passato dal centro di Crotone e
quindi alle campagne calabresi. Con in tasca un diniego o un permesso
temporaneo, con una scarsa padronanza della lingua, aveva poche
possibilità di sottrarsi a condizioni di vita estreme. Viveva alla
Cartiera o alla Rognetta, fabbriche diroccate dove solo l`assistenza dei
volontari impediva di morire di freddo. Poi sono arrivati gli uomini
delle fabbriche. Licenziati dalle ditte del Veneto, avevano i documenti
in regola, abitavano in normali appartamenti e non erano disposti a
subire umiliazioni o – peggio – atti di violenza gratuita. A loro,
quest`anno si sono aggiunti quelli dell`«emergenza Nord Africa». Sono i
profughi della guerra in Libia, anche loro operai, ma nello Stato di
Gheddafi.
La guerra è ampiamente finita, ma in
Italia l`emergenza decisa dal governo è stata prorogata fino a febbraio.
Così abbiamo visto gente per mesi e mesi in attesa di un responso o
costretta a fare ricorso dopo un diniego. Oppure 'liberata` con un
permesso temporaneo che li rende ricattabili: devono accettare qualunque
lavoro e qualunque condizione. Da Mineo a Napoli, dalla Calabria alla
Basilicata, dal Lazio al Veneto li hanno distribuiti ovunque. Alberghi e
abitazioni di ogni tipo. Sul Pollino e sulle Dolomiti, in Sila e a
Marcellina (alto Lazio), a Matera e nel centro della Sicilia.
Preferibilmente in posti isolati, lontani da opportunità di lavoro. Del
resto, chi è in attesa di asilo politico non può lavorare. «Non siamo
venuti in Italia per dormire» hanno scritto alcuni di loro durante una
protesta di qualche mese fa alla Stazione Termini. La polizia li ha
sgomberati rapidamente.
terrelibere.org - autore dell"articolo Antonello Mangano 13 gennaio 2013
fonte: SI-Cobas.org
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