Mentre Kobani (nome curdo per la città
di Ayn al-Arab) continua in queste ore a resistere all’assedio delle
forze dell’ISIS il 3 ottobre il parlamento turco ha votato a larga
maggioranza la mozione che autorizza il dispiegamento delle truppe
turche oltre il confine siriano. Il tira e molla che da mesi vede
impegnate le diplomazie statunitensi ed europee nel tentativo di
coinvolgere la Turchia nelle operazioni militari contro l’ISIS
sembrerebbe infine essersi concluso. Per spiegare la riluttanza di
Ankara a a confrontarsi direttamente con il cosiddetto stato islamico
basta ricordare che la Turchia è stato il principale finanziatore dei
gruppi gihadisti e delle altre milizie di opposizione al governo di
Assad. Una volta soppiantati i gruppi come al-Nusra, di fatto inglobati
nell’ISIS, i campi profughi in territorio turco sono diventati uno dei
principali bacini di reclutamento e di addestramento da parte dei gruppi
armati. Il rapimento del personale diplomatico turco da parte dei
gihadisti il 12 giugno quando Mossul viene conquistata dai gihadisti, e
il loro rilascio il 20 settembre scorso senza che Ankara abbia ammesso
il pagamento di un riscatto fa capire come i rapporti tra l’ISIS e la
Turchia siano tutt’altro che chiariti o privi di ambiguità. I militanti
legati allo stato islamico godono ancora di notevole libertà di
movimento così come sono presenti cellule operative all’interno del
paese. Non a caso poco all’inizio di settembre la sezione giovanile del
PKK ha rivendicato l’uccisione di un presunto agente dell’ISIS a
Istanbul. Secondo il deputato del partito di opposizione kemalista CHP
Atilla Kart il 7% dei combattenti dell’ISIS sarebbe di cittadinanza
turca così come in questi giorni si sono registrate sia ad Ankara che a
Istanbul manifestazioni di solidarietà con i gihadisti.
Il dato che ha agito nel mese scorso da
freno rispetto al coinvolgimento turco nella coalizione di “volenterosi”
è la paura che l’aiuto finanziario e bellico accordato dalle potenze
occidentali alle milizie curde irachene del KDP (Partito Democratico del
Kurdistan) di Massud Barzani finisca indirettamente col rafforzare il
PKK che ha il suo quartier generale sui monti Kandil nel nord dell’Irak e
che rispetto alle rappresentanze politiche curde in Siria o in Iraq è
il gruppo meglio organizzato sul piano militare. Non a caso il nuovo
ministro degli esteri turco Mevlut Cavuşoğlu ha più volte ribadito che
le armi inviate in Iraq non debbano finire in alcun modo nelle mani del
PKK considerato organizzazione terroristica da USA e UE.
Tenuti presenti questi elementi come già
era emerso durante la conferenza di settembre che ha segnato la nascita
della coalizione anti-isis sponsorizzata dagli USA risulta chiaro come
l’obiettivo principale della Turchia sia la creazione di una zona
cuscinetto oltre il confine siriano preferibilmente sotto mandato
dell’ONU che permetta di fermare il costante afflusso di profughi a cui
adesso si aggiungono i rifugiati curdi di Rojava la regione proclamatasi
autonoma finora sotto il controllo del PYD (Partito dell’Unione
Democratica) che dall’inizio del conflitto siriano ha impedito l’accesso
tanto alle truppe di Damasco quanto ai ribelli “moderati” del defunto
Esercito Libero Siriano e di al-Nusra.
La mozione di guerra recentemente
approvata dal parlamento turco su decisiva pressione di Recep Tayyip
Erdoğan il 2 ottobre, utilizza come pretesto formale l’attacco da parte
dell’ISIS al l‘enclave turca situata a trenta chilometri a sud di Kobani
considerato come un’aggressione alla Turchia. Dal canto loro i
rappresentanti del governo siriano hanno fatto sapere di considerare
qualsiasi sconfinamento delle truppe turche come un atto di guerra,
mandando in frantumi il tentativo del neo primo ministro Davutoglu di
ricucire almeno in parte i rapporti con il governo di Assad.
Ma contro chi è realmente indirizzato l’intervento di Ankara nel caos siriano e iracheno?
Alla luce dei rapporti ambivalenti con
l’ISIS è plausibile che il vero obiettivo delle truppe turche sia il PKK
e il partito siriano ad esso vicino, il PYD. Se infatti da un lato
Erdoğan è stato accusato dall’opposizione nazionalista e kemalista di
intervenire a favore del PKK, a seguito di una dichiarazione di Abdullah
Öcalan – che dal carcere di Imrali, dopo aver giudicato positivamente
la mozione interventista, aveva avvertito che la caduta di Kobani nelle
mani dell’ISIS avrebbe messo fine al processo di pace tutt’ora in corso
tra il governo dell’AKP e il PKK – la condotta negli ultimi giorni e
nelle ultime ore fanno tuttavia pensare a ben altro.
Come denunciato dai media nell’orbita
della sinistra di classe che hanno contestato la mozione d’intervento
come un’ulteriore atto di guerra nei confronti del PKK organizzando
diverse manifestazioni in tutto il paese in solidarietà con Rojava, le
truppe turche sono state dispiegate appostandosi nella cittadine di
Suruç sul versante turco a pochi chilometri da Kobani dove ancora
infuriano i combattimenti, senza tuttavia prendervi parte nonostante
colpi di mortaio abbiano colpito la cittadina ormai militarizzata. In
breve non è da escludersi che con un semplice rallentamento delle
operazioni la Turchia riesca a prendere due piccioni con una fava
seguendo il detto cinese “Siediti lungo la riva del fiume e aspetta,
prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”. Tutto ciò
nell’attesa che “i ribelli siriani moderati” ricevano sufficiente
addestramento e forniture belliche da Ankara, da Berlino, da Washington e
dagli altri membri della coalizione.
Nel frattempo di pari passo con
l’avanzata dell’ISIS nei quartieri periferici di Kobani è cresciuta
l’indignazione delle comunità curde all’estero che hanno organizzato
diverse manifestazioni di protesta in diversi paesi europei. Il 7
ottobre un centinaio di manifestanti curdi hanno fatto irruzione
nell’aeroporto di Roma-Fiumicino . Manifestazioni anche a Berlino dove
nella notte tra l’8 e il 9 ottobre si sono registrati scontri tra
manifestanti curdi e islamisti. Ad Amsterdam centinaia di manifestanti
hanno occupato il parlamento olandese. In Turchia si sono verificate le
proteste di più vaste proporzioni che sono costate finora 18 morti negli
scontri tra i manifestanti curdi e solidali della sinistra turca da un
lato, e gli islamisti e le forze di sicurezza turche dall’altro
nonostante il coprifuoco dichiarato a Van, Mardin, Diyarbakir e Batman.
Nel frattempo militanti anarchici e comunisti hanno attraversato il
confine siriano per sostenere direttamente la resistenza di Kobani.
Quello che ancora una volta emerge
chiaramente è il cinismo degli imperialismi e delle potenze regionali
dell’area, pronte tanto a finanziare i Curdi “buoni” di Massud Barzani
quanto a distogliere lo sguardo quando si tratta di Curdi “cattivi” del
PYD e del PKK.
fonte: Combat-coc.org
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