Re Giorgio, di solito così loquace quando si tratta di raccordare la
cronaca politica e la storia (vedi i suoi continui riferimenti al
cosiddetto «compromesso storico» degli anni Settanta, ricercato dai
politici della Prima Repubblica per mettere in sicurezza il Bel Paese),
ieri è stato fin troppo scarno di parole a proposito della dipartita di
Andreotti. Egli ha infatti «affidato alla storia» un giudizio ponderato
sulla lunga carriera politica dell’ex Male Assoluto del sinistrismo
italiano. Imbarazzo? Tentativo di non esacerbare i già tesi rapporti
politici tra i partiti? Strizzatina d’occhio al Movimento pentastellato,
il quale non sa dire altro di Belzebù se non ricordare la sua intima
amicizia con la Mafia (con la M maiuscola)? L’atteggiamento del
Presidentissimo mi appare fin troppo… andreottiano. D’altra parte anche
l’attuale «Governo del Presidente» sembra avere un alto tasso di
democristianità. Forse tutto si tiene. Forse.
La rete, com’è noto, è il luogo per antonomasia delle banalità e dei
luogocomunismi, di “destra” e di “sinistra”, e un personaggio così
controverso e ambiguo (?) com’è sempre stato Andreotti, non poteva che
confermare questo dato di fatto. Esaltandolo. Appena se ne offre
l’occasione, ci si lascia andare al più spietato dei tiri al bersaglio
ai danni del capro espiatorio di turno. Non c’è tempo per le
sottigliezze analitiche: bisogna scaricare subito la dose di veleno
quotidiano contro il Nemico di giornata per sentirsi migliori
dell’odiata «Casta», e così calmare almeno un poco le frustrazioni e le
angosce. Non a caso le foto che da ieri più impazzano sulla rete sono
quelle che mostrano insieme Andreotti e Berlusconi: il vecchio Nemico
Assoluto che passa il testimone a quello nuovo. Però «Andreotti è stato
un imputato esemplare», ha fatto sapere in lacrime Giulia Bongiorno,
l’ex avvocato del gobbo di Roma. Una precisazione davvero degna di
Miserabilandia, non c’è che dire.
«Siamo tutti pieni di pregiudizi convinti di pulir l’Italia da tutti i
vizi», cantava agli inizi degli anni Novanta Francesco Baccini in Giulio Andreotti,
ironizzando sulle feroci accuse che raggiunsero il Divo Giulio non
appena rotolò nella polvere dopo mezzo secolo di brillante, onorata e
onesta gestione del potere al servizio della Patria – scritto senza
alcuna retorica. Quando Paolo Cirino Pomicino deride le «leggende
metropolitane» che si sono accumulate intorno alla figura ingobbita del
suo ex maestro e leader politico, egli mostra di possedere una statura
politica di gran lunga superiore ai detrattori «per partito preso» del
grande statista romano.
Grande, va da sé, non sulla scorta del mio metro, ma dal punto
di vista degli «interessi generali del Paese», ossia degli interessi
delle classi dominanti, i cui statisti sono chiamati ad assecondarne al
meglio il potere sociale, anche in rapporto agli interessi delle classi
dominanti degli altri Paesi, e ad assicurare la continuità del Dominio.
Onesta gestione del potere nonostante i «compromessi» con la
Mafia, con la P2, con Gladio, con il Vaticano e con chissà quanti altri
«poteri occulti»? Naturalmente! Di più: onesta anche grazie a
quei «compromessi», perché il bene superiore della Patria (detto come
sopra), quello che piace tanto ai miei connazionali e che invece ripugna
nel modo più tetragono il sottoscritto, ha bisogno che qualcuno si
sporchi le mani. Questo non l’ha insegnato Machiavelli, o Aldo Moro
(prima della nota beatificazione progressista post assassinio), ovvero
Belzebù-Andreotti: questo lo conferma sempre di nuovo la prassi del
Dominio, in regime dittatoriale come in regime democratico-parlamentare.
Ciò che ha fatto di Giulio Andreotti uno statista non mediocre è stata
appunto questa consapevolezza, questa chiara, e a volte esibita (ma
anche esorcizzata, con l’ironia) convinzione di «dover portare la croce»
per il bene del Paese e del Partito, due beni che per i democristiani
naturalmente coincidevano.
«Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto di ordinaria
amministrazione», scriveva Piero Gobetti nel 1922. «Ma il fascismo è
stato qualcosa di più; è stato l’autobiografia della nazione» (Elogio della ghigliottina, un titolo, detto per inciso, che ammicca ai nostri demagogici tempi). Mutatis mutandis,
è ciò che si può dire della Democrazia Cristiana e di Andreotti. Chi
oppone l’Andreotti «servo sciocco degli americani» all’Andreotti «amico
degli arabi e di Gorbaciov»; l’Andreotti «anticomunista» all’Andreotti
«aperto alle grandi convergenze con i comunisti»; l’Andreotti amico
della Germania all’Andreotti avversario fino all’ultimo
dell’unificazione tedesca; l’Andreotti «amico della Mafia» (mitico bacio
a Totò Riina incluso) all’Andreotti amico di Falcone e nemico della
Mafia (fino al punto di maltrattare la mitica Costituzione Italiana,
come sostennero i radicali ai tempi del varo delle leggi eccezionali
contro i mafiosi); ebbene chi azzarda un’operazione politica di questo
tipo si preclude la possibilità di comprendere l’azione politica dello
statista italiano, uno dei più grandi nella storia dell’Italia post
risorgimentale, e certamente post Seconda guerra mondiale.
La complessa struttura sociale del Paese, i poteri e gli interessi
politico-sociali che vi si sono consolidati nel corso dei decenni, il
suo ruolo internazionale e la sua collocazione geopolitica, le sue
ambizioni (che gli derivano anche dal retaggio storico) e i suoi limiti
oggettivi: questi e altri fattori hanno trovato per tanto tempo in
Andreotti un’espressione quasi plastica, com’era accaduto in passato
forse solo con Giolitti. All’anima di Belzebù questo spericolato
accostamento storico certamente non dispiace, e io non trovo nulla di
sconveniente in questo estremo compiacimento.
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