Non appena soffian venti di guerra, gli antimperialisti si destano,
animando campagne tanto roboanti quanto fuorvianti. Nella società
capitalistica, la guerra è un’eventualità permanente che non si ferma
certo con le chiacchiere. Lo sappiamo. Da un quarto di secolo, viviamo
in un clima di «guerra infinita», che non è stato scosso dalle pur
vivaci manifestazioni pacifiste, anzi, molti pacifisti si son poi messi
la divisa, passando armi e bagagli al fronte interventista (Do you remember Bertinotti & Co.?).
Questi frutti marci non turbano gli antimperialisti che proseguono
imperterriti per la loro strada, ripetendo le solite litanie. E lungo la
loro strada perdono ogni riferimento a una visione proletaria della
guerra e dei conflitti sociali che, pur soffocati, l’accompagnano.
Riducendo l’internazionalismo ai rapporti tra nazionalismi,
inter-nazionalisti, appunto.
Uno dei cavalli di battaglia degli antimperialisti è la denuncia
delle balle di Washington … come se esistessero guerre giuste … E se
Obama avesse ragione? Sarebbe un buon motivo per bombardare Damasco?
Lasciamo perdere. Gli argomenti degli interventisti sono così
pretestuosi che se ne è accorto anche Sergio Romano sul «Corriere della
Sera» (Armi democratiche, 1 settembre 2013).
Percorrendo il vicolo cieco pacifista, alcuni antimperialisti
giustificano regimi sanguinari come quello di Assad e, implicitamente,
denigrano i «ribelli». Denigrazione che fa di ogni erba un fascio,
mettendo nello stesso calderone i movimenti popolari contro Assad, cui
il crash economico ha dato slancio, e le bande prezzolate che
cavalcano il malcontento al soldo di racket locali e stranieri, con
grandi e piccoli interessi in gioco. A uno sguardo superficiale, i
movimenti popolari arabi e musulmani hanno una parvenza plebea che
sommerge la componente operaia e proletaria. Che però c’è. E se qualcuno
si ostina a non vederla, è un problema suo, ma non è una buona ragione
per ignorarla, portando acqua al nazionalismo.
Venti di rivolta
Tra fanatismi religiosi e affarismi di bassa lega, lo scenario
sociale che si delinea è assai intricato, come ha ben dimostrato Michele
Basso nel suo Interrogativi sulle guerre in corso, dell’11 agosto, e in parte anch’io nel mio Egitto è il mondo
del 15 agosto. La situazione è contraddistinta dalla disgregazione
nazionale e sociale, che si sta diffondendo a macchia d’olio
dall’Afghanistan al Pakistan dal Medio Oriente al Magreb.
E soprattutto è una situazione che apre nuovi scenari politici, che
non possono essere liquidati con frasette di rito, utili solo a
nascondere l’insipienza di chi le diffonde. Peggio. In realtà gli
antimperialisti che sventolano lo spauracchio delle Potenze imperialiste
(Usa in primis) sottovalutano (se non ignorano) la questione
principale: la crisi dell’imperialismo. E, di conseguenza, non fanno
altro che difendere un impossibile status quo, ormai a pezzi
sotto i colpi della persistente crisi economica. Non per nulla, dopo la
doccia fredda di Cameron, Obama ha preferito rimandare la decisione
dell’intervento al Congresso, per avere la benedizione democratica.
Lasciando Hollande in braghe di tela. Nelle guerre si sa come si entra
ma non si sa come si esce. E se soffiano venti di guerra, soffiano anche
i venti della rivolta proletaria.
Volenti o nolenti, gli antimperialisti privilegiano una visione in
cui i proletari sono subalterni alle classi dominanti. E visto che al
peggio non c’è fine, essi finiscono per legare il proletariato dei Paesi
occidentali al carro delle varie borghesie. Un bel favore! Con l’aria
che tira, i padroni preferiscono veder marce pacifiste piuttosto che
proteste operaie, come è evidente in Germania e in Italia, con la Bonino
che paventa la Terza guerra mondiale, come se già non ci fossimo
dentro! Non solo. I padroni prendono due piccioni con una fava: la pace
sociale, oggi, premessa per un eventuale intervento, domani. Non ci sono
santi, solo le lotte proletarie possono impedire e ostacolare le
guerre, tenendo sulla corda i padroni e i loro governi. Il resto sono
chiacchiere inutili e dannose. Lasciamole a Bergoglio.
Gratta gratta, ci accorgiamo infine che certi antimperialisti, con
l’implicita difesa dei regimi «statalisti» (ormai presunti tali), come
quello di Assad o di Mubarak, lasciano serpeggiare, e non tanto sotto
traccia, il rimpianto per il capitalismo di Stato, alla cui ombra sono
cresciuti molti figli della piccola borghesia antimperialista italiana.
Al banco di prova della solidarietà
Alla visione politica conservatrice (se non reazionaria) prevalente
nei movimenti antimperialisti di matrice pacifista, non basta
contrapporre l’equidistanza proletaria (come per esempio fanno il Centro
di iniziativa comunista internazionalista e altre formazione di
tradizione comunista rivoluzionaria). È una posizione apprezzabile che
però scantona il problema reale: la natura sociale dei tumulti e delle
sommosse in corso nei Paesi arabi e musulmani. Ci troviamo di fronte a
una situazione nuova, in rapida evoluzione, che non si può affrontare
con le armi spuntate del Ventesimo secolo.
Tenendo vivo il problema, ci sono cose che già ci toccano molto da
vicino. Un cruciale fronte di lotta proletaria e internazionalista è
aperto dai flussi migratori, destinati a crescere sull’ondata dei
conflitti e della disgregazione sociale dei Paesi della sponda Sud del
Mediterraneo. I profughi siriani sono già oltre due milioni (su una
popolazione di 23 milioni).
Quelli che cercano scampo in Italia, sono destinati a cadere nel
pozzo senza fondo del lavoro nero, grazie al quale si ingrassano padroni
e padroncini, con tutto il codazzo di faccendieri, dai caporali ai
funzionari statali conniventi, con il beneplacito di politicanti e
pennivendoli. Contro questo vero e proprio regime schiavistico, le lotte
dei facchini della logistica stanno dando una prima e importante
risposta. Ma le radici del ricatto e del lavoro nero risiedono nelle
leggi razziste sull’emigrazione (la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini),
fondate sulla normativa capestro dei permessi di soggiorno, sui
controlli polizieschi e sulla detenzione nei Centri di identificazione
ed espulsione (Cie). Ma anche sui Centri di Accoglienza Richiedenti
Asilo (Cara), veri e propri lager, in fase d’espansione.
Oggi, queste leggi e queste galere non sono più in grado di
controllare nuovi e maggiori flussi migratori. In agguato ci sono
progetti coercitivi che attendono solo l’occasione per entrare in
funzione, magari con il pretesto dell’emergenza umanitaria e il placet
di Cécile Kyenge. Affrontare questa imminente eventualità, è l’attuale
banco di prova per l’internazionalismo e la solidarietà proletaria. Ed è
un primo, concreto passo contro i venti di guerra. Il resto sono
chiacchiere, inutili e dannose.
Dino Erba, Milano, 3 settembre 2013
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