Nell’invettiva scagliata ieri da Wu Ming contro «il Partito
cosiddetto democratico», dalla quale si possono ricavare interessanti
elementi di valutazione circa il rapporto (di odio/amore?) che lega il
noto «collettivo di scrittori italiani» alla cosiddetta sinistra
italiana, si può leggere, tra l’altro, quanto segue: sul razzismo «la
Lega lombarda prima e la Lega nord poi hanno costruito un intero
percorso politico […] Il razzismo è da secoli un modo di pensare
funzionale al mantenimento di un sistema di sfruttamento e
discriminazione» (Il partito del non senso,
Internazionale, 15 luglio 2013). In poche parole, nell’articolo in
questione Wu Ming, prendendo spunto dall’ultima battuta razzista di
Calderoli sulla ministra Cécile Kyenge, rinfaccia al PD (e soprattutto
all’ex segretario Bersani) un atteggiamento quantomeno contraddittorio
nei confronti dei leghisti, dai “democratici” disprezzati o blanditi
secondo le mutevoli convenienze politiche. I «sedicenti democratici
potrebbero almeno risparmiarci lo spettacolo ipocrita della loro
chiassosa indignazione per le battute dei razzisti che fino a ieri
consideravano buoni interlocutori». Che indignazione!
Com’è noto, già Massimo D’Alema parlò del movimento capeggiato da
Bossi come di «una costola della sinistra». Era il tempo in cui si
consumava la congiura ai danni del primo governo Berlusconi. Anche
allora molti sinistri si scandalizzarono, ma alla fine abbozzarono e,
togliattianamente, si acconciarono a baciare il rospo Lamberto Dini
secondo le direttive calate dalla Segreteria. Anche allora parecchi
“comunisti” tirarono fuori la tattica del Presidente Mao sul «nemico
principale», che dal 1994 si chiama, come sanno tutti, Berlusconi.
Stranamente Wu Ming non ricorda quell’illuminante episodio, e concentra
il suo fuoco sulla croce rossa, ossia su Bersani e compagni.
Vale la pena ricordare l’episodio del ’95, in seguito negato, o
quantomeno reinterpretato, dal protagonista: «Nell’intervista al
Manifesto D’Alema esprime un’altra convinzione a proposito di una forza
politica che può essere “collegata” alla sinistra: “La Lega c’entra
moltissimo con la sinistra, non è una bestemmia. Tra la Lega e la
sinistra c’è forte contiguità sociale. Il maggior partito operaio del
Nord è la Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola, è stato il
sintomo più evidente e robusto della crisi del nostro sistema politico e
si esprime attraverso un anti-statalismo democratico e anche
antifascista che non ha nulla a che vedere con un blocco organico di
destra”» (La Repubblica, 1 novembre 1995). Qui baffino mostrava di
saperla più lunga, in materia di analisi politico-sociologica, di molti
intellettuali schizzinosi appartenenti al suo stesso campo politico, i
quali erano – e sono – avvezzi a pestare il mortaio pieno di schiuma,
col risultato di creare una gigantesca poltiglia che impedisce loro di
capire l’essenza dei problemi politici e sociali.
Detto che ridurre la Lega Nord a mero fenomeno
politico-culturale razzista, secondo una ben consolidata vulgata
progressista, è semplicemente risibile sul piano storico e sociale,
perché in tal modo si sorvola a piè pari sulle macroscopiche cause
sociali (a cominciare dal gap sistemico Nord-Sud) che hanno reso
possibile il suo «percorso politico»; detto questo si può tuttavia
convenire sul fatto che nel Bel Paese esiste «un sistema si sfruttamento
e discriminazione». Ma allora, se le cose stanno così perché
prendersela con un onesto partito borghese che cerca di fare al meglio
(poi bisogna vedere con quali risultati, è chiaro) il proprio
escrementizio lavoro al servizio delle classi dominanti del Paese? Può
forse il PD anche solo lontanamente immaginare di assestare un seppur
timido colpetto a quel «sistema»? Siamo seri! Mi correggo: siamo
anticapitalisti! E soprattutto: di che «sistema» stiamo parlando? La mia
testolina proletaria mi invita a “declinare” quella ambigua parola in
un modo quanto mai semplice: trattasi del sistema capitalistico.
Punto. Lo ammetto, si tratta di un punto di vista indigente sul piano
della dialettica, e per questo m’impegno fin d’ora in una full immersion
negli scritti del collettivo benicomunista.Per quanto le apparenze
possano far pensare il contrario, il mio delirio estivo non ha di mira i
raffinati intellettuali di Wu Ming, i quali fanno la loro onesta
battaglia politica tesa a costruire un dignitoso (laico, antirazzista,
antiliberista, antiberlusconiano, forse persino socialdemocratico)
partito “de sinistra” in Italia. Essi ritengono «i sedicenti
democratici il principale ostacolo politico alla rinascita di una
sinistra che possa dirsi tale», e si comportano di conseguenza nei
confronti di un partito che considerano «del non senso». Auguri!
A proposito di «partito del non senso», mi è tornato alla mente
quanto ebbe a dire una volta l’onesto Enrico a proposito del PCI: si
tratta di un partito «insieme rivoluzionario e conservatore». Era il
tempo in cui in Italia persino alle parallele veniva concessa la
possibilità di «convergere» nella contingenza e non all’infinito.
Naturalmente in vista di «punti d’equilibrio politici, sociali e
istituzionali più avanzati». Com’era cristallino il linguaggio politico
della «Prima Repubblica»! Ed era altresì il tempo in cui il PCI e il suo
sindacato di riferimento imponevano ai lavoratori una rigida politica
dei sacrifici e si ponevano come avanguardia della repressione
poliziesca ai danni di chi non ne voleva sapere del «bene superiore del
Paese». Ogni tanto è giusto ricordare queste cose a chi affetta pose
nostalgiche circa «la sinistra di una volta». Mutatis mutandis, da
Togliatti a Occhetto «è quest’acqua qua».
«Forse, se invece di lanciarsi in opportunistici non sensi logici da
furbini del deserto, i sedicenti democratici avessero combattuto i
razzisti dall’inizio e senza quartiere, oggi non ce li ritroveremmo bel
belli dentro le istituzioni [razzisti e opportunisti, giù le mani dalle
nostre amate istituzioni!]. Ma il punto è che non potevano farlo, perché
quando si dismette il piano della battaglia per l’affermazione dei
diritti e delle istanze sociali [già, le "istanze sociali"!], e ci si
dedica anima e corpo alla gestione dello status quo, tocca poi gestirlo
con chi c’è. “È quest’acqua qua”, direbbe Crozza/Bersani. Acqua putrida,
di fogna, in cui si cerca di varare una nave, o piuttosto una zattera,
per stare a galla, invece di costruire un depuratore». Ma si sta
parlando della «Seconda Repubblica» o del Capitalismo nudo e crudo?
Scherzo ancora, è chiaro.
Mentre i veri democratici e gli autentici progressisti progettano un bel depuratore, secondo una metafora che peraltro fa molto green economy,
io mi concedo il lusso di baloccarmi con l’utopia della rivoluzione
sociale, e do il mio microscopico contributo affinché «i movimenti
sociali che cercano di opporsi all’avanzata del peggio», e che per
questo «vengono manganellati e repressi» (dallo Stato democratico nato
dalla resistenza), possano quanto prima liberarsi dalla catena
ideologica del “bene comune”, comunque declinato (da “destra”, da
“sinistra”, da “papista”). Infatti, per me l’acqua del Capitalismo
(altrimenti chiamato Paese) è sempre putrida e merdosa, a prescindere dal colore politico e dai principi etici di chi pro tempore ci amministra. Il Capitalismo, per me, «è quest’acqua qua». Sempre e comunque.
fonte: Sebastiano Isaia
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