Cercasi disperatamente modello economico alternativo!
Alternativo a cosa? «Ma al devastante modello neoliberista, è chiaro!» Mica tanto. «Cosa credevi?» Pensavo fosse anticapitalismo… «E invece era un calesse!» Appunto.
Scrivevo abbastanza sconsolato il 4 maggio 2012: «In Venezuela si
nazionalizza, in Argentina pure, in Bolivia anche. E i sovranisti di
mezzo mondo vanno in brodo di giuggiole. Letteralmente. Dimenticavo:
alla lista dei paesi che si stanno mettendo sulla buona e
“rivoluzionaria” strada del nazionalismo economico c’è anche la
Bielorussia di Lukashenko» (Socialnazionalismo). Oggi il vento
sembra spirare in senso contrario, e la sola cosa che non muta è
purtroppo la mia – pessima – condizione umorale quando ho a che fare con
la «merda economica».
Scrive Albero Bisin: «Continuiamo a sentire l’Argentina magnificata
come economia modello perché ha ripudiato il debito e svalutato (alla
fine del 2001), nonostante gli ovvi segnali di sfaldamento da alcuni
anni a questa parte. A questo proposito non stupisce poi tanto sentire
Beppe Grillo farneticare riguardo all’assegno di due metri per uno che
il governo argentino avrebbe consegnato al Fondo Monetario a Manhattan
(sic) pur senza aver svenduto il Paese, il suo sistema educativo e
sanitario. Per non parlare di economisti del calibro di Paul Krugman che
ancora nel maggio 2012, a deterioramento evidente e ben consolidato
della situazione economica in Argentina, la additavano alla Grecia come
esempio da seguire» (La Repubblica, 27 gennaio 2014). Krugman,
probabilmente il premio Nobel più sopravvalutato di tutti i tempi, oggi
suggerisce all’Argentina una ricetta economica assai più ortodossa,
quasi “rigorista”: «Non c’è alcuna contraddizione nel sostenere che
l’Argentina fece bene a seguire politiche eterodosse nel 2002, ma fa
male ora a non ascoltare chi le consiglia di ridurre i disavanzi e
riportare sotto controllo l’inflazione» (Il Sole 24 Ore, 15
febbraio 2014). L’economista di successo crede di poter cadere sempre
sulle zampe, come accade ai gatti, ma con ciò stesso egli si espone alla
giusta ironia dei suoi colleghi, certamente più preparati di lui ma
anche meno reclamizzati dai media, soprattutto da quelli progressisti, e
quindi pronti a rinfacciargli ogni sciocchezza detta e scritta. E
l’economista statunitense non fa certo economia in quanto a produzione
di sciocchezze, soprattutto quando affetta pose ultrakeynesiane.
Nel suo libro del 1999 sul
Ritorno dell’economia della depressione
(Garzanti, 2001), Krugman citava un solo caso di successo
(capitalistico) riguardante l’America Latina, quello cileno. «Per molti
anni i paesi dell’America Latina hanno quasi avuto l’esclusiva di crisi
valutarie, fallimenti bancari, bervi periodi di iperinflazione […]
Deboli governi eletti democraticamente si alternavano a dittature
militari, ed entrambi cercavano di conquistare la fiducia della gente
con programmi populisti che in realtà non potevano permettersi.
Nell’intento di finanziare questi programmi finivano per ricorre a
prestiti concessi da disinvolti banchieri esteri, che facevano entrare
in crisi la bilancia dei pagamenti, oppure alla stampa di denaro
contante, che creava iperinflazione […] In America Latina pochi
ammiravano la brutalità di Augusto Pinochet; ma le riforme economiche
che aveva lanciato in Cile si rivelarono molto efficaci e furono
mantenute quando il Cile tornò finalmente alla democrazia nel 1989».
L’Argentina invece rispose alla crisi economico-sociale che la scuoteva a
ogni livello con un mix di autoritarismo, populismo clientelare e
nazionalismo: vedi la disastrosa operazione-Malvinas messa in atto dal
generale Leopoldo Galtieri nel 1982 nientemeno che contro l’Inghilterra
della signora
Thatcher
– peraltro anche lei desiderosa di fughe in avanti di stampo
nazionalistico per scuotere un Paese in forte crisi di identità, oltre
tutto il resto.
La via cilena alle «riforme strutturali», soprattutto in materia di
mercato del lavoro e di gestione del fondo pensioni, fu allora studiata
attentamente anche in Italia, e scartata dalla classe dirigente del Bel
Paese per non intaccare gli equilibri economici e politici radicati
assai in profondità nella sua struttura sociale ormai da decenni – già
da prima del fascismo. L’alternanza di fascismo e democrazia ricordata
da Krugman a proposito dell’America Latina in generale e del Cile in
particolare, ci dice, tra l’altro, quanto sia vera la tesi secondo la
quale le due forme politico-istituzionali non sono che le facce
intercambiabili della stessa medaglia.
L’Argentina attende ancora quelle dolorosissime «riforme strutturali»
che possano recidere una volta per tutte i robusti lacci che la
costringono in una dimensione di Paese relativamente arretrato nella sua
struttura capitalistica, basata perlopiù sull’esportazione di materie
prime alimentari, agricole (soprattutto la soia) e minerarie. «Salari
Bassi e “vantaggi naturali” erano storicamente alla base dell’inclusione
del capitalismo argentino nel mondo, poco è cambiato negli ultimi dieci
anni in questo senso» (R. Astarita, Argenpress.info, 30 gennaio 2014).
A tal proposito è molto istruttivo quanto scrive Filippo Fiorini: «La
famiglia Kirchner è salita al potere nel 2003, con una proposta di
centrosinistra che presto si sarebbe rivelata una riedizione del
peronismo classico: intervento dello Stato sull’economia, protezionismo
doganale per rafforzare l’industria e tasse alle campagne. Sulla soia
imposero dazi d’esportazione che arrivarono al 35%. Considerato che
l’Argentina stava diventando il terzo fornitore mondiale dopo Stati
Uniti e Brasile, significava garantirsi un importante flusso di capitale
in cassa. Con questi soldi finanziarono grandi piani sociali per i ceti
umili e incentivi all’industria, ma mentre cresceva l’impiego,
aumentava il carovita […] Dopo la bancarotta dello Stato nel 2001 e una
protesta agraria che nel 2008 ha segnato il momento più difficile per la
Casa Rosada da quando è stato eletto il primo Kirchner, l’Argentina del
2014 è tornata a essere un Paese economicamente instabile. Anni di
statistiche ufficiali edulcorate, di deficit nel commercio estero e nel
bilancio delle imprese statalizzate hanno seppellito l’ottimismo per la
crescita del pil e del gettito fiscale. Due settimane fa, quando le
riserve della Banca Centrale sono andate in rosso e l’autorità monetaria
ha smesso di vendere dollari per sostenere il peso, la valuta nazionale
è crollata. Governo e popolazione sono stati così travolti dall’urgenza
di acquisire beni solidi, che facessero da àncora a tutto ciò che era
diventato volatile. Esclusa dai mercati del debito internazionali a
causa del default di dieci anni fa, Buenos Aires si è girata ancora una
volta nella sua storia verso l’entroterra, accusando gli agricoltori di
speculare e ordinando loro di aprire i magazzini per esportare di più» (La stampa, 17 febbraio 2014).
La decisione presa a fine gennaio dalla Banca Centrale degli Stati
Uniti di ridurre ulteriormente l’acquisto di asset (soprattutto titoli
di Stato) su larga scala (dal 2008, la Federal reserve ha acquistato
titoli fino a 85 miliardi di dollari al mese nell’ambito della strategia
monetaria quantitative easing) ha certamente dato un brutto
colpo alla divisa argentina, che «tra il 22 e il 23 gennaio, in 48
ore, ha perso il 15 per cento del suo valore rispetto al dollaro» (Internazionale,
5 febbraio 2014); ma l’indebolimento del peso argentino ha, come si è
detto, delle cause ben più strutturali e vecchie. Scrive Adriana
Bernardotti: «I funzionari e le voci vicini al Governo hanno denunciato
comportamenti cospirativi e parlano di un “golpe dei mercati”, puntando
il dito specialmente contro la multinazionale anglo-olandese Shell, che
il giorno prima dello shock valutario aveva acquisito grandi somme di
dollari ad un prezzo superiore all’ufficiale e che adesso ha aumentato
del 12% il prezzo della benzina. Tuttavia, al di là del fondamento delle
accuse, è evidente che gli interessi che escono vittoriosi sono adesso
più chiari: i gruppi monopolisti che controllano il commercio
d’esportazione dei cereali e derivati (quindi la fonte principale di
ingresso di valuta in Argentina) e i suoi alleati del mondo delle
finanze, cioè gli speculatori di mestiere. In ogni caso, le ragioni
ultime di questa disfatta sono da ricercare nelle debolezze del modello
di sviluppo argentino, ancora dipendente dalle esportazioni di materie
prime alimentari controllate da pochi gruppi concentrati» (Cambiailmondo,
8 febbraio 2014). Come ricorda la Bernardotti, il “golpe dei mercati” è
un mantra che i politici argentini ripetono da sempre crisi economica
dopo crisi economica, peraltro con un certo successo in termini di
controllo sociale, di tenuta politica e ideologica.
Il Fondo Monetario Internazionale si è detto pronto ad accogliere a
braccia aperte l’Argentina nella famiglia dei paesi finanziariamente
responsabili, naturalmente a patto che il governo di Buenos Aires metta
una buona volta il Paese sui virtuosi binari delle «riforme
strutturali». D’altra parte, il FMI deve fare i conti con l’effetto
contagio, ossia con la possibilità che la crisi argentina inceppi il
meccanismo di crescita dei paesi che aderiscono al Mercosur, Uruguay e
Paraguay in testa, le cui economie sono particolarmente dipendenti dallo
stato di salute dell’economia argentina. «Non a caso pochi giorni fa la
senatrice Lucia Topolansky dell’Uruguay (moglie del presidente José
Mujica) ha dichiarato: “Se l’Argentina starnutisce, l’Uruguay prende il
raffreddore”. Non va inoltre sottovalutato l’aspetto psicologico, che
potrebbe indurre i risparmiatori di altri paesi emergenti a disfarsi
delle valute locali per cercare rifugio negli asset denominati in
dollari» (D. Tentori, Limes).
Va da sé (ma è sempre utile ricordarlo per non venir confuso con
certi “comunisti-peronisti” nostrani) che io faccio il tifo solo ed
esclusivamente per gli interessi delle classi subalterne argentine,
azzannate dall’ennesima crisi economica, e quindi la «modernizzazione
capitalistica» dell’Argentina è mia nemica, esattamente come lo è quella
del Bel Paese, anche quando dovesse vestire i panni del più spinto
keynesismo.
Roberto Lampa e Alejandro Fiorito del Manifesto a questo
proposito sembrano pensarla diversamente, e la cosa non mi stupisce
affatto: «Ciò che a nostro avviso merita di essere evidenziato è che
mentre l’Unione europea annaspa ostaggio del pensiero economico
ortodosso e delle ricette neo-liberali propugnate dalle istituzioni
internazionali, proprio il Keynes meno addomesticato e l’eterodossia
economica strutturalista hanno invece trovato ospitalità nei palazzi di
governo dell’economia argentina. Basti ricordare, a mo’ di esempio, il
recente obbligo per le banche e le assicurazioni di destinare il 5% dei
depositi ad investimenti produttivi in settori strategici stabiliti dal
Sottosegretariato alla Pianificazione (!): ciò che in Italia farebbe
gridare al regime bolscevico, sembra ancora in grado di garantire
all’Argentina una crescita economica di tutto rispetto, nonostante la
pessima congiuntura internazionale ed alcuni nodi irrisolti. Se ne
accorgeranno il governo e gli addetti ai lavori italiani?» (Il Manifesto, 25 agosto 2013).
L’articolo citato recava questo titolo: Un keynesismo forte fa respirare l’Argentina.
Della serie: le ultime parole famose! Fatto sta che «l’Argentina non
viveva un evento economico così scioccante dal dicembre 2001,
tristemente noto per i cacerolazos nelle strade e il default
sul debito estero, preludio della pesantissima recessione che fece
sprofondare quasi metà della popolazione sotto la soglia di povertà» (Limes, 6 febbraio 2014). Certo, il Sottosegretariato alla Pianificazione,
con tanto di punto esclamativo, non può certo lasciare indifferenti gli
amanti dello statalismo, pardon, del “comunismo”, magari in salsa
latinoamericana. Per quanto mi riguarda, non posso che augurarmi un
nuovo ciclo di lotte operaie e proletarie, in Argentina e ovunque nel
mondo. Infatti, una forte lotta di classe fa respirare chi vive di
salario. «Ma toglie ossigeno al Sottosegretariato alla Pianificazione». Appunto!
Cristina Kirchner sostiene con sempre più forza la necessità di
moderare le richieste salariali nel prossimo rinnovo dei contratti
nazionali di lavoro, e confida per il successo della nuova politica
economica nella collaborazione delle centrali sindacali, le quali hanno
sostenuto con entusiasmo il “Modello K”. Quando la Patria è sottoposta
all’attacco dei «poteri forti», della speculazione finanziaria e, dulcis in fundo,
dell’Imperialismo statunitense, ogni sacrificio richiesto per la sua
salvezza è accettabile. Di qui, l’incitamento del barbuto di Treviri
rivolto ai salariati di tutto il mondo: non sentitevi patrioti, ma sfruttati in lotta per la vostra emancipazione!
Assai significativamente, Lampa e Fiorito giudichino positivamente «la
tradizionale vicinanza dei governi peronisti alle centrali sindacali
argentine»: come volevasi dimostrare.
«Da parte del governo», scrive lo statalista Claudio Tognonato, «ci
sono stati e ci sono molti errori, distrazioni, misure sbagliate,
incompetenze e casi di corruzione, ma il governo ha sempre puntato
al recupero del settore pubblico e si è confrontato con i grandi
interessi privati. Le scelte politiche possono essere criticate,
dibattute e migliorate, ma gli argentini hanno vissuto sulla
propria pelle la cecità della legge del mercato, quella che pretende
di determinare il valore delle cose ignorando i diritti
e destabilizzando l’economia reale» (Il Manifesto, 27 gennaio
2014). Personalmente non faccio alcuna differenza tra Capitale pubblico e
privato, né condivido la ridicola dicotomia tra economia fittizia ed economia reale,
balla ideologico-speculativa ripetuta ormai da un secolo da chi non
conosce i meccanismi di funzionamento del Capitalismo mondiale.
Ovviamente il problema non è – puramente – dottrinario, ma piuttosto
essenzialmente politico, nella misura in cui quella gigantesca balla
postula la costruzione di un fronte unito dei «ceti produttivi» (dagli
industriali «onesti e responsabili» ai loro operai: era la fissa del PCI
di Berlinguer e della CGIL di Lama) contro la maledetta speculazione
finanziaria e i «poteri forti», nazionali e internazionali.
Nel Capitalismo «il valore delle cose» ha come suo ultimo fondamento
lo sfruttamento del lavoro salariato, e questa realtà difficile da
cogliere nei periodi di euforia speculativa viene puntualmente a galla
nei momenti di crisi economica, quando «la gente avverte l’urgenza di
acquisire beni solidi, che facciano da àncora a ciò che è diventato
volatile». Non a caso oggi economisti di statura mondiale che non
credono in una prossima “uscita dal tunnel” dell’economia mondiale
consigliano la gente a investire nel vecchio e caro oro.
A proposito del noto guru genovese tirato in ballo da Bisin
nell’articolo visto sopra, ecco una gustosa frecciatina lanciatagli dal
blogger Mario Seminero: «E così, dopo l’Argentina, abbiamo inseguito la
bufala dell’Islanda che ha fatto
“default controllato”
e non avrebbe pagato i propri debiti, Anche queste sono purissime
idiozie che si squagliano come neve al sole della realtà. Vedo che ora
Grillo sta cercando di rifugiarsi in Ecuador (un po’ come fatto da
Julian Assange, ma per motivazioni ben più nobili e serie), e si è
trovato un nuovo modello da presentare ai gonzi di casa nostra. Un
modello talmente sovrano che l’Ecuador è un paese completamente
dollarizzato. Ci vuole sempre molta pazienza, diciamo» (
Phastidio, 27 gennaio 2014). Tempi duri per i sovranisti che vanno a caccia di
modelli “alternativi”.
fonte:
Sebastiano Isaia